Arrivati alla fine di questo difficile 2025, vale la pena fare un bilancio dell’impatto che le politiche trumpiane hanno avuto sulla democrazia americana. Si tratta a mio avviso di un bilancio molto preoccupante, in quanto la trasformazione degli Stati Uniti in una democrazia illiberale è avanzata rapidamente. Come ha notato Jurgen Habermas, “ciò a cui stiamo assistendo negli Stati Uniti è un’analoga transizione da un sistema all’altro, una transizione nemmeno particolarmente graduale, ma semmai poco avvertita, in presenza di un’opposizione paralizzata” (“la Repubblica”, 23.11.2025).
Ciononostante, recentemente ci sono stati segnali di opposizione e di resistenza che alimentano la speranza che la transizione verso un sistema illiberale resterà incompiuta. Sarebbe però sbagliato pensare che l’attuale battuta d’arresto perdurerà fino alle elezioni di metà mandato e, nel caso queste ultime fossero vinte dai democratici, Trump sarà costretto a fare retromarcia. La battuta d’arresto è solo temporanea e, come è nel suo stile, Trump rilancerà il suo assalto al sistema liberaldemocratico con ancora più determinazione e ferocia, convinto com’è che solo un leader autoritario e un esecutivo forte possono assicurare agli Stati Uniti la preminenza mondiale. Inoltre, i frutti avvelenati delle politiche trumpiane continueranno a produrre effetti nefasti ben oltre la seconda presidenza Trump. Il precedente di un “presidente imperiale” è stato creato e, in assenza di improbabili profonde riforme politico-istituzionali, altri quasi sicuramente seguiranno. E anch’essi tratteranno i propri alleati come vassalli; di conseguenza, i leader europei commetterebbero un grave errore se pensassero che, con l’eventuale uscita di scena di Trump nel 2029, si potrà ristabilire facilmente una forte relazione transatlantica.
In due articoli per queste stesse pagine online, il primo apparso subito dopo l’elezione di Trump e il secondo un mese dopo il suo insediamento, avevo analizzato rispettivamente le politiche illiberali che il nuovo presidente avrebbe probabilmente portato avanti dopo il suo ritorno alla Casa Bianca e il tasso di realizzazione di queste politiche nel primo mese della sua presidenza. Il bilancio del primo mese era in sé preoccupante: Trump stava chiaramente imprimendo un’involuzione illiberale alla democrazia statunitense. Nei dieci mesi che hanno fatto seguito a quell’articolo, l’assalto alla democrazia liberale americana è continuato a passo sostenuto, sviluppandosi su diversi fronti.
Fino alla fine dell’estate il rullo compressore trumpiano sembrava inarrestabile e il futuro della democrazia liberale americana in serio pericolo; tuttavia, in autunno il vento sembra aver cambiato leggermente di direzione, Trump ha anzitutto rafforzato fortemente il potere esecutivo a discapito dei contropoteri istituzionali come il Congresso e la Corte suprema. Questi ultimi, entrambi sotto controllo repubblicano, si sono mostrati estremamente acquiescenti nei confronti di un presidente che ha di fatto modificato gli equilibri di potere tra le istituzioni americane. Nel 2025, il neoeletto presidente ha introdotto più di 200 ordini esecutivi, molti di più di quanto abbia fatto ogni presidente americano durante il suo primo anno di presidenza. Inoltre, con il Liberation Day, Trump si è appropriato dell’autorità di imporre tariffe generalizzate che la Costituzione affida invece al Congresso. Certo, la Corte Suprema sta valutando se questa appropriazione indebita è incostituzionale, ma è significativo come il Congresso abbia supinamente accettato una diminuzione così importante dei propri poteri.
Con i media tradizionali – il quarto potere – Trump ha adottato (con un certo successo) una strategia molto aggressiva, volta a intimidirli e neutralizzarli. In parallelo, la politicizzazione della burocrazia federale è avanzata spedita. il presidente ha smantellato agenzie indipendenti e ordinato le purghe di funzionari federali considerati non sufficientemente leali con la nuova amministrazione. L’erosione dell’indipendenza del Dipartimento della Giustizia è particolarmente significativa. Trump ha così potuto lanciare una vera e propria campagna punitiva contro coloro che considera come nemici politici e il Dipartimento della giustizia ha ottemperato, perseguendoli penalmente.
Trump ha anche cercato, fin qui senza successo, di minare l’indipendenza della Banca centrale americana. Il suo obiettivo è quello di avere una Federal Reserve che adotti una politica monetaria in grado di influenzare il ciclo politico in favore dell’esecutivo, anche se questo può avere costi elevati per la credibilità della Banca centrale. In attesa di nominare un nuovo presidente della Federal Reserve nel maggio 2026, Trump lancia continuamente nuovi attacchi, cercando di rendere la Banca centrale americana responsabile di tutto quello che non va nell’economia statunitense.
Il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti si è poi attribuito poteri di guerra in un periodo di pace. Con il pretesto di combattere la criminalità, ripristinare l’ordine pubblico e aiutare gli agenti dell’Ice (Immigration Custom Enforcement) ad arrestare e deportare immigrati illegali, ha inviato la Guardia nazionale a pattugliare diverse città americane guidate da amministrazioni democratiche, senza il loro consenso e senza autorizzazione da parte del Congresso. Siamo qui in presenza di una deriva particolarmente preoccupante, poiché in una democrazia liberale il dispiegamento di forze militari a fini di ordine pubblico avviene solo in presenza di circostanze eccezionali e certamente non sulla base delle “percezioni” del presidente e del suo entourage.
Come si è visto in Ungheria, l’attacco ai pilastri della liberaldemocrazia non può trascurare il sistema educativo, in particolare quello universitario: Trump sta usando la minaccia di revoca dei fondi federali destinati alle università non solo per sradicare quello che considera il “virus wokista”, ma anche per mettere in discussione l’indipendenza del sistema universitario, rimodellandolo, in modo da allinearlo con i valori Maga.
Trump è infine determinato a mantenere il controllo del Congresso dopo le elezioni di metà mandato e sta spingendo gli Stati a guida repubblicana a modificare la geografia dei collegi elettorali in modo da aumentare i seggi sicuri per il Gop. E, per vincere le elezioni di metà mandato, conta anche sull’appoggio del grande capitale statunitense. Arrivato alla Casa Bianca, Trump ha sviluppato una forma aggressiva di capitalismo clientelare (crony capitalism), che ricorda più l’Argentina di Perón che il capitalismo di un Paese avanzato. I presidenti delle grandi società dell’high tech, delle imprese di criptovalute o delle grandi banche vengono convocati alla Casa Bianca, dove devono tessere le lodi delle politiche trumpiane, annunciare investimenti faraonici e fare donazioni alla Fondazione Trump, al Partito repubblicano e/o ai Super-Pac vicini al presidente.
Sviluppando un connubio malsano tra grande capitale, interessi privati (inclusi quelli propri e della sua famiglia) e governo federale (quest’ultimo chiamato a favorire e ad assecondare gli interessi dei primi due), Trump conta di dotarsi di ampie dotazioni finanziarie che aiuteranno a produrre risultati elettorali favorevoli. Ma un tale connubio rappresenta anche un pericolo mortale per il sistema liberaldemocratico, che cerca invece di limitare e circoscrivere il peso degli interessi economici nelle decisioni politiche.
Fino alla fine dell’estate il rullo compressore trumpiano sembrava inarrestabile e il futuro della democrazia liberale americana in serio pericolo; tuttavia, in autunno il vento sembra aver cambiato leggermente di direzione. Anzitutto l’opposizione democratica sembra essersi un po’ ripresa dalla batosta delle elezioni presidenziali e almeno a livello di Stati si è mostrata capace di riprendere l’iniziativa, vincendo diverse competizioni elettorali locali.
La società civile ha anch’essa mostrato segni di risveglio, come testimoniato dalla forte partecipazione alle manifestazioni “No King” contro il crescente autoritarismo trumpiano.Inoltre, la coalizione Maga non è più così compatta: il caso Epstein ha creato una profonda spaccatura nella base popolare trumpiana, una base tra l’altro scontenta per l’eccessiva attenzione che il suo presidente presta agli affari internazionali, trascurando i problemi quotidiani degli americani. Infine, nonostante l’economia americana continui a crescere in termini reali grazie al boom dell’Intelligenza artificiale, non mancano forti elementi di insoddisfazione nell’elettorato: il tasso d’inflazione (anche a causa dei nuovi dazi) continua a collocarsi attorno al 3%, un livello che molti americani considerano eccessivo, mentre i prezzi delle case e gli affitti restano molto elevati, soprattutto per i giovani, che in più trovano sempre più difficile inserirsi nel mercato del lavoro. Si è così determinata una affordability crisis percepita da vasti gruppi della popolazione, che riduce la popolarità di Trump e del Partito repubblicano nei sondaggi.
Nel 2026, se anche i democratici dovessero vincere le elezioni di metà mandato, sarà molto difficile ripristinare una liberaldemocrazia funzionante: l’eredità avvelenata di Trump si farà sentire ben oltre la sua presidenza
Questi sviluppi hanno in qualche modo inceppato il rullo compressore trumpiano. Certo, la picconatura del sistema liberaldemocratico è continuata anche in autunno, ma in tono minore. Come ha notato Edward Luce in un recente articolo sul “Financial Times”, “la recente battuta d’arresto finirà per intensificare gli istinti autoritari [di Trump]. Solo un ingenuo può pensare che non vi saranno interferenze nelle elezioni di metà mandato. Qualunque siano i contorni della risposta di Trump, la sua volontà di potenza è feroce”.
Nel 2026 ci si può dunque aspettare ulteriori dispiegamenti della Guardia nazionale e dell’esercito nelle città statunitensi, un’intensificazione delle retate dell’Ice per espellere immigrati clandestini e un utilizzo più sistematico del Dipartimento della Giustizia e dell’Fbi contro gli avversari politici del presidente. Le politiche di intimidazione contro la stampa e le università tenderanno a intensificarsi e a diventare più virulente. L’opera di esautorazione del Congresso continuerà. Infine, Trump utilizzerà il sistema di crony capitalism che ha creato in questi mesi per ottenere enormi risorse finanziarie da utilizzare per vincere le elezioni di metà mandato.
La deriva illiberale della democrazia americana è dunque destinata a continuare nel 2026 e se anche i democratici dovessero vincere le elezioni di metà mandato sarà molto difficile ripristinare una liberaldemocrazia funzionante. Inoltre l’eredità avvelenata di Trump si farà sentire ben oltre la sua presidenza. In assenza di profonde riforme politico-istituzionali, al momento alquanto improbabili, il precedente del “presidente imperiale” si ripeterà.
I leader europei hanno già commesso un gravissimo errore all’inizio di questo decennio pensando che Trump fosse solo una parentesi nella storia della democrazia statunitense e non si sono attrezzati a conseguire un’autonomia strategica che li rendesse meno dipendenti dal loro alleato di oltre Atlantico. Un tale errore è stato pagato molto caro: dall’accordo sui dazi alla marginalizzazione del ruolo europeo nel conflitto ucraino, i dirigenti europei hanno subito una serie di umilianti sconfitte, che hanno fortemente indebolito il progetto europeo.
Un errore ancor più grave sarebbe però quello di scommettere che con la (probabile) uscita di scena di Trump il peggio è passato e si possa tornare al business as usual nelle relazioni transatlantiche. Come ha notato il primo ministro canadese Mark Carney, “la vecchia relazione con gli Stati Uniti è finita”; una nuova dovrà essere costruita, su basi più paritarie. La palla è dunque nel campo degli europei: se stavolta non faranno quello che avrebbero dovuto fare già qualche anno fa, non potranno poi lamentarsi della loro vassalizzazione. Errare humanum est, perseverare diabolicum.
*Da Il mulino 05/12/2025
