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L’ economia sostenibile è facile, remunerativa e piena di lavoro 

L’affare verde, il Green deal, si farà; entro il 2030 dovrà essere realizzato il ripristino della natura in una percentuale fissa (20%) delle aree marine e terrestri dell’UE.

Se le forze sociali e politiche resteranno sufficienti per portarlo a compimento, sarà un “vero affare” nel significato più usuale del termine per cittadini, biomasse, ecosistemi; un “affare” nel rapporto struttura/forma di paesaggi ed ecosistemi.

Purtroppo è d’obbligo il dubbio; il voto, sofferto nei numeri (336 sì, 300 no, 13 astensioni) e nella composizione (21 voti dei Popolari) lascia prevedere come nelle prossime elezioni europee molte cose potrebbero mutare. Lobby, conservatori e negazionisti sono lì e sempre pronti.

Il dubbio è figlio anche della solita domanda: perché la transizione verso l’economia dello sviluppo sostenibile genera tanto timore? La transizione è un processo verso nuovi equilibri fatti di compatibilità, riconversioni, gestione. Se le Politiche istituzionali, economiche e sociali faranno il loro mestiere costruendo priorità e producendo progetti prima esemplificativi e poi sempre più diffusi, la transizione sarà culturale ed economica a garanzia del lavoro e del benessere.

E poi in questi ultimi cinquant’anni ne abbiamo cambiate tante di economie; l’ultima nata, il capitalismo informazionale (come lo chiama Castells), ha compiuto da poco l’età per essere maggiorenne e ha anche ridisegnato la mappa delle ricchezze individuali, delle materie prime ambite e ricercate, ha creato nuovi e inediti lavori (basta pensare agli influencer), nuovi gruppi sociali (i followers), una nuova formazione del consenso e dell’informazione.

E infine, c’è più lavoro nella riconversione sostenibile dello sviluppo che nel perseguire quelle poche quantità di lavoro che ancora richiede lo sviluppo insostenibile. Nel mondo e nelle aree industrializzate e urbanizzate c’è più bisogno di operare per la qualità che non per le quantità; per i territori assoggettati per secoli o decenni allo sviluppo insostenibile c’è bisogno di grandi e diffuse opere di riqualificazione urbana, agricola e marina.

Per riqualificare territori assoggettati in questi ultimi decenni a una piccola e marginale crescita destrutturata basta un po’ di “cipria”, ma rendere ecologicamente sostenibile la Quinta Strada di New York, forse non si può fare e comunque servirebbe il bilancio di uno Stato (ma ricco). 

Scrivo questo articolo mentre mi trovo nella Locride, nel profondo Sud, dove con il GAL Terre Locridee abbiamo avviato ”L’Atelier dell’abitare l’ecosistema”, una struttura di progettazione/realizzazione dello sviluppo sostenibile. L’obiettivo è quello di realizzare progetti virtuosi per la qualificazione economica e sociale dell’area con le regole dell’equilibrio sistemico ed ecosistemico.

Va detto che, per loro fortuna, sono aree dove per le riqualificazioni delle negatività prodotte dal poco sviluppo insostenibile realizzato, è sufficiente “la cipria”, mentre per i processi di qualificazione è possibile poggiarsi su territori con una delle biodiversità più importanti del Mediterraneo, con processi produttivi in agricoltura misurati quasi sempre sulle compatibilità ambientali e dove cultura, scienza e dottrina misurate sugli equilibri sistemici ed ecosistemici, per filosofia e valore del tempo sono immediatamente percepibili.

È strana la storia “unitaria” del “profondo Sud”. Negli ultimi 150 anni il Meridione è stato spogliato prima delle sue ricchezze (lavoro in primis, ma anche tessuti industriali e produttivi, leccete e foreste primarie – per fare carbone -, ambiente storico-naturale, ecc.); poi si è fatto di tutto per imporre a questi territori lo sviluppo insostenibile e nelle sue parti più insostenibili (petrolchimico, Taranto, e chi più ne ha, più ne metta); poi è stato culturalmente condannato perché voleva rimanere legato a una cultura della sostenibilità non solo economica.

Sappiamo bene che la cultura dei vincitori si esprime nell’esportare i loro valori e le loro economie nei territori vinti; del resto chi è che rinuncia ad allargare i propri mercati interni rendendo quelli acquisiti dipendenti?

È così che per nostra fortuna siamo arrivati al consenso culturale, sociale e ora anche legislativo (in parte) e istituzionale (sempre fatte salve lobby e confraternite) per lo sviluppo sostenibile. Bastava cogliere la palla al balzo … e con l’Atelier ci stiamo provando.

Il punto di forza è questo: lo sviluppo sostenibile come sviluppo locale, figlio del pensare globale e agire locale, matrice di economie integrate (agricole, manifatturiere e urbane) costruite sull’economia circolare (attenzione, circolare e non semplicemente del riciclo).

Il successo o meno sarà misurato sul confronto dei risultati: quelli ottenuti dallo sviluppo insostenibile nei suoi numerosi tentativi di omologare un territorio non omologabile su quei valori, e quelli che il GAL sarà capace di realizzare con l’Atelier dell’abitare l’ecosistema.

Pensare globale? Il 14 e 15 luglio riceveremo una delegazione da Cuba e stiamo allestendo un piano di cooperazione con le molte aree ipersfigate (come direbbero i miei studenti) dello sviluppo insostenibile per confrontare il nostro caso campione e promuovere il vasto campo dello sviluppo sostenibile.

Tranquilli! Sappiamo che lo sviluppo sostenibile è sviluppo locale poggiato sulla partecipazione e condivisione delle risorse culturali e ambientali del luogo.

Quindi non ci sarà nessuna omologazione o sovrapposizione, ma dialogo e formazione di una cultura poliedricamente verificata.

Ho ben chiaro che tutto si misura con i numeri e che la prima misura di questo particolare tutto è l’economia. Non siamo sprovveduti e abbiamo verificato quanti posti di lavoro potranno nascere, e soprattutto quanti ne potranno nascere nel manifatturiero oltre che nell’agricoltura, nell’urbano e nel turismo. Se il trend sarà confermato dalla realtà, sicuramente avremo una NEO-industrializzazione di queste terre. Parlo di NEO riferendomi a due elementi: il primo, quello trascorso, il fallimento dell’industrializzazione per omologazione; il secondo è il ricordo del peso specifico dell’industria pre-unitaria che quest’area aveva nel Regno di Napoli.

Non riporto i numeri sia perché non è questa la sede, sia perché sono a disposizione per chi fosse interessato, e sia perché preferisco il valore della filosofia e (come ho scritto nell’articolo precedente) il rapporto cultura-lavoro con una cultura che può essere esemplificata nella scuola di Barbiana e che prova a riproporsi.

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