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Turati contro la violenza politica di ieri e di oggi

Un attentato dinamitardo al teatro Diana di Milano, avvenuto il 23 marzo 1921, provocò 21 morti e 80 feriti. I colpevoli vennero identificati in un gruppo anarco-individualista composto da Giuseppe Mariani, ventitreenne mantovano frenatore alle Ferrovie, Giuseppe Boldrini, operaio ventisettenne anch’egli mantovano ed Ettore Aguggini operaio milanese diciannovenne. 

Intendevano colpire il questore Giovanni Guasti, rappresentante di uno Stato che deteneva in carcere Errico Malatesta, accusato di una non meglio definita attività cospirativa, il più autorevole rappresentante del movimento anarchico del tempo che aveva iniziato lo sciopero della fame. Ma lo stesso Malatesta, venuto a conoscenza dei fatti, sospese lo sciopero della fame ed espresse “il suo sdegno per il delitto esecrando che giova soltanto a chi opprime i lavoratori e a chi perseguita il nostro movimento”.

Due degli accusati, processati nel 1922, Mariani e Boldrini furono condannati all’ergastolo, Aguggini a 30 anni. Uscito dal carcere per effetto dell’amnistia il 1° luglio 1946, Giuseppe Mariani pubblicò un libro (“Memorie di un ex terrorista” dove racconta i particolari dell’attentato e riconosce l’inutilità della violenza. Morirà a Sestri Levante nel 1974. Alcuni giorni dopo strage, la sera del 7 aprile 1921, Filippo Turati commemora al Teatro del Popolo di Milano le vittime dell’attentato con un memorabile discorso che ripropone con fermezza il suo monito contro la violenza, la “più pesante eredità della guerra”, da chiunque praticata. 

In pieno “biennio nero” che era seguito al “biennio rosso” del 1919-1920, Turati aveva affrontato con grande coraggio lo stesso argomento pochi mesi prima al Congresso del PSI di Livorno quando arrivò a sfidare massimalisti e comunisti (che avrebbero in quei giorni dato vita al PCd’Italia) con la drammatica e provocatoria affermazione: “Compagni, il fascismo lo creiamo noi!”

Di fronte ai morti del Diana, Turati rifiuta in via di principio che debba esser solo l’enorme numero delle vittime a suscitare sdegno e condanna. Ogni singolo delitto, di qualunque origine fossero le vittime e i responsabili doveva suscitare un fermo rifiuto. “No alla violenza!” è l’appello di Turati che si rivolge all’intera società e non fa alcuna distinzione. Respinge la tragica illusione che le iniquità profonde e le ingiustizie gravi e diffuse potessero essere affrontate con il ricorso alla violenza perché l’unica via praticabile rimaneva quella di realizzare gradualmente il progresso sociale nel rispetto della democrazia.

La strage si compie in un paese attraversato da una guerra civile strisciante, in cui “Tutti furono lupi, qualche volta nelle intenzioni, se non sempre nei fatti”. Ma per Turati le vittime sono uguali nella solennità tragica della morte, esse stesse rifiutano che la violenza sia legittima, utile e necessaria: “Uccidere poco o uccidere molto, uccidere innocenti. Tutte le vittime della violenza, in primo luogo le vittime della guerra sono innocenti. Tutti i morti di questo dopoguerra, di questa incivilissima guerra civile, quale sia la loro coccarda, sono tutti degli innocenti, sono dei parigrado. E gli assassini tutti assassini ad un modo! “ Per Turati la nostra civiltà cominciò dal giorno in cui l’uomo, divenuto cittadino rinunciò a far giustizia da sé, per questo ripropone con forza anche il suo messaggio socialista: “Sara compito e orgoglio dei partiti di avvenire, delle grandi organizzazioni proletarie che la rappresentanza armata dello stato serva unicamente la collettività tutta quanta, non opprima i deboli, non indulga ai potenti, renda sentenze e non favori.”

E per maggior chiarezza aggiunge che “Ci sono metodi che non ci appartengono come quelli che, anziché procedere alla ordinata conquista del potere politico ed economico, spinti dalla fede nel miracolo della violenza la quale sia d’individui o di folle, militare o proletaria, adoperi la bomba o il colpo di mano o la dittatura è sempre traditrice. La violenza non è la forza ma la sua negazione, è debolezza e crea debolezza”.

E va più in là, (e quanto più in là dato il dibattito ideologico del tempo!) quando afferma che “Insulta Marx chi da qualche frase episodica, superata da lui stesso e dai tempi pretende di ricavare una giustificazione che ripugna a tutto il più intimo della dottrina. Noi siamo nati dalla libertà di pensiero. La libertà è la ragione, l’intelligenza, la bontà, il progresso civile, fuori di essa non vi è che servilismo e degenerazione.” E profeticamente aggiunge che “Una moda mentale è risorta, dopo i secoli a negare la bellezza e la nobiltà. Si farnetica di minoranze che debbono spingere innanzi il mondo a cannonate, di demiurghi che hanno la missione di instaurare feroci dittature per redimere le maggioranze loro malgrado, foggiando l’umanità su un modello di loro invenzione. Questo è il grande inganno della storia. La violenza nega la libertà, difendiamo e rivendichiamo la libertà.” Come scrisse Carlo Rosselli, Filippo Turati prima che un capo politico fu un educatore, un maestro di libertà che indicava con chiarezza e coraggio gli errori di fondo del massimalismo socialcomunista del tempo.

Sono passati più di cento anni ma oggi è ancor di più necessaria di una battaglia culturale contro la violenza senza aggettivi. Se è accresciuta la sensibilità dell’opinione pubblica non mancano di ripetersi episodi di intolleranza e di istigazione all’odio che non risparmiano neppure il mondo della scuola e dell’Università. 

Da un punto di visto politico il messaggio di Turati indica un terreno di convergenza che oggi dovrebbe accumunare tutte le forze politiche dl nostro paese che si riconoscono nei valori della libertà e del pluralismo e che, legittimandosi reciprocamente possono alternarsi al governo della cosa pubblica. Non si tratta di ricercare una “riconciliazione” riscrivendo la storia, cosa che si rivelerebbe un sentiero impraticabile, ma di ritrovare ed accettare valori condivisi su cui costruire il cammino futuro. 

Per questo è necessario ma non sufficiente richiamarsi ai valori dell’antifascismo ma occorre ribadire contestualmente il fermo rifiuto di ogni forma di autoritarismo e di dispotismo presente o passato, qualunque ne sia la natura. Per questo l’appello di Filippo Turati è così attuale. E ciò è tanto più necessario se riteniamo prioritaria la costruzione di una nuova Europa. Il vecchio continente fu devastato nel secolo scorso da dittature di ogni colore che purtroppo oggi non sono del tutto scomparse. La nuova Europa, per crescere e consolidarsi sui valori della libertà e della solidarietà tra i popoli, non potrà accettare ambiguità o equivoci di sorta sulla propria identità culturale democratica.

*Presidente della Fondazione Anna Kuliscioff

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