Sul voucher da sempre il confronto tra le diverse opinioni è viziato da una eccessiva ideologia che ha impedito la ricerca di soluzioni equilibrate.
Dalla sua introduzione, lo strumento è stato modificato innumerevoli volte. La scelta, con la legge Biagi del 2003, di introdurre il sistema dei buoni lavoro fu dettata dalla volontà, da una parte, di favorire le opportunità di integrazione del reddito, dall’altra di fare emergere i cosiddetti “lavoretti”. In quella legge erano state inserite molte limitazioni, ma l’ambito di utilizzo è stato in seguito via via ampliato a sempre nuove tipologie di attività, con un susseguirsi di interventi legislativi e amministrativi, fino alla messa a punto operata dalla legge Fornero del 2012, che ha sostituito l’elenco di specifiche attività con limiti agli importi massimi utilizzabili. Il voucher ne risultava così utilizzabile in tutti i settori ed attività entro un limite di 5000 euro per il singolo lavoratore con riferimento ad una pluralità di committenti, e di 2000 euro per i singoli committenti imprenditori. Già prima di questo intervento, via via che la legislazione aveva ampliato le possibilità di utilizzo, i voucher venduti erano costantemente cresciuti, ma il ritmo di crescita divenne particolarmente impressionante dopo il 2012. La crescita è poi proseguita a ritmi inferiori a quell’anno, ma sempre molto elevati.
Negli anni si è dunque diffuso un utilizzo “scaltro” dello strumento, ma il primo paradosso sta nel fatto che questo utilizzo è legale, o appare tale. Ci riferiamo, ad esempio, a situazioni in cui l’impresa sostituisce un lavoratore con l’altro a rotazione, sempre entro il limite dei 2000 euro, fenomeno che abbiamo riscontrato in taluni casi e già da tempo segnalato. Oppure a quei casi in cui il lavoratore è utilizzato in nero, ma si tiene pronto il buono lavoro da presentare in occasione di una verifica ispettiva. Così come è possibile che vi sia stata una crescita di questo strumento in alcune aree del “no profit”, settore dove non vige il limite dei 2000 euro, come effetto non voluto della cancellazione del lavoro a progetto e della stretta sulle false collaborazioni e partite Iva.
Questa, dunque, è stata la paradossale parabola del voucher: da strumento per bonificare i piccoli lavori in nero a fuga dal lavoro regolare e dispositivo di dumping.
Arrivando a tempi più recenti, nel 2015, in occasione del confronto sul decreto attuativo del Jobs Act relativo alle tipologie contrattuali, la Cisl aveva denunciato il voucher come improponibile in tutta una serie di settori ed attività lavorative, a partire dall’edilizia, essendo disponibili nell’ordinamento altri strumenti di flessibilità legislativa e contrattuale. In quell’occasione abbiamo detto con chiarezza al Governo che in Italia c’era uno strumento di troppo, ed abbiamo posto una alternativa: o il voucher o il lavoro a chiamata, trattandosi di strumenti sovrapponibili quanto ad utilizzo. Il Governo ha voluto fare scelte diverse, affidandosi al solo intervento sulla tracciabilità del voucher, che sta effettivamente provocando una decelerazione della crescita dei voucher venduti, ma che è arrivato oggettivamente troppo tardi.
L’avere a lungo sottovalutato la questione ha lasciato montare una protesta addirittura eccessiva rispetto all’effettivo utilizzo del voucher, che, a ben vedere i dati, riguarda una percentuale molto bassa della forza lavoro. E’ stato un errore che ha portato ad un altro errore: il quesito referendario della Cgil. Considero sbagliato, infatti, voler affrontare tematiche così delicate a colpi di referendum. Ma è altrettanto vero che il Governo non aveva voluto sentire ragioni, intestandosi in tal modo la paternità di uno strumento che in realtà esisteva da molti anni. Ecco un altro paradosso: il Jobs Act in definitiva, con l’intervento sulla tracciabilità, ha di fatto limitato l’utilizzo del voucher. Eppure il referendum sul voucher sta passando nell’opinione pubblica come un referendum contro il Jobs Act.
Ed ora la scelta di cancellarlo con un decreto legge governativo appare quasi come una “excusatio non petita”. In ogni caso, si tratta di una scelta di mera tattica politica, del tutto incoerente con le posizioni tenute dal Ministro del lavoro al tavolo con Cgil, Cisl e Uil e che peraltro vanifica gli sforzi di sintesi della Commissione Lavoro della Camera. Un segnale evidente di come la politica non sia in grado di stare al passo con il lavoro che cambia, ma faccia prevalere scelte tattiche e di convenienza di parte. E’ stato implicitamente ammesso dallo stesso Governo che si tratta di una scelta tutta politica, volta ad evitare una eventuale seconda sconfitta referendaria, quindi non una scelta di merito.
L’abrogazione del voucher lascia un vuoto che in molti stanno denunciando: effettivamente gettare via, con l’acqua sporca, anche il bambino, lascia tutta una serie di attività utilizzate dalle famiglie, dalle onlus, dalle piccole aziende, prive di uno strumento adeguato mentre le aziende prive di scrupoli continueranno, come hanno sempre fatto, ad escogitare sistemi per risparmiare sui costi e fare dumping. In una parola, crescerà il sommerso.
Ora il Governo si è assunto l’onere di fare una proposta per offrire uno strumento alternativo, e noi ci confronteremo sul merito avendo come riferimento, come sempre, la realtà del mondo del lavoro italiano. E’ difficile immaginare uno strumento che sia così diverso dal voucher, e qualunque scelta rischierà di sembrare una beffa. L’ennesimo paradosso.
Se un insegnamento si può trarre da questa grottesca vicenda, è che va potenziata l’azione contrattuale delle parti sociali: accordi e dialogo sociale sono la via maestra, non certo i referendum.
Quanto al resto, speriamo si chiuda presto questa partita per portare finalmente l’attenzione su temi che finora sono stati trascurati, come la gestione delle crisi aziendali, l’avvio delle politiche attive, le necessarie azioni per favorire l’occupazione di giovani.
(*) Segretario confederale Cisl