Le democrazie nate nel secolo scorso affrontano una crisi profonda. La competizione tra fazioni del capitale transnazionale e fra gli Stati sta ridisegnando i rapporti tra economia e politica in modo caotico e imprevedibile. Mentre l’egemonia statunitense vacilla e l’Europa cerca una propria autonomia, tornano nazionalismi e tentazioni autoritarie. In questo scenario, la sinistra fatica a trovare una voce comune, ma nuove energie sociali e culturali provano a immaginare un futuro in cui la libertà non sia un privilegio del mercato. Su questi temi Reset ha intervistato Michele Salvati, professore emerito di Economia politica all’Università Statale di Milano.
Oggi la democrazia liberale sembra versare in una crisi irreversibile, proprio là dove era nata. Incapace di arginare un capitalismo ormai senza freni, quali sono le origini di questo processo?
Il capitalismo è una forza rivoluzionaria. Non si fa arrestare dai limiti che gli vengono imposti né dai confini nazionali. Nel periodo dei cosiddetti “trenta gloriosi” è stata possibile una conciliazione fra capitalismo, democrazia e liberalismo: il capitalismo era addomesticato, ben gestito a livello nazionale e internazionale. Ciò aveva consentito crescita e innovazione tecnico-scientifica, prodotte da imprese private in condizioni di mercati competitivi, un adeguato welfare state, libertà e diritti individuali garantiti da un ordinamento giuridico liberaldemocratico, riduzione delle diseguaglianze economiche e sociali eticamente ingiustificabili.
Negli anni Ottanta qualcosa cambia a causa di due processi decisivi, fra loro collegati: la rivoluzione tecnologica e la globalizzazione. Con essi il capitalismo ha avuto via libera e il compromesso, non solo fra capitale e lavoro, ma anche fra capitalismo e democrazia, incontra difficoltà crescenti. Oggi quei processi sono in pieno sviluppo. I “trenta gloriosi” non torneranno ed è a rischio il “matrimonio” fra capitalismo e democrazia.
Negli anni Sessanta aveva parlato dello “sciopero del capitale”: è stato quel processo a causare, inizialmente, la crisi del “matrimonio” fra capitalismo e democrazia?
Allora mi riferivo al contesto italiano, mentre la crisi di quel matrimonio è oggi una questione globale. Innanzitutto, il matrimonio fra capitalismo e democrazia ha avuto vita breve. Nella sua versione più aperta a sinistra, è stato possibile solo nei trent’anni successivi al Secondo dopoguerra: né prima, né dopo. Il cosiddetto “neoliberalismo” che ha accompagnato la globalizzazione dagli anni Ottanta in poi è analogo al “laissez-faire” ottocentesco, malgrado quanto sostengono i suoi teorici. La grande differenza fra il liberalismo ottocentesco e il neoliberalismo di oggi è che, con il secondo, sono entrati nel circuito capitalistico mondiale Paesi che, fino a quel momento, non erano mai stati al centro del sistema.
Come è stato possibile?
Ciò è accaduto perché, con la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica, immettere quei Paesi nel mercato mondiale era diventato conveniente per accedere a un’enorme riserva di forza lavoro a basso costo e frenare la crescita dei salari: lo “sciopero del capitale”, la riluttanza delle imprese a investire, è stata una reazione al fatto che, in condizioni che si avvicinavano al pieno impiego, il lavoro si era “troppo” rafforzato rispetto al capitale. È in questa situazione che sono state aperte le porte all’ingresso nel sistema di Paesi meno sviluppati.In questo modo, però, lentamente prima e poi in modo sempre più intenso, sono entrati come attori rilevanti e politicamente indipendenti nel sistema capitalistico globale molti Paesi in precedenza periferici. Alcuni di questi erano Stati con grandi tradizioni culturali, ma profondamente diverse da quelle dei Paesi occidentali e il loro ingresso nel mercato capitalistico mondiale ha generato una straordinaria crescita economica. In un tempo storicamente assai breve, alcuni – la Cina è il caso più straordinario – sono diventati potenze capitalistiche importanti e politicamente indipendenti, ma rette da governi che non erano, e non sono in una prospettiva prevedibile, liberaldemocratici. E il liberalismo, da orientamento ancora compatibile con politiche economiche diverse da Paese a Paese, si è trasformato in “neoliberalismo”, una concezione ideologica universalistica estrema, applicabile in tutti i Paesi e in tutte le situazioni. Un dogma, insensibile alla varietà dei contesti.
Oggi stiamo assistendo alle estreme conseguenze del neoliberalismo, ma anche a una sua crisi. A livello internazionale ciò sembra riflettersi nella fine del cosiddetto “ordine liberale” fondato sull’egemonia globale degli Stati Uniti…
L’“ordine liberale” del dopoguerra è finito e, senza dubbio, questa fine è legata alla crisi dell’egemonia degli Stati Uniti e, in particolare modo, alla politica di Donald Trump. Non è vero, come è stato detto, che Trump è isolazionista. Al contrario, Trump sta perseguendo delle politiche economiche estrattive e rapaci, per cercare di conservare la sua egemonia globale. Lo fa competendo in primo luogo con la Cina, che è l’unico Paese di cui ha paura. Eppure, a livello politico prova una forma di ammirazione per Pechino. Questo perché Trump ha molta più spontanea simpatia per le vere autocrazie che per le democrazie. Lui ragiona come gli autocrati.
Trump sta quindi cercando di conservare l’egemonia statunitense, ma le sue decisioni hanno comunque messo a soqquadro l’ordine internazionale, incrinando i rapporti anche con l’Unione Europea. Il suo è allora, piuttosto, un tentativo di conservare un dominio senza egemonia?
Si potrebbe dire anche così, ma è una situazione aperta e gli esiti sono imprevedibili. Inoltre, c’è chi lo segue pedissequamente, anche in Europa, come la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni. Oggi, per esempio, il conflitto fra Meloni e il presidente francese Emmanuel Macron è esattamente su questo punto. Macron spera di poter imporre una vera autonomia geopolitica, geoeconomica e culturale dell’Europa rispetto agli Stati Uniti, da cui vuole un distacco, perché vede che si stanno muovendo in una direzione né democratica né liberale. Macron vuole mantenere i rapporti con gli Stati Uniti, ma non vi si allinea ideologicamente, mentre Meloni sì. La partita dell’egemonia globale, e non solo quella del dominio mondiale, è ancora aperta.
L’Unione Europea non ha una sua posizione unitaria in questo contesto?
L’Unione Europea è in una morsa fra Stati Uniti e Cina. Deve allentarla ma non ci sta riuscendo, tanto meno in modo unitario, perché è composta da democrazie nazionali molto differenti fra loro, politicamente, economicamente e culturalmente. Sul futuro dell’Ue una posizione chiara, ma molto difficile, è quella di Mario Draghi. Per lui potrebbe salvarsi solo a patto di diventare una vera e propria federazione, agendo quindi come uno Stato-potenza dotato di un’unica politica economica e internazionale. È una posizione criticata da coloro che ritengono che ciò condurrebbe inevitabilmente a politiche neoliberali, se non si vuole abbandonare l’Alleanza atlantica.
Lei che ne pensa?
Credo che si tratti di un rischio da correre. Quale sarebbe l’alternativa? Lo status quo di tante e diverse politiche nazionali? La rinuncia a fare dell’Unione uno dei grandi attori di un nuovo ordine politico e geoeconomico mondiale? Un’Unione frammentata e preda di conflitti interni è proprio quello che vogliono le grandi potenze dominate da autocrazie. Decreterebbe la fine dell’ordine internazionale liberaldemocratico, di ciò che era sembrato possibile a partire dal dopoguerra e fino al primo decennio del secolo in cui viviamo. Evitare questa fine è ancora possibile e molto dipende, oltre che da un colpo di reni dei principali Stati dell’Unione, dall’evoluzione politica degli Stati Uniti. Non diamo per scontato che Washington sia diventata stabilmente un’autocrazia.
Siamo consegnati a queste alternative geopolitiche oppure, quantomeno dal basso, è possibile sperare di cambiare gli equilibri? D’altronde, il corpo sociale non è del tutto inerte di fronte ai cupi scenari del presente: il 22 settembre qui in Italia lo ha dimostrato.
La manifestazione del 22 settembre è stata molto bella. Qui a Milano è stata davvero grande e viva sotto una pioggia battente. Ci sono state, alla fine della manifestazione, degenerazioni violente che erano possibili da reprimere e che non solo la destra, ma molti media hanno colpevolmente sottolineato a discapito del successo della manifestazione. Ha confermato però che esiste una grande area di sinistra che rifiuta la guerra, l’autocrazia e il neoliberalismo. Ma quest’area non è organizzata, e al momento non sembrano esserci forze democratiche capaci di farlo. Da cinquant’anni, assistiamo a questa enorme dispersione di forze nel campo della sinistra italiana.
Le eterogenee forze di sinistra non possono quindi ricompattarsi, in Italia?
Per capire le differenze tra il caso italiano e quello degli altri Paesi con i quali siamo soliti confrontarci, bisogna tornare alle origini della nostra Repubblica. Il sistema politico che prese forma dopo la guerra e venne definito dal patto costituzionale del 1948 risultò formato da partiti che obbedivano a una convenzione tacita ma fondamentale: quella di ammettere al governo solo quelle forze politiche che si riconoscevano nell’alleanza guidata dagli Stati Uniti ed escludere quelle il cui riferimento internazionale era l’Unione Sovietica. Riferimenti a politiche economiche e sociali definite e giustificate sulla base dello sviluppo interno del Paese erano secondari rispetto a questo discrimine internazionale. E l’adesione al modello liberaldemocratico segnalava proprio questa nuova convenzione, che sostituiva la precedente Conventio ad Excludendum. Quando l’Unione Sovietica implose dopo l’abbattimento del muro di Berlino, i partiti si dovettero convertire tutti a questo modello, se intendevano competere per il governo del Paese: anche i partiti che provenivano da tradizioni profondamente diverse da quella liberaldemocratica. La tardiva “romanizzazione dei barbari”, la conversione alla liberaldemocrazia, prese molto tempo e fu causa di continui conflitti, che rallentarono non poco lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese: questa è la convinzione che mi sono formato studiando le vicende di Stati che, già nel Primo dopoguerra, riuscirono o furono costretti a darsi un assetto politico liberaldemocratico.
Cosa ne è di quelle forze politiche, oggi?
I partiti che formano le due coalizioni politiche che oggi si contendono il governo italiano non smettono di rimproverarsi la loro origine e di mettere in dubbio la sincerità della loro conversione alla liberaldemocrazia. In un momento di emergenza e di incertezza come quello in cui stiamo vivendo, da un quarto di secolo il nostro Paese è il fanalino di coda di un’Europa in evidenti difficoltà. Ricompattare la sinistra è però parte di un problema maggiore: quello di definire un sistema politico che consenta di ridurre i contrasti, le polemiche, la faziosità che il funzionamento attuale del bipolarismo provoca. Si tratta, come è stato detto e ripetuto, di passare da un bi-populismo a un bipartitismo realistico e moderato. Vorrei sbagliarmi, ma se si continua sulla strada che abbiamo seguito sinora, temo che una crisi grave della democrazia italiana sia vicina.
*da Reset Dossier n. 176, 10/11/2025
