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Io-mio bambino e dramma tuo-noi-nostro del crescere

Maria ha grandi occhi blu con raggi di sole come i suoi capelli. Ha lo sguardo vivace frequente nei bambini di sei anni al loro primo giorno di scuola elementare, un misto di curiosità e preoccupazione che forse avevano i nostri avi preistorici alla scoperta di una nuova caverna.

E’ il momento della pausa: ci siamo incontrati, abbiamo cantato canzoncine rompighiaccio e danzato in girotondo con i bimbi di quinta che saranno i nostri tutor cioè intermediari tra il mio “io” impensierito e un “tu” di nove anni che sembra sapere tutto di questo nuovo luogo e, a quanto pare, sopravvive discretamente. 

In classe si inizia sempre con un disegno, un moderno grafito sulla parete rocciosa della carta, un segno che distingua il mio io tremulo, cavernicolo o spavaldo e lasci traccia immediata del mio arrivo.

Ora, alla pausa, ciascuno tira fuori la propria merenda e Maria orgogliosamente posa sulla tovaglietta ben due pacchetti di cracker e li dispone con estrema perizia in piccole montagnole che moltiplicano la percezione perché li ha accuratamente divisi in due. Sembra allenata a questo esercizio così complesso da richiedere il tempo esteso dei bambini o degli anziani molto sapienti. Dividere lungo quel tratteggio preciso senza rompere la rassicurante forma di due quadrati, quel rettangolo già destinato alla decapitazione.

Un bambino rompe l’incanto protendendosi con la mano alzata, democrazia di recente istituzione e dirompe in un tragico “io non ho la merenda!”. Irruzione di un dramma dall’espressione primitiva. 

Non ho da mangiare, ho fame.

La frase spunta dal buco vuoto nello stomaco e intorno sguardi stupiti, di disapprovazione e…preoccupati. I bambini guardano la propria merenda forse intuendo che si instaurerà un regime di socialismo dai tempi accelerati e alternano lo sguardo tra il proprio cibo e la maestra che sta per far giustizia. Lo sentono, lo sanno. Ma come? 

I metodi di distribuzione dell’io-mio verso l’altro-tu sono diversi per ogni personalità docente, ma certamente il tema è ricorrente.

La pedagogia ci insegna fasi di sviluppo del bambino e narra che intorno a sei anni si inizia a vedere l’altro non solo come un possibile rapace che attenta ai miei prodotti ma anche come un cooperatore con cui costruire. Si inizia a tre anni ma anche nei bambini, come nei regimi degli adulti, questo processo incontra un mare di resistenza.

Esordio anarchico-democratico dell’insegnante “Davide non ha la merenda ma certo noi non vogliamo che resti senza (supposizione prossima alla favola) e quindi c’è qualcuno che vuole dare al suo compagno senza merenda che come voi ha fame (blando tentativo di impietosire) un pezzettino della propria?

La difesa del capitale personale si erge granitica come da secoli.

Io ne ho una piccolina, basta solo per me.

Io ho la merenda più piccola di tutti e non ne ho da dare.

Io ho tantissimissima fame, se non mangio svengo!

Ma perché la sua mamma non gli ha dato la merenda? La mia sì.

Ho imparato in molti anni con i bambini oberati dal rumore e dagli eccessi, a scegliere la via del silenzio. Li guardo, uno per uno senza muovere un muscolo e poi ripeto stolidamente il testo del problema per avviarne la soluzione. 

Davide non ha la merenda e ha fame. Gli altri bambini hanno la merenda. Come faremo (noi) a far in modo che anche Davide mangi?

La chiamano scuola elementare, ora scuola primaria cioè la scuola dei fondamenti eppure questo secolare problema non vede soluzione ancora in troppi luoghi della terra.

Certo, guai a ricattare chi nasce nell’abbondanza ricordandogli quanto è fortunato.

Ciascuno di noi non è responsabile della propria origine e il discorso ricattatorio sulla fame dei bambini in Africa non può certo smuovere le lenzuola di pizza, i dolcetti provenienti da un mulino inventato o i cracker di Maria a sfamare in volo una pioggia di bimbi così lontani.

Ma cominciare dal vicino, anche quando il Mediterraneo si allarga tra un banco e l’altro, sì è possibile. C’è bisogno però di un intervento educativo.

Così, a malincuore come sempre quando provochi una dissonanza per apprendere, mi avvicino ai bambini e guardo con insistenza le loro tovagliette colorate ricolme di doni di cui non conoscono il valore. Arrivano nel mio tovagliolo sulle mani tese, pezzetti di cioccolata, bocconcini di soffici plum-cake, fette di mela sana e biologica e anche della poltiglia di formaggino che starebbe benissimo sui cracker!

Ma ovviamente Maria guarda in basso e lentamente circonda il proprio tesoretto con le braccia in un muro invalicabile contro ogni rapina.

Le sorrido e con aria credibilmente stupida le dico “Maria ho le mani occupate, vuoi portare tu uno dei tuoi cracker a Davide? Sono certa che ne sarà felice.

Sono fortunata, questa spallata alla proprietà privata così ben difesa riesce e seppur molto lentamente Maria posta un quadratino a Davide che si vede recapitare la merenda meno organizzata e più multigusto mai immaginata.

Il “noi” ha iniziato il suo lungo travagliato percorso.

Ci scambieremo penne e matite, giochi che contenderemmo il più possibile.

Passeremo attraverso i furti che caratterizzano i momenti nei quali la frustrazione del non avere diventa insopportabile. Voglio anch’io il tuo, quel che hai e me lo prendo. Ditte produttrici di inutilità sempre all’opera per risvegliare nuovi desideri.

Un piccolo mondo spietato che riproduce in tutto e per tutto quello azzurro che vedono gli astronauti. 

Mille prove della coerenza negli adulti per arrivare a vivere il “noi “in modo meno invasivo.

Si cercherà la giustizia nella ripartizione degli oggetti, in ogni suddivisione che sia meno che identica per ciascuno. Cercheremo giustizia in ogni gioco di cui non si siano chiarite regole ferree fin dall’inizio e anche allora ci sarà chi accusa l’altro di barare.

Alzeremo la mano più in fretta perché si veda, si veda benissimo che “io” so le cose meglio e più in alto del “noi” che vuol essere ascoltato come me.

Inizieranno tremuli segni di cambiamento, proprio  dai beni materiali.

Un prestito. Il cedere la proprietà dell’oggetto per poco tempo.

Certo il cracker di Maria è sparito nelle fauci inquietanti di un compagno insidioso, ma ora se gli presto una matita non la mangerà, o almeno non del tutto visto che la sta mordicchiando.

Faremo un passo indietro perché il prestito non prevede che tu possa danneggiare le mie cose.

Nuovamente la proprietà verrà descritta e salvaguardata; ci saranno risarcimenti e donazioni, nuovi furti e conversazioni infinite per evitarli.

In quelle conversazioni avverrà la traslazione più importante e di solito coincide con i primi lavori in gruppo dopo la terza classe.

“Io” ho la soluzione, è la bandiera di qualcuno cui tocca sopportare la presenza dei compagni nel gruppo che non sono bravi come lei o lui nel risolvere problemi posti dall’insegnante.

Il “noi” è del tutto inutile, solo una perdita di tempo.

Per fortuna tecniche come il Cooperative Learning  e altri vengono in aiuto a formulare lavori in gruppo in cui nasce l’interdipendenza. Una specie di puzzle che può completarsi solo quando tutti cooperano e lavorano insieme usando le proprie competenze.

L’esordio di Maria è stato un muso lungo restando di spalle al gruppo per tutta la durata del lavoro: che m’importa se il gruppo non finisce? Non mi ascoltano, mi fanno arrabbiare!

Davide al contrario subissa tutti con le proprie idee; onnivoro di cibo si mangia tutte le proposte dei compagni e le mastica risputandone con la sua sola versione possibile. La sua.

Senza fallimenti non si apprende ma a volte dimentichiamo quanto possano essere rumorosi 24 bambini frustrati che a volte finiscono in lacrime un’attività didatticamente ineccepibile, aggiornatissima, con le tecniche più avanzate che è costata all’insegnante un mare di studio.

Il miracolo è riprovarci e avviare nuovamente quel conglomerato di bambini chiamato gruppo che ha la sua massima esaltazione quando un portavoce dei piccoli esploratori della convivenza esordisce con “noi avremmo pensato…”

Non c’è tifoso da stadio che sappia esultare come l’io dell’insegnante escluso dal noi di un gruppo di bambini. Quel “noi” che ha avuto una regia costante, indomita e faticosissima nel lavoro del docente, lo esclude raggiungendo il miglior risultato auspicabile.

Il noi dei bambini è identitario, è frutto di scambio di idee e di mediazioni complicatissime.

Insegniamo il “debate” che con anglofona dicitura indica il saper dibattere partendo da posizioni opposte, o l’Action Learning che permette lo sviluppo apprendendo in gruppo o altro simile ma quel che accade è: il passaggio dall’io che difende quel che possiede al noi che condivide quel che ha appreso.

La gioia dell’io docente sta nell’assistere in soli cinque anni alla nascita di una comunità nella quale c’è memoria condivisa, appartenenza e competenza nel condividere, offrendo il meglio di ciascuno, contribuendo alla creazione di un prodotto materiale o intellettuale in cui ci si sente parte attiva. Cittadini di un mondo in cui ciascuno ha quel che basta ma costruisce il meglio solo grazie agli altri.

* Pedagogista, insegnante

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