Nunzia De Girolamo chiude la trasmissione per carenza d’audience e con lei il talk show politico, dal prime time Rai, scompare. Possibile, viene da chiedersi, che, mentre La7 e Rete4 sulla discussione politica ci campano, proprio la Rai, il Servizio Pubblico ricolmo di giornalisti, tecnici e amministrativi non riesca a sedurre la sua parte di quei sette/otto milioni di persone che da anni si spartiscono fra la sponda liberal di Floris e Formigli e quella clownesca o parrocchiale di Giordano e di Del Debbio, il Professore? Possibile che Berlinguer-Corona alla guida di un infotainment rabberciato, lascino nel martedì di Rai Tre un vuoto incolmabile traslocando a Rete4 lascino e per di più, invece di smarrirsi tra gli alieni, ci si accomodino – e con essi il loro pubblico – come fossero arrivati finalmente (con tanto di berci fuori onda) a casa propria?
Per raccapezzarsi occorre, ad occhio e croce, considerare la faccenda su due piani: quello del programma e quello dell’azienda.
Totem e talk show
Quanto al programma è bene avere a mente che il talk show politico, anche e specialmente se per il prime time, non è generalista, ma come i social costruisce la sua “bolla” per soddisfare la propensione degli spettatori a spartirsi fra i fornitori di parole che maggiormente gli somigliano. La serendipity ci rimette ma la comprensione del testo ne guadagna perché la “confidenza” con la fonte consente il sonnellino senza perdere il contatto col discorso. Ecco perché il pubblico anche se scanala e lancia sguardi altrove, mantiene la relazione con i soliti: modi, personaggi, statuti di valori. Che conosce a fondo e non l’annoiano perché sa apprezzarne le marginali variazioni. Del resto è da quando si producono testi manoscritti, stampati, e audiovisivi, che gli autori (come Virgilio rispetto a Omero ed il Tasso verso entrambi) afferrano eterne trame e situazioni e si concentrano sulla “variazione” di caratteri e/o di snodi dell’azione. Infine, l’empatia elettiva delle tribù di spettatori assume a totem i conduttori.
Ma i totem, va da sé, non s’improvvisano né si trovano su Amazon. Per questo i conduttori fuorusciti dalla Rai – in pratica nel corso degli anni tutti quelli del prime time di parola – si sono portati appresso il “loro” pubblico lasciando l’azienda a becco asciutto. Di certo non è riuscita a totemizzarsi la sventurata De Girolamo, talmente gaia nell’intimo da non conoscere la chiave epica, essenziale per mostrarsi di sostanza. E dovendo per di più strappare gente a e Floris e Berlinguer, totem identificati, abituali e abituati a spartirsi la serata.
Dato al tribalismo dell’audience e al totemismo della conduzione il ruolo inerziale che gli spetta, è chiaro che la costruzione di un nuovo talk show politico per il prime time Rai richiederebbe almeno un paio d’anni di talento giornalistico, sapienza espressiva non esibita e forse innanzitutto, di potenti analisi delle faglie di tensione che percorrono il cosiddetto “popolo”, ovvero la miniera in cui scovare le vene che si traducono in spettatori. Impresa titanica, a dire il vero, nell’età dello smarrimento di chiavi di lettura e di progetti. E quando ormai nel talk show politico la Rai non ha il vecchio vantaggio della prima scelta per cui gli ultra sessantenni (segmento di pubblico strategico) la considerano per prima e passano ad altri canali solo di risulta. La7, Rete4 e Nove hanno definitivamente ribaltato le abitudini in proposito.
Oltre il talk show smarrito
Se si allarga lo sguardo all’azienda appare chiaro che il problema dell’informazione Rai non nasce dalla sfortunata impresa di un singolo programma, ma dalla struttura storica di quel comparto del Servizio Pubblico. L’intera schiera di giornalisti, tecnici e impiegati impegnati a “informare” è inchiodata da cinquanta anni – talvolta soffrendone, ma più spesso volentieri – al pluralismo inteso come Testate nazionali triplicate (per non dire del resto di cui sarebbe tedioso scorrere l’elenco). Quella triplicazione di strutture e di funzioni fu (previa apposita Riforma) la scorciatoia escogitata nel pieno dei ’70 per parlare ognuno ai propri dai partiti-comunitari costruiti su clientele ed ideali. Il gioco era vivace e spesso interessante perché le semantiche del linguaggio politico democristiano, comunista e socialista erano orientate a visioni culturali e politiche diverse ma non tanto da risolversi in un dialogo tra sordi o in una comunicazione ridotta all’aspetto più gestuale. Sicché bastavano le orecchie aperte per apprendere qualcosa (riforme, economia, tensioni dell’etica corrente) anche grazie alla competizione fra diversi (del resto quelli erano gli anni compresi fra il referendum sul divorzio e quello sull’aborto, dello Statuto dei lavoratori, dei primi vagiti della riforma sanitaria). Le triplici Testate costavano moltissimo già allora, ma almeno quell’assetto aveva forza e senso. Destinati a svanire quando, in capo a qualche anno, la crosta culturale del secolo breve fu rotta e irruppe l’anti verità dell’antipolitica che da noi ebbe il suo totem in Silvio Berlusconi. Da lì in poi il pluralismo delle Testate è restato come un abito fuori moda a una sfilata di Milano, continuando implacabilmente a sequestrare il 40% del personale dell’azienda nonostante che nessuno dotato di un minimo di senno riproporrebbe una simile assurdità se dovesse inventarselo da zero.
I frutti (ruoli e stipendi triplicati) di quei tempi lontani resistono sui rami nonostante la polpa sia scomparsa. E comunque paiono succosi ai circoletti di “partito” che s’attovagliano per lottizzarli non per indicare una “missione” ma per dare corso a mandati di clientela. Questa è la pietra al collo del Servizio Pubblico, perfino più della Commissione Parlamentare che dovrebbe fungere da interlocutore strategico e ne recita la petulante caricatura che sappiamo. Né esiste barba di Contratto di Servizio o Convenzione che, ammesso che qualcuno ne abbia l’intenzione, possa anche lontanamente aiutare il corpo aziendale a trasformare la vecchia zavorra in una utilissima risorsa. Non per caso le riorganizzazioni Salini-Fuortes (i due amministratori delegati precedenti al vertice attuale) hanno sì accorpato la ideazione e produzione in generi abolendo le Direzioni di Rete, ma hanno lasciato intatta la mappa organizzativa delle news e affini perché a toccarne le fila ci si muore (e forse al momento della nomina qualche amministratore è stato scelto solo dopo che ha giurato di volersene guardare).
Una Rai irreale, ma pensabile
Cinquant’anni d’esperienza, e in particolare l’ultimo trentennio, inducono a pensare che la situazione del Servizio Pubblico sia senza scampo e condannata alla deriva essenzialmente a causa della irriformabilità del suo comparto informativo nazionale. Un peccato perché l’azienda mantiene una reale consistenza industriale, quanto meno perché costretta ad andare in onda tutti i giorni, ha una videoteca vasta, profonda e bene organizzata, pronta ad avvalersi della spinta di qualche Intelligenza Artificiale – più o meno generativa – adattata su misura. Possiede dispersi nella triplicazione dei TG i mezzi per garantire in streaming una emissione globale in lingua inglese. Per non dire del potenziale insito nella struttura regionale, che insieme ad una All News non più marginale, è in grado di salire di statura e cogliere le dinamiche geopolitiche, culturali e commerciali che premono sui diversi lati dell’Italia, da sempre presa fra la sponda africana, il Medio oriente, l’Europa balcanica e quella Carolingia.
Sono cose note, esigenze da tempo messe a fuoco. Ma di certo non le soddisferà un’azienda che si ritrova da decenni congelato il grosso delle risorse finanziarie e professionali e che, in buona sostanza, s’affanna a sopravvivere sperando che un Sanremo tiri l’altro. E dunque il riorientamento strategico della Rai non muoverà dall’interno, ma dalla convinzione, ove mai s’imponesse, delle classi dirigenti, economiche, culturali e politiche, del Paese se supereranno lo scorno per la scomparsa di un talk show in cui vanno a rimirarsi.
*da Domani, febbraio 2024