Vorremmo parlare dello stato di salute del sindacato, anche nel contesto europeo, e delle sfide che ha davanti.
Partirei da una questione, che ha sempre creato confusione, specie nel nostro paese. L’idea di fondo è che il sindacato è innanzitutto un’istituzione del capitalismo. Quindi è un pilastro che tiene in piedi il capitalismo, non la leva per il suo abbattimento. Questo è un punto fondamentale, ben chiaro a Marx e a Lenin per primi, cioè che il sindacato era altra cosa dal movimento rivoluzionario; anzi il più delle volte ne è uno dei principali fattori di stabilizzazione.
Se ci mettiamo in questa prospettiva è più facile comprendere le ragioni del successo o dell’insuccesso del sindacalismo, e i problemi che ci sono. Partiamo da una prima questione: in qualche misura il sindacato, una volta che viene riconosciuto e una volta che è diventato forte, questa forza la deve trasformare in responsabilità. Questo nesso forza-responsabilità non sempre è stato compreso dai movimenti sindacali. Banalmente, il sindacato, nel corso della sua ascesa nella conquista di orari di lavoro, salari, sicurezza sul posto di lavoro, welfare, a un certo punto incontra un tetto. Non si può continuare all’infinito a chiedere di più e ancora di più. A quel punto ha due alternative, o diventa rivoluzionario o assume la responsabilità della gestione del “sistema”, non ci sono altre alternative o terze vie.
Di conseguenza molti sindacati, specie nordeuropei, hanno accettato questa sfida e almeno per un certo periodo la cosa ha funzionato, attraverso il cosiddetto compromesso keynesiano, vale a dire uno scambio esplicito tanto nella teoria quanto nella pratica: io sindacato mi assumo la responsabilità di cogestire il sistema, quindi limito le mie rivendicazioni, aiuto il capitalismo a funzionare e in cambio ne ho una lunghissima serie di benefici ben percepiti da tutti, organizzativi per il sindacato, e di vario tipo per i lavoratori.
Nei paesi nordici, questo passaggio è stato più semplice perché, essendo più piccoli, la coincidenza tra interesse dei lavoratori e interesse dei capitalisti era più evidente: un aumento di salario eccessivo avrebbe messo fuorigioco l’azienda che poteva vivere solo a condizione di esportare già sessanta anni fa. Quello che oggi noi scopriamo come limite all’aumento di salari, il vincolo esterno, loro l’hanno vissuto fin da subito, tra le due guerre. In un paese di ridotte dimensioni è evidente a tutti che tu non puoi chiedere di più altrimenti tutta l’economia va fuori mercato.
Questo è un modello (chiamato “neo-corporativo”) che ha funzionato tanto per i lavoratori, diventati classe media benestante, quanto per i sindacati, che a tutti gli effetti sono passati da “movimento a istituzione”. Che cosa ne hanno ricavato i sindacati di quei paesi? La possibilità di svolgere una serie di attività che definisco da “quasi agenzia statale”. Per cui gestiscono e consegnano ai lavoratori l’indennità di disoccupazione, la ricollocazione da posto di lavoro a posto di lavoro, la formazione e la riqualificazione professionale, e così via. Cosa ne guadagnano i lavoratori? Salari e welfare nettamente superiori a qualsiasi altro paese al mondo. Almeno a prima vista si tratta di un gioco a somma positiva per tutti, per gli imprenditori, per i sindacati, per i lavoratori.
Ripeto, le condizioni di questo modello sono rare: piccoli paesi in cui sia più evidente l’interesse comune alla cooperazione; interlocutori politici stabili e “amici”, vale a dire governi affidabili con cui fare patti di lunghissimo periodo; sindacati unici, cioè monopolisti della rappresentanza, perché se ho qualcun altro che mi dice che sono venduto al padrone è finita, e al lavoratore conviene provare a seguire il sindacato più rivendicativo nella speranza di portare a casa qualcosa i più.
C’è una variante di questo modello in Germania, ma anche in Austria; parliamo di un modello che può prevedere la sistematica rinuncia allo sciopero, compensata dalla presenza nei “comitati di indirizzo” delle aziende in forma paritetica, quelli che nominano l’amministratore delegato. In questo caso il sindacato è forte perché ha tanti iscritti, quindi non serve dimostrarlo attraverso l’astensione dal lavoro. In alcuni di questi paesi per cinquant’anni non si è fatto uno sciopero… oppure è talmente raro da costituire un’eccezione storica. Al contempo, governo l’azienda nella buona (premi maggiori) come nella cattiva sorte (decurtazioni di stipendio e di orario).
Altri modelli alternativi a quello neo-corporativo, li troviamo a livello aziendale nei paesi di tradizione anglo-americana dove prevale la contrattazione decentrata. Posso avere un modello di tipo cooperativo anche in paesi come gli Stati Uniti, che pure hanno un tasso di sindacalizzazione bassissimo. Lì, se il sindacato è presente e vince il referendum prescritto dalla legge, il 100% dei lavoratori è costretto a iscriversi o comunque a pagare la tessera sindacale. Per cui posso essere debolissimo come sindacato a livello nazionale ma essere fortissimo in azienda, a volte molto di più che in un’azienda italiana o tedesca. È il caso Chrysler. La Uaw (United Automobile Workers) da sempre associa tutti i lavoratori del gruppo, dunque è fortissima, tanto che a un certo punto riesce ad avere il 55% delle azioni attraverso il suo fondo pensionistico. C’è un bel libro, di un ricercatore italiano, Andrea Signoretti, Fabbriche globali (Il Mulino, 2014), in cui vengono messe a confronto, nel settore auto, un’impresa di Torino e una di Detroit, sempre della stessa multinazionale, stesso prodotto e stesso numero di dipendenti. Nell’azienda americana, innanzitutto, l’iscritto paga molto di più la tessera sindacale, due ore di lavoro al mese, quasi mille dollari l’anno.
In Italia si paga di solito l’1% del salario lordo, al massimo 200, 250 euro, non di più. In America parliamo di contesti aziendali in cui la tessera è molto più pesante, sono tutti iscritti, e il sindacato offre ai lavoratori ciò che lo stato non assicura, innanzitutto la previdenza e l’assistenza sanitaria integrative. Tra parentesi, è per questo che molti sindacati erano contro l’Obamacare, la riforma sanitaria di Obama, perché dicevano: e allora noi cosa facciamo? I nostri lavoratori già pagano noi per l’assistenza, in più devono pagare le tasse per pagare l’assistenza di altri… Poi i sindacati americani co-decidono molte scelte aziendali. Per esempio in Chrysler l’intera formazione aziendale è appaltata al sindacato. La formazione dei lavoratori in ingresso è tutta gestita nella sede sindacale, una palazzina di diversi piani all’interno degli stabilimenti.
Dicevi che sembrava che questo modello potesse funzionare e diffondersi ovunque. Cos’è successo?
È successo che il mondo è cambiato. E quindi tutti i sindacati hanno cercato di reagire alla globalizzazione sulla base della propria matrice nazionale, quasi il riflesso di una sorta di imprinting originario.
Proviamo a vedere gli effetti principali di questi cambiamenti sulla vicenda sindacale. Il primo effetto è il depotenziamento del contratto di settore nazionale. Nel senso che oggi l’azienda conta più del settore. Per due secoli, col contratto nazionale, è stata fatta distribuzione monetaria e redistribuzione (equitativa) del reddito; oggi il contratto nazionale – se va bene – funziona solo per mantenere i minimi salariali. Basta vedere gli importi negoziati negli ultimi contratti nazionali italiani, dai meccanici al pubblico impiego!
Finché la competizione era interna al paese, avveniva tra costi del lavoro simili: chi è più efficiente guadagna di più, vende di più, ecc. Quando si rompono i confini nazionali della competizione di prezzo, il costo del lavoro diventa immediatamente una variabile rigida che dipende – al limite – da ogni singola azienda e dalla suo posizionamento nel mercato (globale) di riferimento. Contemporaneamente è successa la rivoluzione a livello aziendale. Oggi, da un lato abbiamo aziende che guadagnano mille volte di più degli standard dei trent’anni gloriosi e che quindi hanno una “ability to pay” infi- nita: Google, Apple possono dare ai loro dipendenti di più e ancora di più; e, dall’altro lato, abbiamo aziende dove la concorrenza è talmente elevata che tutto si gioca sul costo del lavoro. Tipiche da noi sono le realtà della catena della logistica lungo la Via Emilia, dove c’è una situazione di sfruttamento sette-ottocentesco puro. Oppure, sempre qui, da un lato, abbiamo Luxottica dove, solo con le distribuzioni azionarie, gli operai hanno ricevuto 30-35 mila euro, oltre al welfare aziendale, alla sicurezza del posto di lavoro. Ecco, questa divaricazione dei mercati del lavoro aziendali è un secondo problema che mette in difficoltà i sindacati.
La terza difficoltà inevitabile del sindacato è che, oltre alle varietà aziendali, aumentano le varietà soggettive dei lavoratori. Per cui ci sono laureati, non laureati, c’è una variabilità di domande soggettive difficili da intercettare da un sindacato che, per definizione, ragiona sull’offerta di beni collettivi.
Come hanno reagito i nostri sindacati a mutamenti così radicali?
Alle difficoltà contrattuali, hanno reagito aumentando le attività svolte come “agenzia quasi statale”, cioè con le attività nei servizi: ad esempio, i Caf, i patronati, gli enti bilaterali. In questo modo, tra l’altro, è aumentata la capa- cità di intervenire sulla varietà soggettiva dei lavoratori. Perché sono tutti servizi a fruizione individuale: la consulenza fiscale, previdenziale, l’ufficio vertenze sono tutte attività ad personam. Tutto sommato è stato un modo di incrociare un bisogno.
Il sindacato ha scelto questa strada, ma lo ha fatto senza saperlo. Cioè non lo ha teorizzato. Attualmente i dati ci dicono che su circa due miliardi di stima di fatturato annuo dei tre sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil) quello che arriva dall’attività propria e caratteristica, cioè le tessere dei lavoratori dipendenti, costituisce un terzo, 700 milioni su 2.100. Il resto arriva dai pensionati, dai Caf, dal patronato e via discorrendo.
Il sindacato pensionati è un’anomalia?
Si, è un’anomalia a livello internazionale. Forniscono 300 milioni di tesseramento, che non son pochi. Però, da un punto di vista strettamente tecnico, è difficile definire il sindacato dei pensionati un soggetto contrat- tuale. Cos’è il sindacato? È un’organizzazione di rappresentanza di interessi di lavoratori dipendenti che ha prevalente attività contrattuale, poi fa tante altre cose, ma il nocciolo è il contratto di lavoro. Qual è il contratto dei pensionati? È un’associazione di rappresentanza di interessi? Sì, certo. Farà lobbying, farà pressione, però definirla sindacato in senso proprio è una forzatura.
Ci sono alcune esperienze, come in Germania, in cui il pensionato rimane iscritto nella categoria di origine, in una sorta di associazione culturale, dopolavoristica; oppure ci sono organizzazioni proprio di tutela, rap- presentanza e di servizio come, ad asempio, l’Aarp, American association retired people, che negli Usa ha 60 milioni di iscritti, però è un’altra cosa, distinta e separata dai sindacati. Un modello come quello italiano non c’è e rappresenta un unicum a livello internazionale.
Ma dicevamo che i sindacati hanno risposto coi servizi. Ecco, a mio avviso è stata una fortuna. A chi dice che i servizi sono la dannazione del sindacato, la mia risposta è: primo, meglio averli che non averli. In secondo luogo, in realtà, i servizi consentono sia di capire meglio la varietà soggettiva del “multiverso” dei lavori di oggi, sia di affrontare i problemi dell’aziendalizzazione del sindacalismo.
Può essere questo un modello futuro? È complicato da dirsi, anche se qualche segnale in questa direzione si può trovare. Il primo punto da cui partire è che la funzione redistribuitiva, che era affidata ai contratti nazionali, nel mondo contemporaneo non può che essere svolta ex post, per via istituzionale, attraverso la politica dei redditi. Cioè a valle della produzione, non a monte, quindi nelle trattative governo-sindacati sulla distribuzione del reddito, dopo che questo è stato prodotto.
Per cui la mia idea è che, tutto sommato, il sindacato non dovrebbe essere ostile, come lo è, a tutte le misure di cosiddetto reddito di cittadinanza, perché è un modo di ridistribuire a valle, secondo criteri di giustizia distributiva ciò che si è prodotto prima, in contesti diversissimi per profittabilità e per sfruttamento.
A questo punto il contratto di settore diventa un contratto importante, ma soprattutto per la parte normativa e di recupero dell’inflazione, per una garanzia di minimi. Mentre si sviluppa molto di più la parte aziendale. Anche il recentissimo contratto dei metalmeccanici, firmato unitariamente, va proprio in questa direzione.
Il problema non è tanto il declino al livello del contratto nazionale di settore, che è certo. È se si riesce davvero a recuperare qualcosa sugli altri, quello statale e quello aziendale. A livello statale il problema – lo aveva intuito in qualche maniera, sbagliando, il segretario nazionale della Fiom Landini – è di costruire nuove “coalizioni sociali”. Lui però le pensava solo come coalizioni di opposizione, antagoniste, ma la coalizione antagonista vuol dire tornare al problema di Lenin. Ok, faccio l’antagonista per fare la rivoluzione. Dopodi- ché, però, o faccio la rivoluzione o non la faccio. Non posso fermarmi a metà del guado. Francamente, non mi pare che oggi sia all’ordine del giorno il “che fare” rivoluzionario.
L’intuizione giusta è che si devono fare necessariamente coalizioni più ampie, sindacali e insieme politiche, proprio perché l’azione propriamente sindacale non riesce più a incidere significativamente sulla redistribuzione dei redditi. Questo è un tema su cui negli Stati Uniti e in Europa si sta provando a ragionare, cioè su nuove alleanze sindacato-politica a fini redistributivi.
Cosa si può fare a livello aziendale?
Sul piano aziendale ci sono due strade, che dovrebbero essere separate nettamente. Dove noi abbiamo la concorrenza sul costo del lavoro, l’azione del sindacato torna alle sue origini, deve fare sindacalismo duro e puro. Qui non c’è problema. O meglio, c’è eccome, ma il sindacato lo conosce bene quel mestiere lì. Oppure, ancora, che è una seconda alternativa, facciamo fare questo mestiere ai Cobas.
Ovvero specializziamo la rappresentanza: dove c’è da fare il “lavoro dei cattivi” lo facciano i rivoluzionari, dove c’è da fare il “lavoro dei buoni” lo fa il sindacato in giacca e cravatta. Mi sto chiedendo se a questo punto non convenga proprio una specializzazione associativa. E cioè Cgil Cisl e Uil si occupino della parte “normale”, alta del mercato del lavoro; le associazioni più radicali si occupino della parte bassa, dove illegalità e sfruttamento sono la norma. Le organizzazioni di base, per esempio, oggi lavorano molto con gli extracomunitari. Anche Cigl Cisl e Uil lo fanno, ma loro hanno un altro piglio ed è bene che ci siano. Forse chiedere al sindacato di fare tutte e due le parti in commedia è un’impresa impossibile, perché i mestieri rischiano di essere già oggi troppo diversi.
Infatti, il punto poco sottolineato è che esiste un’altra parte di aziende, spesso la maggioranza, dove gli imprenditori hanno imparato a riconoscere il sindacato e la contrattazione, e il problema ormai è un altro, che a volte ho talmente tanti soldi che posso fare a meno del sindacato. Cioè posso fare politiche del personale di tipo moderno, qualcosa di diverso dal vecchio paternalismo industriale, in cui riesco a dare molto di più di quel che il sindacato riesce a ottenere per via contrattuale (nazionale). Penso, di nuovo a Google, Apple, da noi a Cucinelli o alle imprese dell’alta moda.
Ecco, bisogna evitare che, per motivi diversi, il rischio diventi quello di non avere il sindacato né dove le aziende si comportano male né dove vanno molto bene. Per questo parlavo di specializzazione delle funzioni. Il punto è che nella parte alta delle aziende, la domanda è se il sindacato accetta la sfida dei modelli partecipativi, entrando nel ruolo di vero e proprio partner dell’azienda, con la quale condividere missione, obiettivi, onori e oneri.
L’idea di un “sindacato partner dell’azienda” è piuttosto forte…
Capisco. Ma allora? La domanda è sempre e di nuovo: ma allora cosa faccio?
Ovviamente, per essere partner dell’azienda, ci devono essere condizioni ben chiare. Potrebbe funzionare se i lavoratori in questi contesti guadagnano molto di più che negli altri modelli. Se i lavoratori guadagnano molto di più e stanno meglio, perché il sindacato partner dell’azienda dovrebbe essere una bestemmia? È un terreno empirico in cui si tratta di misurare i risultati, non dividersi sull’interpretazione delle tavole della legge. Teniamo presente che un altro dei motivi di lenta perdita di centralità del contratto nazionale di lavoro è che i risultati contrattuali conquistati grazie ai sindacati, prima o poi, nella stragrande maggioranza dei casi, si trasformano in legge, in diritto. Le otto ore, la pensione, le ferie, l’ambiente di lavoro, la sicurezza, la salute oggi sono diritti, spesso di derivazione europea. Un’azienda, se solo vuole essere in regola, deve rispettare tutte queste norme.
Ecco, una volta che l’azienda ha rispettato tutto questo, che problema c’è? Un lavoratore Fiat oggi si trova in una condizione nettamente migliore di 20-30 anni fa. È la grande sconfitta di Landini, che mai avrebbe creduto che le ristrutturazioni nel settore auto avrebbero reso il lavoro meno faticoso, meno sporco, più sicuro, e anche più remunerativo. Marchionne ha vinto. Landini immaginava che mai la Fiat ce l’avrebbe fatta. Non solo ce l’ha fatta, ma ha cambiato le fabbriche, che a giudizio di qualsiasi operaio anziano sono nettamente migliori di trent’anni fa.
Ma se è così, perché i lavoratori dovrebbero fare gli antagonisti? Cioè se stai nella cayenna della logistica si capisce perché metti a ferro e fuoco l’azienda. Ma dove il lavoratore sta davvero meglio, perché dovrebbe tornare indietro? Ovviamente in questo caso devo accettare la condivisione del rischio. Che significa dare di più a livello aziendale, anche molto di più, ma solo se va bene. Se va male, fatti salvi i minimi del contratto nazionale, l’aumento non lo prendi. Uno dice: è un bidone. Dipende! Se prendo davvero molto di più quando va bene, ad esempio sette-otto mila euro l’anno a livello aziendale, posso anche accettare che quando va male, stabilita la parte fissa, di rinunciare alla parte del salario variabile. Uno dice, si possono truccare i dati. Ma allora non iniziamo neanche il gioco! Il gioco si conduce solo tra attori che pensano di comportarsi lealmente e che si stimano reciprocamente.
La Fiom ricorda che in Fiat ci sono i cassintegrati.
Questo è un tema delicato, da affrontare con attenzione, nel senso che ci sono due tipi di cassintegrati. C’è la parte delle eccedenze lavorative, per cui posso avere una situazione in cui ho il cuore dell’azienda che tira benissimo e poi ho delle parti che esternalizzo. Mi rendo conto che è un problema, ma la domanda è: metto allora in discussione la parte del cuore? Ritorna qui, sotto altra veste, il tema della segmentazione dei mercati del lavoro di cui parlavamo prima a proposito della logistica.
Ci sono però anche un certo numero di lavoratori che non accettano le regole del gioco. Oppure c’è chi considera il lavoro sempre e comunque “alienazione” da rifiutare. Che si fa? I regimi competitivi sono più duri dei regimi collusivi del passato. Questo problema si pose già in Fiat nel 1979 e nel 1980. Chi entra in un’azienda deve sapere quali sono le regole del gioco (produttivo). Hai altre regole del gioco? Ok, se hai la forza di farle valere bene, ma se non ne hai la forza… devi fartene una ragione. È giusto, è sbagliato?
Questo è un altro discorso, però la logica delle relazioni industriali è una logica ferrea. La domanda è: poteva andare avanti Pomigliano d’Arco com’era prima? No, lo dicono gli stessi operai. Ci sono interviste molto belle a operai militanti rivoluzionari che dopo la sconfitta in Fiat nel 1980 dicevano: sapevamo anche noi che non poteva andare avanti così, che prima o poi doveva finire. Il problema allora è capire se entro questo patto tra “lavoro e capitale”, come si diceva una volta, una volta rispettati i vincoli del lavoro subordinato e accettata la logica della cooperazione in azienda, le ricadute in termini di salario e di condizioni lavorative sono corrispondenti alle promesse implicite nel patto. Ma è un problema di verifica concreta della coerenza aziendale e sindacale, non il portato dei sacri principi. È questo che si deve valutare, non altro.
Tu qui vedi un altro problema però.
Il nocciolo problematico di questi modelli dove l’azienda “si comporta bene”, dove ci sono buone relazioni sindacali, alti premi variabili, ambienti di lavoro gradevoli, welfare aziendale, è l’assuefazione operaia. Ci si abitua ad avere i libri scolastici, la mensa, i trasporti, nel frattempo però per quarant’anni faccio sempre quel lavoro lì. Sì, l’ambiente di lavoro è pulito, silenzioso, senza polvere, ma faccio sempre quella roba lì.
Questo è un punto complicato, dove davvero lo scoglio appare insuperabile; è l’unico vero punto di forza delle posizioni scettiche o antagoniste. Luciano Pero, anche in interviste alla vostra rivista, risolve il problema con la rotazione delle mansioni e con i suggerimenti operai, due strategie nelle quali crede molto. Io sono molto più scettico: spesso l’operaio non vuol saperne di cambiare. L’operaio è conservatore. I teorici della multifunzionalità dicono: “È bello cambiare”. Calma! Per qualcuno è bello cambiare, per moltissimi cambiare è un costo, psicologico prima ancora che fisico.
Ci fu una famosa ricerca di Robert Blackburn e Michael Mann, L’illusione della scelta (Rosemberg & Sellier,1983), ancora oggi da leggere, nella quale oltre quarant’anni fa i ricercatori raccontavano l’episodio di un operaio scozzese, alto, biondo con i capelli lunghi, un leader naturale, con competenze nettamente superiori alla media, che di fronte al tentativo di coinvolgerlo di più nel lavoro e di dargli maggiori responsabilità, rispondeva: “Io vengo qui la mattina e per otto ore penso a tutto tranne che al lavoro. Non rompetemi le scatole, lasciate che la mia testa voli libera per i fatti miei”. La reazione di un operaio alla multifunzionalità, alla rotazione delle mansioni, alla richiesta di maggiori responsabilità cognitive, sarà di questo genere: “Ueh!, è già troppo che venga in fabbrica per i soldi che mi date”.
La mia idea è che dobbiamo portare un’attenzione specifica a questo tipo di reazione che rischia di far naufragare qualsiasi esperimento partecipativo. Non si tratta di cambiare la testa a questi operai – per certi versi si tratta di comportamenti perfettamente razionali – ma di trovare il modo di farli convivere nello spazio aziendale senza che mettano in discussione la razionalità delle scelte (cooperative) del resto dei lavoratori. E poi bisogna pensare a come risolvere la questione delle carrie- re sui luoghi di lavoro, perché una vita operaia, sempre uguale a sé stessa, rimane una sfida pratica e intellettuale ancora irrisolta.
Non c’è il rischio che in questo modello i lavoratori vedano nel sindacato un “venduto” al padrone?
Questo è un rischio concreto, si tratta di capire. Io dico che ci sono alcuni modelli che sembrano funzionare meglio di altri e che questi modelli funzionano se sono redistributivi.
C’è un’altra obiezione e cioè che così aumenta la varietà di condizioni tra azienda e azienda, magari a pochi metri di distanza l’una dall’altra, e magari entrambe che fanno lo stesso lavoro, ma si differenziano per la combinazione specifica di prodotto-mercato. La mia risposta è che in questa fase storica non me ne preoccuperei più di tanto. In futuro, così com’è accaduto in passato, ci sarà tempo e modo di riomogeneizzare le differenze. Per esempio, se e quando riusciremo a fare il contratto europeo di settore. Certo, per il momento è pura utopia, forse ci vorranno decenni.
Nel frattempo, tra il non fare niente e provare a giocare questo gioco, io sono per giocare e rischiare. Come del resto il sindacato ha già fatto a fine anni 50 e 60: non riusciva a sfondare con i contratti nazionali, partì con le contrattazioni aziendali, anche la Fiom, e ottenne risultati enormi: Sì certo, differenziando le condizioni tra chi il contratto aziendale ce l’aveva e chi no, ma intanto legittimò la sua presenza in migliaia di aziende e da lì partì la riscossa successiva.
Il nuovo contratto dei metalmeccanici ha spostato il baricentro sul welfare aziendale.
Policy di questo tipo hanno tre valenze positive: sono a tutti gli effetti una politica di aumento salariale, al di là della formula. Sono, al contempo, una politica di riduzione di costo del lavoro e, infine, sono potenziali strumenti di una politica di risindacalizzazione aziendale. So bene che secondo molti studiosi il declino del contratto nazionale di settore multi-employer porterebbe con sé anche la crisi del sindacato. Può darsi, ma lo ripeto: fare qualcosa è meglio che non fare nulla e rimanere in attesa del diluvio universale. Come disse una volta Pierre Carniti, invece che ripetere ossessivamente i vecchi errori è meglio la strada che porta a speri mentare nuovi errori.
L’altro aspetto interessante è che nei programmi di welfare che sto seguendo c’è la possibilità di scegliere: il lavoratore entra in un portale e si trova accreditati 1.700 euro lordi. Può decidere di prenderseli tutti in moneta sonante. A quel punto paga la tassazione al 10% e ha i contributi previdenziali, ma ci rimette intorno al 30%. Un altro lavoratore potrà dire: no, metà li voglio così, e metà li voglio in welfare totalmente defiscalizzato. Ci guadagna 300 euro. È lui che sceglie. Ecco la variabile soggettiva: prendo sul serio il lavoratore e le sue preferenze individuali. Tutti i modelli stanno andando in questa direzione, di offrire il paniere, dopodiché il lavoratore va dentro e sceglie tra le varie opzioni.
Quindi, non è il padrone che decide come nel tradizionale paternalismo industriale. Certo, c’è anche chi vorrebbe che lo Stato decidesse tutto, solo welfare pubblico, uguale per tutti, senza differenziazioni aziendali. Di nuovo, ancora una volta io sono per provare “nuovi errori”.
L’altra obiezione è che così c’è chi ha di più e chi ha di meno.
Ci sono fasi in cui la differenziazione aumenta, altre in cui diminuisce. In questo tornante storico bisogna sapere che c’è questo problema, che a seconda della porta d’ingresso nel mondo del lavoro, e a parità di lavoro, in un contesto aziendale prendo mille euro e in un altro ne prendo tremila. Solo perché l’azienda ha una ability to pay maggiore. La domanda è: siccome questo ne prende tremila devo portargliene via duemila? So bene che non è giusto, ma verrà il tempo in cui in nome delle istanze di giustizia cercherò di portare chi, facendo lo stesso lavoro, sta più in basso nella scala salariale a prendere qualcosa di simile a chi sta più in alto. Oggi il vento tira in un’altra direzione e il compito primo del sindacato è quello di esserci laddove i soldi vengono distribuiti.
Il fatto che i sindacati, ovunque nel mondo, siano diventati anche grandi burocrazie amministrative, che svolgono funzioni quasi statali, è positiva?.
La mia idea è che il sindacato non si deve vergognare di questo, anzi! Facciamo un esempio. Il Caf è stato un successo perché è stato conveniente sia per lavoratori e pensionati, sia per lo Stato. Lo Stato non sarebbe mai riuscito ad avere le dichiarazioni dei redditi online, in tempo reale, ogni anno. D’altra parte, i lavoratori a quei prezzì non avrebbero mai pagato un commercialista. Questo è un classico esempio di scambio virtuoso. Idem per i patronati, idem per gli uffici vertenze; più opaco, il giudizio sulla bilateralità. Allora cos’è interessante in queste esperienze? È che in larga parte sono effetto dell’azione contrattuale, vale a dire che con l’azione contrattuale si ottengo benefici collettivi, i quali si trasformano poi, quasi per definizione, in diritti individuali. E i diritti individuali li rendo esigibili solo attraverso il servizio. Solo così risolvo il problema della busta paga, oppure risolvo il problema della previdenza, della dichiarazione dei redditi, dell’Isee, e avanti di questo pas- so. Molti sindacati ci aggiungono la formazione, il collocamento… Sotto un certo profilo si tratta di un “esito imprevisto” rispetto alla teorizzazione dei diritti di Bruno Trentin: per lui doveva essere la pietra angolare di una rinascita del sindacato come attore contrattuale. In realtà è stata la strada per il sindacato come grande azienda burocratica di erogazione di servizi individuali.
Io trovo poi estremamente interessante il fatto che, al di là delle parole e delle ideologie ufficiali, tutti i sindacati facciano le stesse cose. Cioè tutti i sindacati oggi vivono di questo mix, fatto di negoziati politici generali, contratti collettivi e erogazione di servizi individuali. Il bello è che anche il sindacato più rivoluzionario, un Cobas o un Cub, opera come agenzia quasi pubblica quando fa le pratiche Caf, oppure quelle del patronato, oppure ancora patrocina una causa attraverso l’ufficio vertenze. Un’altra partita che molti altri sindacati al mondo hanno fatto propria, e che il sindacato italiano – sbagliando – non ha seguito, è la previdenza integrativa, un terreno nel quale attività contrattuale e servizio individuale si mescolano in modo indissolubile.
Si potrebbe parlare anche delle politiche attive. Tieni presente che qui c’è sempre stata una riserva ideologica della Cgil: non può essere il sindacato a fare il caporalato. Chiedo: ma c’è davvero questo rischio? Io ritengo di no, almeno in larga parte del paese. Tanto più che il collocamento pubblico non ha mai funzionato. Per non parlare della formazione. Anche qui il sindacato si è ritirato su una posizione ideologica, cioè dicendo in sostanza: è il pubblico che lo deve fare. Così sono cresciute migliaia di aziende private!
Possiamo parlare di un’evoluzione verso un “sindacato dei cittadini”?
Qualcosina c’è, ma è sempre complicato, perché alla fine il core business del sindacato rimane il lavoro. La stessa dichiarazione dei redditi è molto collegata al lavoro. Ogni volta che si va fuori da quegli ambiti il sindacato annaspa, non riesce a fare l’intermediazione, l’assistenza pensionistica integrativa, il collocamento di manodopera… C’è un indubbio interesse in questa direzione, ma per il momento forse è bene che si concentri sulle materie di core business, senza andare troppo lontano.
I problemi che vedo sono di altro tipo. E di nuovo coinvolgono tutti e tre i sindacati. Il primo è un inceppamento nella selezione dei gruppi dirigenti. Per varie ragioni, i vertici sindacali sono vecchi. Mentre in passato c’erano linee di uscita e quindi il sindacalista entrava giovane, faceva una carriera rapida e usciva ancora relativamente giovane per andare in politica o nel mondo associativo, oggi questi canali si sono molti ridotti e l’intera carriera avviene all’interno del sindacato, per cui ai vertici, sia provinciali che regionali che nazionali, c’è una generazioni anziana intrappolata in ruoli e funzioni di cui farebbe volentieri a meno se solo avesse una qualche alternativa. Carniti quando uscì dalla Cisl nel 1985, aveva 49 anni, e a quell’età aveva già fatto il segretario nazionale della Fim, il segretario confederale e il segretario generale della Cisl. Oggi sono tutti sopra i 60 anni e non hanno modo alcuno di andarsene se non alla pensione.
Il secondo punto complicato di queste organizzazioni è come garantire l’efficienza dei servizi. Perché nel servizio la logica è diversa. Mentre nella parte sindacale io lavoratore vado in cerca di rappresentanza, nella parte servizi io sono un cliente e voglio essere trattato come tale, non come un fedele. Là sono in una chiesa, qui sono in un mercato. Questo è un punto delicato.
Terzo punto, sempre un po’ rognoso in questa faccenda, è che un sindacato così ha perso l’appeal intellettuale. Cioè nessuno riconosce un interesse etico-morale a una roba del genere. E quindi nessuno se ne occupa. Questo rimane un dilemma. D’altro canto il mondo è pieno di istituzioni, organizzazioni che non ispirano chissà quali ideali eppure sono necessarie lo stesso. Accettiamolo così com’è e facciamocene una ragione. In fondo, anche per la scuola, l’ospedale, ecc., l’importante è che funzionino bene. Se dentro ci sono missionari o meno è un di più, per il resto pazienza.
Complessivamente la tua visione non è così pessimista…
Io faccio parte degli ottimisti. È evidente che ci sono due problemi che si sovrappongono. Il primo riguarda il minore numero di posti di lavoro a causa dello spiazzamento tecnologico; con questa questione prima o poi un po’ di conti dovremo farli, però l’unico modo che vedo per risolverla nel breve-medio periodo non è tanto la riduzione d’orario, ma la generalizzazione dei salari di cittadinanza, ovvero, garantire comunque la sopravvivenza a tutti.
Poi c’è il problema dei posti di lavoro “cayenna”. Noi sappiamo già come funziona: lì ci vanno gli immigrati e gli spiazzati dalle nuove tecnologie. Ora, se questo fa parte di un percorso di carriera, se è una porta d’ingresso che conduce a posti di lavoro prima o poi migliori, potrebbe anche essere una soluzione accettabile in un momento storico così difficile. Come accetto che ci sia il salario d’ingresso, l’apprendistato, accetto anche la “cayenna”, se questo è parte di un percorso di miglioramento professionale. Al limite potrebbe essere una strategia sindacale di intervento in questi settori. Ma se rimangono prigioni a vita, non resta che il vecchio sindacalismo d’antan, duro e cattivo.
Dopodiché, rimane un punto decisivo che riguarda la logica sindacale, se si vuole davvero prenderla sul serio. Il fatto cioè che il sindacato ha un solo vincolo etico-morale: firmare i contratti. Un sindacato che non firma i contratti viene meno al suo ruolo. I contratti si firmano anche quando sono peggiorativi, se non c’è niente di meglio. Ci sono delle fasi storiche in cui prendo di più, fasi storiche in cui prendo di meno, fasi storiche in cui perdo… Non c’è nessuna ragione al mondo per pensare che la storia progredisca, vada sempre verso il meglio. Per questo dico che il sindacato deve negoziare anche le ritirate. Deve accettare anche di perdere, oltre che di vincere. Perché è meglio un contratto che nessun contratto, anche un contratto bidone, purché dentro ci sia la garanzia della mia sopravvivenza, e con essa la possibilità di firmare un contratto migliore quando “the times they are a-changin”.
*Paolo Feltrin insegna Analisi delle politiche pubbliche all’Università di Trieste. Ha insegnato presso le Università di Firenze e Catania, presso la Scuola superiore di pubblica amministrazione di Roma e il corso di dottorato in Scienza politica di Firenze. Il libro di cui si parla nell’intervista è Al bivio. Lavoro, sindacato e rappresentanza nell’Italia di oggi, di Mimmo Carrieri e Paolo Feltrin (Donzelli, 2016)
**da: Una città, n.235/2016