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Cultura, studio e lavoro

Stiamo ancora rileggendo scritti e opere di Don Milani quando ci piombano addosso e contemporaneamente le notizie sul lutto nazionale di più giorni per Berlusconi (è dalla morte di Cavour che non si era proclamato per un ex capo di Governo) e sulle normative per l’intelligenza artificiale.

Le prime domande che mi pongo, con “Lettera a una professoressa” ancora aperto davanti a me, sono queste: perché chi ha inventato il binomio orribile “Intelligenza artificiale” non ha letto questo libro e non è andato in pellegrinaggio a Barbiana? Perché si è voluto consolidare una “cultura tutta subordinata all’omologazione tecnologica e ai proprietari delle tecnologie” (come recita giustamente l’ultimo numero della nostra Newsletter)?

Ma non basta: nel grido reiterata iuvant e negli stessi giorni in cui si cerca di normare l’uso “dell’intelligenza artificiale”, il nostro capo del Governo ci impone di “celebrare” anche il lutto nazionale in deferenza all’artefice della nega-cultura degli ultimi trent’anni, grande padrone delle televisioni e dell’informazione/formazione, modificatore insinuante e subdolo di valori e obiettivi culturali, sociali e individuali. 

Rileggendo questo “trentennio”, ci accorgiamo dei disastri culturali e formativi che sono stati introdotti e compiuti, come il passaggio dai valori della solidarietà a quello della sottomissione alle leggi dell’individualismo, e ancora dal valore della cultura ai disvalori della cupidigia, dai valori di una costituenda scuola sociale e di massa incentrata sul confronto e sull’educazione ai contenuti delle discipline, a quello del riduzionismo degli insegnamenti professionalizzanti ma non come applicazioni specifiche di conoscenze generali ma come apprendimento di segmenti del sapere.

Non ho paura delle parole, ma m’indigna culturalmente intendere l’intelligenza come artificiale. È una contraddizione in termini; ciò che è “fatto” (pensato, eseguito e distruggibile) dalle “arti” (arti-ficio) non ha i principi di autonomia ma solo quelli di applicazione. L’intelligenza è la matrice della cultura, è il presupposto per conoscere quello che non sappiamo, per studiare l’ignoto. L’intelligenza è morale, è presupposto di valori, è soprattutto a-temporale e non può essere artificiale.

Pensiamo al tempo come valore relativo, che esiste solo nella nostra comodità di misurare il quotidiano, che è variabile dipendente solo dall’uomo ma indipendente rispetto all’universo e ancora di più al pluri-verso.

E ciò che mi offusca il futuro è che stiamo correndo sempre di più verso le comodità minute che le tecnologie ci daranno scambiandole per valori.

Sono trent’anni che le tre “I” (Internet, Impresa, Inglese) condizionano le nostre scuole, allontanano sempre di più la formazione scolastica e sociale dalla coscienza critica che è metodo e strumento di apprendimento di valori e conoscenze, per relegarla invece solo nelle conoscenze tecniche; è così che le scuole invitano (e prendo l’esempio per il tutto) a partecipare ai processi omologativi, che permettono che la tecnologia omologhi e si imponga come denominatore di verifica delle azioni e del progresso.

Il binomio quindi deve essere “Intelligenza-Cultura”, con esercizio nella filosofia, nelle discipline astratte, nel sapere generalista e complesso e nelle scienze.

Senza i trent’anni di berlusconismo nel nostro Paese e di processi simili nei Paesi capaci di produrre omologazione, non saremmo mai arrivati all’imperativo di semplificare ragionamenti complessi, di dileggiare la complessità come astrattezza e non astrazione, di diventare nemici delle ricchezze sperimentali del fare, del dubbio scientifico, del riconoscere il valore dell’errore. Ce ne rendiamo conto se quantifichiamo le risorse spese per le ricerche di base (quelle che si occupano di futuro) e  quelle spese per le ricerche applicate (che rispondono a temi di congiuntura).

Ormai si studia solo quello che serve e a tutti i livelli, dalle scuole professionali ai centri di ricerca; è anche per questo che abbiamo perso i valori del lavoro, della pratica attività sensibile, della formazione del futuro attraverso il fare che è figlio del pensare, dello studio e della cultura.

Studiare è un valore in sé, forma l’individuo che solo dopo sceglierà di applicare la sua formazione generale a una competenza specifica. Fuori da questo schema c’è un mondo diviso in caste e censo. Ha ragione don Milani.

I valori e la dignità risiedono nello studio e nel lavoro e si esprimono con le libertà democratiche, con la giustizia sociale, con la partecipazione attiva.

Ci ritroviamo con le tre I perché abbiamo messo nell’angolo o nelle nicchie di resistenza, la cultura legata ai valori sociali, all’emancipazione, alla partecipazione, al dialogo tra diversi, alla ricerca delle compatibilità per ognuno; una cultura che propone un mondo giusto e di uguali, un mondo di partecipazione e di dialogo. 

Sono sempre più sfumati gli studi sulla complessità e abbiamo dimenticato troppo presto che conoscere è il valore e il lavoro è la dignità.

È su questo assioma che è nata la scuola di Barbiana e sono nati quelli che hanno continuato ad insegnare in ogni ordine e grado riferendosi a questa cultura, sono rimasti fedeli ai criteri formativi dell’educazione, della coscienza critica, del valore della ricerca e non del consolidato, alla ricerca di base.

Educatrici stupende hanno lasciato possibili carriere universitarie per andare a fare scuola negli asili nido, nel Nido Verde, nelle scuole primarie, perché si deve formare e educare da subito, perché il futuro si deve costruire sui valori della conoscenza che ha come invarianti studio e lavoro.

Il futuroè formazione, educazione, maieutica, costruzione di percorsi, valorizzazione degli individui nella collettività; non è certo artificialità, riproduzione meccanica di dati aggregati, esaltazione dell’omologazione tecnologica.

Ho ascoltato una collega dell’Università Roma 3 sulle morti di ragazzi che sfidano la vita con velocità pazzesche, anche contromano, con scommesse e prove assurde: “L’ipotesi su cui lavoriamo è “l’omologazione da rete”; spesso non c’è distinzione tra realtà e virtualità. Apparire, essere presenti sui social e i valori  tecnologici d’uso sono gli unici valori che contano e che spesso producono salari e ricchezza”.

Forse, e seguendo anche quanto scritto nel precedente numero della Newsletter, è ora di riprendere in mano, anche come parti sociali, la formazione e l’educazione culturale incentrata sullo studio e sul lavoro. 

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