I Ribelli Houthi continuano a colpire mercantili occidentali che transitano nel Mar Rosso, creando gravissimi danni all’economia. Sappiamo che agiscono, per procura, “manovrati” dall’Iran. Prima, però, ti chiedo: come nascono? Cosa li differenzia dagli altri gruppi estremisti islamisti?
Gli Houthi, noti anche come Ansar Allah o “Partigiani di Dio”, sono un gruppo politico-militare fondato nello Yemen negli anni ’90 e il cui nome deriva da quello del loro fondatore, Hussein Badreddin al-Houthi. Il gruppo si è affermato come attore non statale fondamentale nella politica yemenita, specialmente dopo aver preso il controllo della capitale, Sana’a, nel 2014. Gli Houthi sono generalmente associati alla componente zaydita dell’islam sciita, sebbene abbiano ottenuto un certo sostegno anche da altre fazioni yemenite. Il loro slogan “Dio è grande, la morte all’America, la morte a Israele, maledizione sugli ebrei, vittoria all’Islam” ha da sempre suscitato preoccupazioni internazionali e li ha portati ad essere al centro di un conflitto armato in corso nello Yemen, con diverse potenze regionali e internazionali coinvolte nei combattimenti, che sono oggi estesi al traffico commerciale nel Mar Rosso. Gli Houthi si differenziano da altri movimenti islamisti sotto diversi aspetti. In primo luogo l’appartenenza religiosa. Gli Houthi sono sciiti, mentre gli altri movimenti islamisti, ad esempio i Fratelli Musulmani, sono prevalentemente sunniti. Sotto il profilo degli obiettivi politici gli Houthi si concentrano principalmente sulla lotta per il controllo politico nello Yemen e sull’affermazione dei diritti della minoranza zaydita. Altri movimenti islamisti hanno invece tipicamente obiettivi più ampi, come l’instaurazione di uno stato islamico, o califfato, basato sulla sharia. In merito alle loro alleanze internazionali gli Houthi hanno legami stabili con l’Iran, mentre altri movimenti islamisti, appunto sunniti, sono maggiormente legati all’Arabia Saudita a al Qatar. In sintesi, dunque, sebbene gli Houthi condividano alcuni tratti con altri movimenti islamisti, come l’impegno politico e la visione di un ordine sociale islamico, si distinguono nettamente per la loro appartenenza religiosa, gli obiettivi specifici e le alleanze.
È sufficiente la teoria della “proxy war” (guerra per procura) per spiegare il loro rapporto con l’Iran?
Naturalmente, problemi complessi richiedono approcci analitici complessi e una sola prospettiva non riesce a cogliere tutte le sfumature della crisi – o meglio delle crisi – in Medio Oriente. Tuttavia credo che applicare il modello analitico della proxy war theory, o meglio della relazione principale-agente, possa fornire spunti molto interessanti per capire come siamo arrivati a questo livello di conflitto e come esso potrebbe evolvere. È chiaro, ad esempio, che i ribelli Houthi sono un’organizzazione che deve molto in termini di supporto soprattutto all’Iran. Per questo motivo è lecito pensare che vi sia una strategia regionale in atto, che spiegherebbe l’intensificarsi delle loro azioni proprio a seguito dello scoppio delle ostilità a Gaza. Una strategia che dipende in gran parte dalla postura che la Repubblica Islamica ha deciso di tenere nel teatro regionale, ovvero quella di “agent of chaos”, che mira a ridurre la presenza e l’influenza occidentale in Medio Oriente. Esiste poi la questione più complessa della strategia globale russa, che mira a destabilizzare e indebolire Europa e Stati Uniti sia all’esterno, sia dall’interno tramite strumenti di guerra ibrida e disinformazione. Con una battuta di potrebbe descrivere il rapporto tra questi attori come una Matrioska, dove gli Houthi sono bambole dell’Iran e questo è per molti versi, e con le dovute differenze, una bambola di Mosca.
Hanno interessi convergenti o pensi che possono rendersi “autonomi”?
La questione è precisamente quella di capire quanto gli interessi tra Houthi e Teheran siano convergenti e quanto invece non lo siano. Quando parliamo di proxy, ovvero di agenti o mandatari, non dobbiamo commette l’errore di pensare che questi ultimi siano delle marionette nelle mani dello Stato principale, o mandante. Gli Houthi non si limitano ad eseguire pedissequamente gli ordini dell’Iran, pur essendo ovvio che partecipano alla sua strategia. Esiste piuttosto una complessa rete di relazioni, da cui ha origine una struttura di incentivi e penalità, centrata sulla necessità per entrambi gli attori di negoziare i propri obiettivi di breve e lungo periodo al fine di massimizzare i propri vantaggi, ovviamente minimizzando al tempo stesso i costi. Certo è che esiste una dimensione gerarchica del rapporto tra agenti e principale, dove i primi dipendono dal principale sotto molti aspetti operativi. Ma allo stesso tempo, quanto più gli agenti diventano indispensabili per il principale, tanto più sono incentivati ad alzare il prezzo della loro cooperazione e creare situazioni in cui sono loro a beneficiare di più e in modo autonomo del rapporto con il mandante. Ciò è ancora più ovvio quando manca chiarezza sugli obiettivi, sulla loro scalabilità, come nel caso della strategia di destabilizzazione iraniana.
Ma conviene all’Iran destabilizzare l’area?
Direi di sì, e per diverse ragioni. Innanzitutto la destabilizzazione aiuta l’Iran a livello regionale nel quadro della storica rivalità con l’Arabia Saudita. Una lotta per l’egemonia che ha importanti implicazioni sia geopolitiche, sia culturali, ad esempio la competizione per la leadership religiosa e ideologica. Ma l’aumento dei conflitti e dell’instabilità della regione è soprattutto funzionale a spingere gli Stati Uniti al ritiro, o quantomeno al ridimensionamento, della loro presenza in Medio Oriente. Questo, in seconda battuta, aiuterebbe enormemente la Russia nel conflitto con l’Occidente. Farebbe dunque dell’Iran il gatekeeper ideale di Mosca nella regione. Un fatto che ovviamente promuoverebbe l’Iran ad attore indispensabile e potente a livello globale.
L’UE ha dato avvio alla missione “Aspide”. È sufficiente come deterrenza?
È senz’altro un buon punto di partenza, ma non è abbastanza. In una frase, la descriverei come “too late and one dollar short”. Questo significa che oramai l’Occidente fa poca deterrenza e la fa anche male. Il periodo abbastanza lungo di stabilità relativa, successiva per intenderci alla fine della Guerra Fredda, ha fatto sì che gli Stati Uniti e i loro alleati cadessero nella trappola concettuale di pensare ogni crisi come risolvibile tramite il negoziato, nel quadro del diritto internazionale, o al massimo di ricorrere allo strumento sanzionatorio. Per anni la deterrenza è stata vista in Occidente come un istituto quasi barbarico appartenente al passato, sottofinanziato e scarsamente operativo, e mantenuto quasi solo nella sua forma più estrema di minaccia nucleare. Con il conflitto in Ucraina, ma anche adesso con la crisi mediorientale e in futuro probabilmente con l’inizio di nuovi conflitti in Europa orientale e nell’Indo-Pacifico, il mondo si è risvegliato nuovamente multipolare. Un sistema delle relazioni internazionali non più saldamente ancorato al diritto internazionale, altamente competitivo, che necessita una rivalutazione dello stumento militare proprio come garante della pace secondo i canoni del “si vis pacem para bellum”. Se si vuole la pace, bisogna abbandonare le illusioni e le fantasie e riscoprire il Realismo Strategico. Purtroppo, però, è un fatto che in Europa e Stati Uniti si fa fatica a capire ed accettare. Almeno non come lo si accetta in altri paesi, a partire da Russia e Cina, che da anni si preparano a questi scenari. Questo fatto purtroppo lo vediamo nella reazione tardiva e scoordinata agli eventi del Mar Rosso. Ma non solo, anche nel dibattito sulla guerra a Gaza.
Esiste un legame tra questi attacchi e il conflitto a Gaza? È troppo “meccanicistico” fare questa correlazione?
Esiste certamente una correlazione nel senso che il conflitto a Gaza, ma anche in precedenza il conflitto in Ucraina, ha aperto una finestra di opportunità per questi attori di esercitare un’azione decisiva di logoramento nei confronti dei paesi occidentali. L’apertura contemporanea di più focolai di crisi ha come risultato di assottigliare le già limitate risorse a disposizione di Stati Uniti ed Europa, amplificando la crisi economica, e al tempo stesso quello di aprire dei veri e propri fronti di lotta interna in quei paesi direttamente coinvolti. Ciò è estremamente evidente nell’inasprimento del dibattito politico che porta in molti casi alla paralisi decisionale e a spaccature a livello di comunità internazionale. Quello che non credo sia invece plausibile è una correlazione diretta tale da suggerire che la risoluzione del problema Houthi passi da un cessate il fuoco in Palestina. Valutazioni di questo tipo sono, a mio parere, il frutto di scarse capacità analitiche o di un pensiero ideologizzato, che fanno sì che si perda di vista il quadro generale di conflittualità diffusa e crescente che caratterizza il mondo post-COVID.
Cina e Russia certamente non guardano male queste azioni. Ma alla Cina conviene davvero?
Da un lato ovviamente è ragionevole pensare che il protrarsi della crisi comporti degli svantaggi anche per Pechino. È chiaro che un aumento dei costi di trasporto comporta una contrazione della domanda di beni prodotti dalla manifattura cinese. D’altra parte, tuttavia, la domanda di prodotti cinesi non è pienamente elastica, in quando Stati Uniti ed Europa non sono comunque competitivi in diversi settori manifatturieri, e l’aumento combinato dei costi delle materie prime annulla molti dei vantaggi competitivi per le nostre industrie nazionali. La dipendenza dalla Cina è ormai tale che uno shock di questo tipo non comporta, almeno nel breve e medio periodo, una variazione apprezzabile. Inoltre, la crisi offre almeno due vantaggi a Pechino. In primo luogo, come nel caso della Russia, la crisi crea le condizioni per una perdita di influenza occidentale in Medio Oriente e per estensione in Africa. Inoltre, essa dà a Pechino la possibilità di offrirsi come mediatore della crisi aumentando le sue credenziali sul piano internazionale. Infine, proprio in ragione di questa considerazione, potrebbe nel lungo periodo portare l’Europa a rivalutare la sua partecipazione al progetto della Nuova Via della Seta e, più in generale, a far sì che la Cina sostituisca gli Stati Uniti come garante dei traffici commerciali globali. Uno scenario a cui la Marina Militare cinese si sta preparando ormai da anni.
Una battuta sul Medio Oriente, come evolverà la situazione nei prossimi mesi?
È molto difficile dirlo. In prima battuta dobbiamo pensare alla possibilità che il conflitto si espanda. Anche in questo caso il motivo opportunistico di un’espansione arriva dal prosieguo dell’azione militare israeliana nella Striscia di Gaza. Qualora il conflitto dovesse protrarsi ulteriormente, è altamente probabile che si aprano altri fronti, ad esempio a nord con Hezbollah o in Cisgiordania. Ma anche se si dovesse pervenire a un cessate il fuoco in tempi relativamente brevi, a margine ad esempio della conclusione delle operazioni israeliane a Rafah, considero probabile il perdurare dell’instabilità nel Mar Rosso e, per estensione, nel Corno d’Africa. Qui ad esempio dobbiamo monitorare con attenzione l’evoluzione della crisi tra Somalia e Somaliland, un teatro dove l’Italia potrebbe ricoprire un ruolo molto importante. Ma non solo, ovviamente. Pensiamo, solo per fare alcuni esempi, al riaccendersi degli scontri in Libia o Kossovo, al dilagare del terrorismo nel Sahel, all’aumentare delle tensioni tra Polonia e Bielorussia e all’accuirsi delle tensioni nell’Indo-Pacifico. Stiamo vivendo una congiuntura molto pericolosa delle relazioni internazionali, che va navigata con estrema cautela evitando errori di calcolo e decisioni emotive, ma anche smettendo di illudersi che basti parlare di pace per evitare la guerra.
Andrea Molle è professore associato presso la Chapman University (Orange, California) dove insegna Relazioni Internazionali, Teoria dei Giochi e Metodi per la Ricerca.
DAL SITO: https://www.rainews.it/articoli/2024/02/la-strategia-dei-ribelli-houthi-intervista-ad-andrea-molle-5d5ee5b2-54f0-42ec-8501-c052130dac90.html