Stiamo assistendo, da un po’ di tempo, nel dibattito pubblico e nei mass –media, ad una riscoperta della figura di Adriano Olivetti. Olivetti è stato una personalità originale nell’Italia del ‘900. Imprenditore di raffinate qualità, intellettuale visionario (qualcuno lo ha definito un “utopista tecnicamente provveduto”), deputato al Parlamento (fondò il Movimento politico “Comunità”). Insomma una figura complessa, che ha fatto, per un certo periodo, la storia dell’Italia. Una storia che ha segnato, ed è una pietra miliare, il cammino della cultura industriale italiana ed europea.
In questo prezioso libretto di Franco Ferrarotti, la concreta utopia di Adriano Olivetti (Edizioni Dehoniane, Bologna 2013, pagg. 104, € 6,50), in poco più di cento pagine viene focalizzato il suo pensiero davvero poliedrico.
Ferrarotti, un maestro della sociologia italiana e che è stato tra i più vicini collaboratori di Olivetti (insieme ad altri intellettuali italiani), ci conduce con essenzialità al pensiero del grande imprenditore.
Centrale nella sua riflessione è il tema del rapporto tra fabbrica e comunità, un rapporto che è stato visto, nel passato, come una sorta di chiuso organicismo.
Invece è il frutto di un rapporto virtuoso con la comunità. Tanto che questo non ha impedito alla Olivetti di diventare una “multinazionale”, non c’è nulla di arcaico in questo rapporto. Alla base di questo c’era la visione del lavoro dell’uomo come “lavoro intelligente”, ovvero nei confronti degli operai c’era tutta la cura all’educazione al lavoro (educazione che è ben altra cosa dall’addestramento).
E c’è anche una visione del manager, o capitano d’industria, non come un apolide, o un razziatore di capitali, ma come espressione dei valori della comunità. Insomma la costruzione olivettiana fa perno su un triplice fondamento: l’espressione democratica di base, le forze lavoro e la cultura .
La comunità per Olivetti non è il chiuso “organismo” settario ma è la “nuova misura”, ovvero il punto di equilibrio, il punto di convergenza, in cui si ritrovano e riacquistano la propria funzione la persona e lo Stato, l’efficienza amministrativa e la tensione ideologico – politica, il passato storico e l’ambiente socio-fisico. Ovvero la dimensione giusta fra il municipalismo sezionale deteriore e tendenzialmente qualunquistico e la babele della grande metropoli.
Come si vede, in Olivetti è presente una “globalità integrata”, non c’è nulla di ideologico anzi c’è una tecnicità nella sua riflessione molto profonda, che tocca molti punti, dal politico all’economico passando attraverso un umanesimo integrale (quello di Maritain e di Mounier) che da anima alla prassi.
Anche la spiritualità, figlio dell’ebraismo e del cristianesimo, è presente nella storia della “concreta utopia” olivettiana. Ritorna allora in primo piano il fattore umano. Quel fattore umano che legato al lavoro gli ha consentito di creare opere e percorsi inediti.
Il lavoro dovrebbe essere – ricorda Olivetti – “una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva e non giovi a un nobile scopo. L’uomo primitivo era nudo sulla terra, tra i sassi, le foreste e gli acquitrini, senza utensili, senza macchine. Il lavoro solo ha trasformato il mondo e siamo alla vigilia di una trasformazione definitiva ” poiché “finalmente per la prima volta nella storia della tecnica, i mezzi materiali a disposizione dell’uomo, quell’energia che l’uomo riscattava dal lavoro […] ci è data con una forza inaspettata, inesauribile. Per liberare forse l’uomo dalla sua condanna”.
Qui irrompe la dimensione “spirituale” che ogni lavoro porta con sé. Da qui si entra nel lungo cammino della liberazione umana.
(dal sito: www.rainews24.it)