Siamo alla fine del quinto anno di recessione. Mal contati, ci sono 6 milioni di persone di ogni età che vorrebbero lavorare ma non possono, non lo trovano. Ne stiamo parlando da troppo tempo, non mancano le occasioni di dibattito, il disagio cresce, le famiglie stringono la cinghia, ma le proposte risultano sempre al disotto delle necessità. I più ottimisti – e bisogna stare dalla parte degli ottimisti, purchè non siano di maniera – intravedono una ripresa produttiva, non generalizzata ma pur sempre capace di invertire una tendenza con il segno negativo persistente da tempo.
Diamola pure per vera, anzi diciamo che è proprio sperabile che nel 2014 i fondamentali della nostra economia diventino più interessanti. Le scaramucce tra Ministero dell’Economia, Istat e Eurostat ci interessano fino ad un certo punto. Il segnale c’è. Ma la questione diventa subito un’altra: quanto interessante? Se il movimento è verso il positivo, ma il suo spessore è impercettibile, la drammaticità occupazionale resta tutta intatta. Lo sanno anche quelli che non hanno studiato economia che per avere un incremento di un 1% dell’occupazione, il Pil deve crescere oltre il 2%. Purtroppo, non c’è un solo analista che preveda tassi di crescita di questa misura per l’Italia, nel breve e nel medio periodo.
A fronte di questo scenario, le classi dirigenti, dagli imprenditori ai sindacati, dagli intellettuali ai politici tendono a ridurre al minimo l’impatto sociale che esso produce, cercando soluzioni per l’emergenza. D’altra parte, soprattutto per chi svolge ruoli di rappresentanza sociale, la soluzione dei problemi emergenti è inevitabilmente la questione più essenziale. Il guaio è che tutti vengono trascinati in questo imbuto congiunturale, in questo impegno a tamponare, relegando la visione d’insieme nelle retrovie delle scelte. Ma così va in crisi profonda il gradualismo, quella metodologia politica attraverso la quale si procedeva per fasi, ma dentro una prospettiva nota, dichiarata, assunta come terminale della propria iniziativa.
Anche il Governo Letta soffre di questa asfissia. Eppure, nel quinquennio che è passato, è stato il primo a dichiarare che l’occupazione giovanile era la sfida più pressante e su cui si sarebbe impegnato con costanza. Era una dichiarazione significativa, che cercava di allargare l’orizzonte oltre la tutela assistenziale per chi perdeva il lavoro o non lo trovava. Era il tentativo di mettere sullo stesso piano le difficoltà dei padri e le aspettative dei figli. Era la premessa – almeno così si è cercato di farla percepire – di una visione più strategica della politica governativa per l’occupazione.
Al dire, non corrispondono i fatti. Servono a poco, la riconferma degli incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato per i giovani del Sud, il bonus assunzioni giovani decretato alla fine di giugno (ad oggi, si contano 14000 domande e nessuno sa dire se sono assunzioni aggiuntive), la “Garanzia Giovani” (programma europeo in partenza dal gennaio 2014, per orientare e tutorare verso il lavoro i giovani tra i 15 e i 24 anni). Per carità, danno non fanno; anzi, se partisse con il piede giusto, la “Garanzia Giovani” riempierebbe un vuoto di governance pubblico-privato nei servizi per l’impiego che pesa sulla possibilità di far incontrare, giorno dopo giorno, domanda e offerta di lavoro.
Questi interventi risentono di un’ assenza di prospettiva. Che, per avere effetto visibile sull’occupazione, in condizioni di risorse scarse, dovrebbe fondarsi su tre linee strategiche:
- far crescere la domanda interna, dato che quella che viene dall’estero è già in movimento; le aziende che producono oltre il 50% per le esportazioni (nella metalmeccanica sono più del 40%, dati Federmeccanica) non hanno bisogno di nessun incentivo. I settori che boccheggiano sono quelli che operano per la domanda interna e questa può crescere soltanto se crescono i consumi e cioè i salari e le pensioni. E’ su queste voci che dovrebbero concentrarsi buona parte delle risorse della legge di stabilità;
- bloccare l’emorragia della disoccupazione; a questo scopo, andrebbero incentivati i “contratti di solidarietà” per far ruotare tutti i dipendenti di un’azienda in difficoltà sul lavoro esistente, piuttosto che mettere in una situazione assistenziale quote crescenti di lavoratori;
- proporre accordi di settore o territoriali, anche con contrazioni significative del cuneo fiscale, per ridurre gli orari per un periodo determinato nelle aziende che lavorano a pieno regime, allo scopo di favorire l’occupazione giovanile, anche attraverso una completa fiscalizzazione degli oneri previdenziali per i contratti part-time.
In questo contesto, il lavoro diventerebbe realmente una centralità della strategia economica del Paese. Il dire si compatterebbe con il fare, il gradualismo acquisterebbe un’anima, la gente capirebbe che – qualora fosse necessario un tributo in più – servirebbe a rimettere in piedi la vita economica e sociale. A deprimere il comune sentire degli italiani è l’assenza di un “realismo progettuale”, che provoca soltanto soluzioni fragili a questioni complesse. Non c’è niente di visionario, nel senso positivo del termine, nella battaglia contro l’Imu. La tassazione sulla casa – anche la prima, sebbene in forma ridotta – esiste in tutti i Paesi. Soltanto da noi diventa questione di vita o di morte di un Governo. Togliendo spazio a questioni più decisive come il lavoro.
Non sarebbe male se tra il dire e il fare non ci fosse di mezzo il solito mare.