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L’irregolarità nel lavoro non è un castigo di Dio

Quando si parla della condizione del lavoro dipendente, soprattutto nel settore privato, c’è il rischio di oscillare tra il catastrofismo e l’ottimismo di maniera. Il primo risente di una cultura antindustrialista che vede solo sfruttamento  e dappertutto e il secondo è fondamentalmente giustificazionista dei comportamenti proprietari e manageriali. Paraocchi ideologici che tendono a deformare la realtà che soltanto una sempre più approfondita analisi può far emergere nelle sue molteplici sfaccettature.

Un interessante spaccato ci è offerto da una ricerca della UIL (“Il lavoro irregolare, un bilancio di 10 anni attraverso l’analisi dei dati dell’attività ispettiva del Ministero del lavoro, dell’Inps e dell’Inail”, ottobre 2016). L’area osservata è quella del lavoro dipendente di aziende di tutti i settori produttivi privati, visitate dagli ispettori. Quindi, una parte soltanto del grande mare magnum del lavoro non regolare (lavoro nero, voucher, cococo, partite iva fasulle,ecc.); cioè quello più contiguo al lavoro regolare perché presente in realtà organizzate.

La sintesi di un’osservazione decennale (2006/2015) è questa: mediamente, ogni anno, sono state ispezionate 270.000 aziende (circa il 10% delle aziende iscritte all’Inps) nelle quali è stato registrato un tasso di irregolarità pari al 65,5%, corrispondente a 250.000 lavoratori trovati non in regola e tra questi il 53% risultano addirittura pagati in nero. Per effetto di queste irregolarità, l’evasione contributiva e dei premi è stata mediamente di 1,5 miliardi di euro per ciascun anno. Naturalmente, il Mezzogiorno è l’area con la più alta incidenza di lavoro nero (77,4% degli irregolari nel 2015); sorprendentemente, la Liguria è la regione a più alto indice di aziende irregolari (73,5 nel 2015); inevitabilmente, l’edilizia è il settore con la percentuale più elevata di aziende irregolari (63,7 nel 2015).

Se lo scenario è quello sintetizzato, non si può dire che sia roseo. Innanzitutto perché le ispezioni fatte annualmente sono relativamente poche. Il cronico sottodimensionamento del personale addetto a questo intervento, produce un indice di rischio che mediamente è di un’ispezione ogni 10 anni. Anche il più devoto a Padre Pio può essere indotto a peccare. E’ auspicabile che entrando a regime l’Ispettorato Nazionale (costituito recentemente, facendo confluire in esso gli ispettori del lavoro, quelli dell’Inps e degli enti assicurativi) e la recente legge sul caporalato,  la potenzialità ispettiva aumenti  significativamente e con essa la dissuasione ad evadere norme e contratti da parte delle aziende.

In secondo luogo, va sottolineato che a rimetterci non sono soltanto  le casse della previdenza ma anche quelle dell’erario. Se, infatti, la metà delle irregolarità è ascrivibile al lavoro nero, non si pagano né contributi, né tasse. Nulla si sa, da questa rilevazione, sull’entità dei versamenti recuperati effettivamente, ma è da presumere che quelle casse il pieno non lo faranno mai. Al massimo, sono contabilizzati come crediti che prima o poi andranno dichiarati inesigibili. Per le aziende e i lavoratori che sono nell’area della regolarità, il rischio di essere vittime di un dumping per di più spesso impunito è ancora molto consistente.

Infine, una considerazione sul sistema delle relazioni sindacali. E’ ancora troppo fragile se il panorama è così carico di buchi neri. Su questioni come questa dell’irregolarità gestionale delle risorse umane, non basta l’attività ispettiva e repressiva. Sono necessarie la prevenzione e il costante controllo della vita aziendale che soltanto il sindacato può assicurare nel tempo. Una presenza non necessariamente conflittuale se non antagonista; anzi, il miglior modo di esercitare quei ruoli è la partecipazione, intesa come confronto continuo e alla pari tra rappresentanti dell’azienda e dei lavoratori.

L’obiezione che l’irregolarità è probabilmente più elevata nelle aziende di minori dimensioni e quindi a più scarsa sindacalizzazione, non è sufficiente per dare segni di rassegnazione e passare ad un altro argomento. Qui, entra in gioco un nuovo ruolo del contratto nazionale, attraverso il quale far valere il diritto alla conoscenza della composizione degli organici e delle professionalità utilizzate, sia pure con contratti non tradizionali e stabili, anche ai fini dei benefit da distribuire ai lavoratori attraverso le varie forme di welfare aziendale.

In definitiva, anche da questa inchiesta si comprende che il benessere della condizione di lavoro è un continuo divenire. Non è conquistato una volta per tutte. E quindi, di volta in volta, bisogna lubrificare la strumentazione più efficace per non cadere in estremismi improduttivi e depressivi.

   

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