Newsletter

L’autonomia del sindacato è a rischio, ma è ancora nelle sue mani*

Premessa d’obbligo

Sono un incallito estimatore del sindacato – quello confederale, storico, per capirci   CGIL, CISL e UIL – non per nostalgia personale; lo considero un soggetto sociale non solo determinante per la tutela dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, ma anche per cooperare per uno sviluppo sostenibile del benessere collettivo e soprattutto per la tenuta e ampliamento della democrazia del nostro Paese e nel mondo. 

Sono convinto che, se queste tre caratteristiche non viaggiano in parallelo e non diventano incisive, il ruolo del sindacato non verrebbe messo in discussione ma perderebbe di mordente e di efficacia. E’ di tutta evidenza che la manifestazione per la Palestina del 22 settembre 2025, se fosse stata indetta e gestita da CGIL, CISL e UIL e non da USB avrebbe avuto ben altra proiezione futura e finanche meno spazi di agibilità dei “guastatori” di professione. Una grande occasione mancata.  

Sono altrettanto certo che ci sia stata una progressiva scissione tra la funzione primaria della tutela e le altre due, più politiche. Non intendo sostenere che non ci siano state proposte, richieste, rivendicazioni, confronti, mobilitazioni più o meno consistenti, talvolta eclatanti, purtroppo anche non unitarie. Ma sotto il profilo della innovazione significativa rispetto all’esistente, del loro clamore nell’opinione pubblica, dei loro effetti modificativi della condizione dei soggetti rappresentati è calato sistematicamente il silenzio, l’indifferenza dei mass media, l’attenzione sociale e degli stessi lavoratori e quindi è scemata la rilevanza dell’azione sindacale.

Non si tratta di additare responsabilità individuali e collettive dei gruppi dirigenti che appunto, essendo “gruppi”, spetta ad essi decidere responsabilmente del destino delle organizzazioni di appartenenza.  Si tratta di capire le ragioni di fondo che hanno determinato questa situazione e se ci sono possibilità concrete di correggere, sterzare, reimpostare strategie capaci di corrispondere a quei tre ruoli essenziali per consentire ai lavoratori e alle lavoratrici di esercitare un’influenza decisiva in questo Paese.

L’eredità dell’autonomia

Per orientarsi e non farsi travolgere dagli eventi conviene tenere d’occhio il passato, dal quale trarre i suggerimenti più utili per fare scelte giuste. Il tempo che fu è sempre una miniera ricca di suggestioni profonde anche per quanto riguarda il sindacato. 

Il materiale più raffinato che si può estrarre da questa miniera è la testarda, composita e controversa costruzione dell’autonomia di pensiero, di azione e di organizzazione che ha coinvolto le tre Confederazioni. Dando per scontata l’autonomia da tutte le controparti contrattuali, più complessa era quella dalla politica. Il percorso non è stato né lineare, né omogeneo, né scontato. In quegli anni, coincidenti con la prima Repubblica, il sistema dei partiti era ben radicato nella società, aveva una forza propositiva di forte impatto, culturale e propositivo, disponeva di gruppi dirigenti collaudati dalla lotta di Liberazione e dalla successiva esperienza di governo amministrativo e istituzionale. La presa sui corpi intermedi di rappresentanza di interessi e di idealità intensamente contrastanti (a lungo ha dominato la “guerra fredda”) era una cosa concreta, anche se con sfumature differenziate. Marcatissime – c’era la regola della “cinghia di trasmissione” – per i partiti di sinistra e la CGIL e la UIL; meno formalizzate e vincolanti per le altre forze e in particolare tra Democrazia Cristiana, CISL e ACLI. Ma resta il dato che l’autonomia risentisse molto del Patto di Roma del 1944, che diede vita, sia pure breve, alla CGIL unitaria.

Partì dal mondo cattolico la spinta a far diventare “adulti” i corpi intermedi. Sono note come evolsero alcune battaglie del sindacato: per le incompatibilità tra essere sindacalista e parlamentare, per tagliare i ponti tra essere dirigente del sindacato e dirigente di partito, per non limitarsi a fare i contratti e occuparsi anche di politica economica. La CISL diede il là a questo sostanzioso embrione di autonomia generativa; più sollecita a seguirne l’esempio fu la UIL, molto sofferto l’approdo della CGIL. 

Lo sganciamento formale nel rapporto tra sindacato e partito non avrebbe avuto successo senza una progressiva appropriazione culturale e programmatica dell’iniziativa sindacale. La debolezza organizzativa e di proselitismo spinsero ad una incalzante ricerca di impostazione, di opinioni e di priorità sia sulla politica contrattuale (a partire dalla contrattazione decentrata) che su quella dei diritti democratici (in primis lo Statuto dei lavoratori) e della politica economica e sociale (il potenziamento del welfare, innanzitutto). 

Non starò a dettagliare come si qualificò ulteriormente questa autonomia propositiva e di iniziativa. C’è ormai una letteratura consistente e polifonica che la documenta. Mi interessa sottolineare che negli anni sessanta e settanta essa non fu il frutto di uno spontaneismo movimentista, dentro e fuori i luoghi di lavoro (penso al movimento studentesco di quei tempi) a cui il sindacato avrebbe fatto da altoparlante e propulsore. Il sindacato non si è mai fatto trascinare nell’ingorgo della lotta per la lotta, nel furore quasi insurrezionale di alcuni leaders di base; seppe incanalare quella formidabile spinta al cambiamento con una sua visione egualitaria, solidale e democratica che produceva obiettivi e contenuti trasformabili in risultati tangibili.

E tutto ciò, perché c’erano una elaborazione originale e una opzione realmente riformistica che aveva la consistenza sia per coinvolgere il consenso dei lavoratori e delle lavoratrici, indipendentemente che fossero o no già iscritti sindacalmente, sia per ottenere risultati tangibili, robusti e irreversibili ai tavoli del confronto con le controparti imprenditoriali e governative, ai vari livelli. Fu questa autonomia, irrobustita dalla pratica negoziale, che consentì all’insieme del sindacalismo confederale di essere anche un punto di riferimento nel mondo sia attraverso la solidarietà con le organizzazioni sindacali dei Paesi più poveri, sia partecipando al governo delle strutture sindacali internazionali.

Nello stesso tempo, consentì di acquisire un ruolo determinante nel dibattito politico del Paese, contribuendo significativamente a demolire finanche il terrorismo nero e rosso, prosciugando il consenso – contenuto ma insidioso – che si stava formando tra la gente nei luoghi di lavoro. E tutto ciò va a merito dei gruppi dirigenti di CGIL, CISL e UIL che non erano aprioristicamente d’accordo su tutto, ma avevano scelto di privilegiare la mediazione, ovviamente la migliore e più alta possibile, per poter realizzare il maggior vantaggio per i lavoratori e le lavoratrici.

La mutazione dell’autonomia

E’ un’eredità robusta, che ha retto l’urto della frantumazione dell’unità sindacale che poteva essere alle porte, se quel mattino del 14 febbraio 1984 la CGIL non avesse deciso di non sottoscrivere un accordo con il Governo Craxi, pur avendo dato il proprio contributo nella fase di discussione. La pressione del PCI fu inesorabile, oltre che inusuale. Probabilmente si rese conto che con quell’accordo, l’approdo all’unità sindacale diventava possibile, concreto e dal punto di vista del partito, ingombrante. I tentativi successivi non fecero risalire la tensione unitaria, pur tentata con tenacia (gli accordi con i Governi Amato del 1992 e Ciampi del 1993 lo testimoniano); ciascuna Confederazione prese la sua strada. Il PCI ne uscì traumatizzato e la sua proiezione verso un’inedita aggregazione di rappresentanza politica non ebbe più la robustezza e l’autorevolezza del passato. 

Ci sono molti cambiamenti che concorsero a mutare la qualità dell’autonomia delle organizzazioni sindacali. Un sistema dei partiti largamente fragile, molto condizionato dalla natura bipolare delle regole elettorali che hanno spinto a privilegiare il leaderismo (e il culto della personalità in alcune forze politiche la fece da padrone), la verticalizzazione delle decisioni (contagiosa anche per il sindacato) e la voglia di potere piuttosto che l’omogeneità programmatica delle coalizioni. Un susseguirsi di Governi con poca stabilità temporale e quindi sempre più tendente a confronti dal contenuto congiunturale se non emergenziale. Associando spesso a questa caratteristica anche situazioni produttive e commerciali sfavorevoli, sia pure in una lunga fase di bassa inflazione, il difensivismo del sindacato è stato una costante. Infine, la progressiva internazionalizzazione delle grandi imprese e l’assenza di politiche di sostegno alla trasformazione delle medie e piccole imprese in soggetti più competitivi (anni ed anni di incremento della produttività vicina allo zero) hanno indebolito le potenzialità del   fronte imprenditoriale in tutti i settori e reso la loro rappresentanza assolutamente inadeguata, spesso evanescente.

In questa situazione, anche il sindacato confederale italiano ha abbandonato progressivamente la sua connotazione di forza riformatrice. Non ha perso autonomia, anche perché nessuna gliela insidiava, ma è cambiata la qualità. Ciascuna confederazione con la propria matrice originaria, ciascuna con la cultura che è stata elaborata nel dopo S. Valentino. Di questa mutazione, fanno testimonianza tre spaccati dell’attività del sindacato soprattutto in questo primo quarto di secolo.

Si è rafforzata l’identità contrattuale delle categorie. Ma con molte differenze. Le più forti per struttura produttiva, le meno esposte alla competitività internazionali e le più sindacalizzate hanno messo in campo – quasi sempre unitariamente – proposte e iniziative di governo delle ristrutturazioni e di tutela salariale e dei diritti che hanno abbastanza protetto e soddisfatto i lavoratori e le lavoratrici. Quelle meno forti, riguardanti buona parte del pubblico impiego e settori con una moltitudine di piccole e piccolissime aziende, non hanno tenuto il passo con le scadenze contrattuali e quindi con le tutele necessarie. 

I prodromi di una neo-corporativizzazione del mestiere sindacale si addensano nella pratica concreta della gestione delle relazioni sindacali. E ciò, anche perchè il ruolo politico del sindacato è stato ridimensionato dallo svuotamento della prassi del confronto sia con le controparti private (l’ultimo accordo con la Confindustria, il Patto per la fabbrica è del 2018) che con i Governi (l’ultimo Governo Berlusconi del 2008 fu il destinatario di più di uno sciopero generale senza cambiare una riga della sua legge di bilancio e quello Renzi nel 2016 parlò con CGIL, CISL e UIL per non più di un’ora della legge di Bilancio, al mattino presto, prima del Consiglio dei Ministri che la varò senza correzioni sostanziali). 

Nessuna delle organizzazioni ha sposato la logica del “governo amico” – sia quando la coalizione governativa era di centro sinistra che di centrodestra – ciascuna, però, ha virato il proprio giudizio autonomo in funzione delle convenienze immediate e più opportune. La CGIL ha perseguito una logica neo labourista con l’esplicito obiettivo di dettare l’agenda della sinistra e coalizzare intorno a sé l’arcipelago dell’associazionismo sociale più radicale. La CISL ha scelto la strada stretta del giudizio sui contenuti, ma per la parzialità dei risultati offerti dai Governi più recenti fino all’attuale, ha dato l’impressione, senza far molto per smentirla, di essere appiattita su chi fosse al potere, indipendentemente dal loro colore. La UIL, che per un lungo tratto ha fiancheggiato la CGIL, ha avuto uno scatto di autonomia quando quella ha preso la via dell’azione legislativa con i referendum sul lavoro, usciti sconfitti dal voto popolare; inoltre, non ha favorito la scelta della CISL della legge sulla partecipazione, sanzionata dal voto parlamentare mutilata da importanti e significativi contenuti presenti nella proposta cislina.

Eppure, da San Valentino in poi, le tre organizzazioni non hanno avuto significative conseguenze organizzative. Ciò è dovuto anche al potenziamento dei servizi forniti ai lavoratori in fatto di fisco, previdenza, assistenza su vari fronti, anche a gestione interprofessionale, (casa, formazione, sanità, tempo libero, ecc.). Un’attività svolta con un buon livello di professionalità e quindi capace di attrarre la fiducia di moltissimi lavoratori e lavoratrici sia già iscritti al sindacato, sia non iscritti e spesso ascrivibili proprio per il buon giudizio sui servizi. Con la fiducia, si consolida anche una stabilità finanziaria, tanto da integrare sostanziosamente le altre funzioni svolte dalle strutture sindacali. Non a caso, il rapporto tra quanti sono addetti a questi servizi e quelli che si dedicano alle altre attività, a partire dalla contrattazione, in molte realtà territoriali è a favore di quelli dei servizi. Un’ombra su questo assetto, si può stendere in prospettiva per via della progressiva digitalizzazione delle procedure che oggi necessitano dell’assistenza sindacale verso i singoli lavoratori. Con tutte le conseguenze che ciò potrebbe comportare sulla stabilità e autonomia dei bilanci sindacali. 

Rigenerare progettualità per essere punta di diamante del sociale 

In definitiva, l’autonomia delle tre confederazioni ha ancora sufficienti anticorpi per non risultare condizionata, né subalterna a partiti o Governi. Semmai si sta delineando un collateralismo ambiguo sul fronte dei rapporti tra sindacati e partiti, più alimentato pubblicamente da questi ultimi, poco smentito dai primi, ma fondamentalmente estraneo ad ogni strutturalità delle relazioni. E’ ovvio, che una reiterazione nel tempo di questa ambiguità potrebbe indebolire l’attuale presidio dell’autonomia.

Ma è da qui e più precisamente da un contenimento dello sconfinamento dell’autonomia su terreni non propri della loro tradizione, che può essere ricercata la perduta unità di intenti che li farebbero egemoni dell’ampio schieramento dei corpi intermedi e renderli più autorevoli ed efficaci nello svolgimento della loro iniziativa. D’altra parte, non è all’orizzonte altro soggetto sociale, capace di riempire il vuoto di proposte di forte compattezza e di ampio impatto che possa salire dalla società. 

Dal fronte imprenditoriale non c’è da aspettarsi autonomia propositiva. Ha base troppo frastagliata, quote rilevanti di aziende importanti in mano a capitali esteri che oggi ci sono e domani spariscono, scarsa omogeneità valoriale. Non c’è all’orizzonte un Olivetti che sappia mettere l’impresa al servizio della comunità e non del profitto più esasperato. 

L’altro grande soggetto è il volontariato. Lì si sono concentrate enormi risorse umane cariche di valori positivi, di formidabili esperienze di solidarietà; non a caso, durante le situazioni di emergenza c’è una sicura e celere risposta di sostegno, a chi ne è coinvolto, che allevia il peso della tragedia e della eccezionalità. Ma il suo peso politico, attraverso il Terzo Settore, è molto modesto e le strutture più consistenti, oltre al loro ruolo, si limitano a organizzare l’esaltazione del proprio essere con manifestazioni molto partecipate ma fini a sé stesse.

Di questa pochezza di protagonismo sociale, il sindacalismo confederale se ne deve fare carico. Non può più rimanere ai margini nella complicata ma inevitabile discussione sulle prospettive future della società italiana ed europea. Far ritornare centrali i lavoratori e le lavoratrici nelle grandi scelte che ci attendono, deve essere obiettivo comune per renderlo vincente.

Siamo già immersi dentro sconvolgimenti culturali inimmaginabili fino a qualche anno fa, a scoperte e innovazioni la cui ricaduta sul tessuto sociale ed economico sta già provocando modifiche profonde di senso del vivere civile e politico. Altri se ne profilano circa la qualità della vita terrestre, accompagnati da fenomeni climatici di difficile retrocessione verso il già noto. Né si possono dimenticare gli allarmi demografici dei Paesi come il nostro e la difficoltà di rendere pacifica la convivenza tra autoctoni, sempre più vecchi ed immigrati, sempre più numerosi. Va aggiunto che non meno preoccupante sta diventando la lenta e costante trasformazione della parola “democrazia” in quella più inquietante, “democratura” in molti Paesi del mondo e in molti linguaggi politici anche in Europa e in Italia. E per finire, c’è incombente l’ecclisse della pace come esigenza comune dei popoli e l’egemonia della forza della prepotenza sulla forza del diritto, calpestando ogni valutazione umanitaria.

Va aggiunto a questo elenco di questioni, la grande sfida della ricomposizione del mondo del lavoro dipendente. Non vuol dire affrontare soltanto il lato fragile del lavoro nero e sottopagato, ma anche quello del lavoro professionalizzato e aggredito dalla digitalizzazione e dall’uso dell’intelligenza artificiale e per entrambi il destino del welfare state (sanità, formazione continua, previdenza e fiscalità). Una ricomposizione lontana da quella novecentesca perché molto meno massificata e massificabile, più sottoposta all’usura delle professionalità acquisite in gioventù, incline a dare importanza al “senso” del lavoro e della vita. C’è da aspettarsi che tanto la contrattazione collettiva quanto le politiche economiche e sociali si diano canoni interpretativi e canalizzazioni fattuali del tutto inediti.

Per sviluppare questo enorme sforzo progettuale, andrebbe definita una volta per tutte, come si fece per lo Statuto dei lavoratori, una regolamentazione condivisa della definizione della rappresentatività dei soggetti negoziali e delle modalità e tempi delle scadenze contrattuali per evitare ogni rischio di slittamento temporale soprattutto per i settori più deboli. Nello stesso momento va stabilito cosa e come vanno affrontati i temi propri di un serio dialogo sociale (manutenzione della politica economica con particolare coinvolgimento a riguardo delle questioni del lavoro) e quelli da vera e propria concertazione (riguardanti eventi eccezionali, situazioni emergenziali, prospettiva sovranazionali). In questo modo, si ridurrebbe   enormemente il rischio della dipendenza dall’umore degli interlocutori e si canalizzerebbero meglio sia i contenuti che i confronti.

Anche l’autonomia sindacale sarebbe meglio tutelata contro i tentativi di ridimensionamento che, in una situazione di pluralismo sindacale e di alternanza di Governi, potrebbero meglio riuscire da parte di chi, pur di restare al potere, cercherebbe ogni strada per accaparrarsi un pezzo di consenso sociale. Ma soprattutto sarebbe utile ad assicurare che la dialettica democratica non sia una esclusiva del sistema dei partiti, non si faccia condizionare dai neocapitalisti tecnologici e mediatici ma sia la risultante di un articolato sistema di pesi e contrappesi, di cui il sindacato possa e debba farne parte.

*Questo testo è stato pubblicato nell’Annuario di Diario del Lavoro, 2025                    

Condividi su:

Scarica PDF:

image_pdf
Cerca

Altri post

Iscriviti alla newsletter

E ricevi gli aggiornamenti periodici

NEWSLETTER NUOVI LAVORI – DIRETTORE RESPONSABILE: PierLuigi Mele – COMITATO DI REDAZIONE: Maurizio BENETTI, Cecilia BRIGHI, Giuseppantonio CELA, Mario CONCLAVE, Luigi DELLE CAVE, Andrea GANDINI, Erika HANKO, Marino LIZZA, Vittorio MARTONE, Pier Luigi MELE, Raffaele MORESE, Gabriele OLINI, Antonio TURSILLI – Lucia VALENTE – Manlio VENDITTELLI – EDITORE: Associazione Nuovi Lavori – PERIODICO QUINDICINALE, registrazione del Tribunale di Roma n.228 del 16.06.2008

Iscriviti alla newsletter di nuovi lavori

E ricevi gli aggiornamenti periodici