Nella storica alternanza tra verticalizzazione del potere e della organizzazione della società e orizzontalizzazione capillare di essi, l’autonomia differenziata si pone come un ectoplasma concettuale. Così come è coniugata nella versione dell’attuale Governo, non la si può catalogare né nella prima dimensione, né nella seconda.
Non è pensata e regolata per essere un sistema di federalizzazione delle istituzioni perché sembra soltanto un vero e proprio spolpamento delle funzioni dello Stato, compresa la frontiera fiscale, finora considerata inviolabile. Un ridimensionamento di verticalità sostanziale, ma lasciando inalterata l’impalcatura preesistente. Anzi, qualora fosse portato avanti il disegno di Presidenzialismo che il centro destra sembra privilegiare, si configurerebbe un surplus di potere non super partes ma in concorrenza con altri poteri, con le stesse caratteristiche. Nessuno infatti, nemmeno i proponenti, considerano l’autonomia differenziata una forma di orizzontalizzazione delle sedi di comando politico e istituzionale. Essa è presentata come il potenziamento di un’autonomia che dalla nascita delle Regioni è stata sempre considerata compressa, che dall’avvento della Lega ha avuto afflati autonomisti e finanche separatisti, ignorando del tutto la questione della valorizzazione dei territori. La Padania era una immagine, da sventolare nell’opinione pubblica, ma non un modello di convivenza comunitaria che dal basso definiva aggregazioni sociali e territoriali. Infatti, è finita nel dimenticatoio.
In altre parole, l’autonomia differenziata è un ibrido non di culture solidificate di cui si cerca una mediazione ragionata e ragionevole, ma di valutazioni politiche – di forte valenza opportunistica, dopo aver perso per strada la vocazione all’alterità – che non intacca ciò che già è noto, nel bene e nel male e nello stesso tempo non segnala un prospettiva diversa, che allarghi la dimensione della partecipazione democratica. Ora, si gioca sulle emozioni. E’ in fondo il trionfo dell’opinionismo, largamente influenzante l’andamento degli eventi collettivi di questa fase della società italiana. La politica ne è strapiena, i corpi intermedi ne soffrono, il “quarto potere” ci sguazza. E’ l’opinionismo che alimenta la necessità di trasferire verticalità alle Regioni, di creare un’alternativa al verticalismo dello Stato (che è già insidiato dall’inevitabile trasferimento di poteri e influenze all’Europa, man mano che questa acquista le fattezze di una Unione vera). Non c’è traccia di argomento che spieghi che è la realtà ad imporla.
Durante la pandemia – l’evento più realistico per tutti nello stesso, lungo momento – è successo quello che Giuseppe De Rita descrive brevemente ma acutamente: “il processo storico in corso accetta passivamente la tanto esaltata verticalizzazione, ma continua a premiare la dimensione orizzontale e molecolare della società” (in Ridiamo spazio ai livelli intermedi. Maggio 2022 edizione fuori commercio; per gli amici della cultura Censis).
Al di là di ciò che fece il Governo in quei frangenti drammatici, i Presidenti delle Regioni sono stati indicati dai mass media e dall’opinione prevalente come i grandi registi della coesione sociale. In realtà essi – compresi quelli che stavano tutte le sere in televisione a parlar bene di sé stessi – hanno dimostrato verticismo e confusione, spesso rallentando l’iter di decisioni urgenti e vitali. E per di più, facendo vedere che in Italia ci sono 21 sistemi sanitari. Senza l’impegno, fino allo sfinimento, dei sindaci delle grandi come delle piccole e medie città, delle intese tra sindacato e azienda per impiegare in sicurezza lavoratrici e lavoratori e dell’agire silenzioso del volontariato e del personale sanitario, impegno in gran parte esercitato a prescindere dal ruolo delle Regioni, le popolazioni non avrebbero corrisposto con senso civico e pazienza all’urto del Covid. Soltanto questi soggetti istituzionali e sociali hanno praticato l’orizzontalità e la gente ne è stata riconoscente.
In realtà, non c’è stato un vero dibattito sul ruolo delle Regioni, ovunque cresciute burocraticamente a dismisura (la Lombardia, ai tempi di Formigoni, aprì un’ambasciata a Washington), rimaste sempre una “grande USL” (l’80% del bilancio è per la Sanità), spesso coinvolte in scandali e malgoverni, ma soprattutto incapaci di formare classi dirigenti politiche di spessore nazionale, indipendentemente dagli schieramenti partitici. Rispetto allo Stato, si sentono alternative o più capaci solo in termini verticistici, non amano l’orizzontalità, condizione essenziale per far funzionare bene i trasporti, far incontrare al meglio domanda e offerta del lavoro, per adeguare con lungimiranza le strutture scolastiche e soprattutto risviluppare la medicina di territorio. Tutte funzioni che l’ autonomia differenziata vorrebbe consolidare o spostare in capo alle Regioni.
Le popolazioni hanno consapevolezza di questo sentimento di altezzosità dell’istituzione Regione e del suo personale politico. Le elezioni regionali marcano astensioni simili se non più marcate di quelle politiche nazionali. Qualcosa vuol dire e quindi procedere a testa bassa su una falsa prospettiva è molto peggio che fermarsi, prendere fiato e trovare strade che ricreino sintonia con le persone in carne ed ossa.