Diritto del lavoro è un accostamento di parole che nasconde un inganno somigliante a quello premeditato dai primi esploratori vichinghi che, per attirare coloni in un luogo inospitale come la Groenlandia, lo chiamarono Terra verde. Infatti, se per quanti hanno frequentato una Facoltà di Giurisprudenza designa un settore dell’organizzazione didattica degli studi universitari, da tutti gli altri viene emotivamente scambiato per il punto d’arrivo di una epopea sociale. Sta ad indicare che, uscito da una condizione d’insignificanza culturale che si sommava all’ininfluenza politica, lo storico competitore del capitale dispone finalmente di un diritto che dal lavoro prende tanto il nome quanto le ragioni.
Insomma, per rendersi conto che il genitivo è all’origine di un depistaggio cognitivo per mascherare la realtà effettuale, bisogna compiere lo sforzo di sottrarsi ai condizionamenti dell’orizzonte di senso disegnato da una metafora provvista di una forza espressiva che i linguisti definiscono mitopoietica. Solamente riandando al passato, infatti, ci si rende conto che il lavoro possiede una lunga tradizione giuridica unicamente perché, avendo sempre riempito di sé il mondo reale, legislatori e giudici non potevano non occuparsi di lui. Altrettanto lunga, invece, non è la tradizione disciplinare originata dagli incontri del lavoro col diritto, perché nel diritto che gli capitava d’incontrare il lavoro non poteva riconoscersi. Infatti, la tradizione disciplinare del diritto del lavoro inteso come partizione del sapere giuridico impallidisce al confronto con quella formatasi intorno al diritto di proprietà che ha costituito la spina dorsale delle grandi codificazioni dell’età moderna. Ne differisce per durata, ampiezza e ruolo. Assente fino all’avvento della grande industria, non varca i confini dell’Europa, è legata ad un diritto venuto al mondo con la sola pretesa di aggiustarlo un po’, smussandone le spigolosità più acuminate. Per questo, da quando l’incontro del lavoro col diritto nella forma assunta durante il lungo momento socialdemocratico dell’Europa del secolo XX è ormai un ricordo, il medesimo mucchietto di parole alimenta la nostalgia di un bel tempo che non fu mai. Ecco perché, secondo Gérard Lyon-Caen, “le droit du travail est mal denommé: il est proprement le droit du capital”. In effetti, cambiargli nome in modo da porre visibilmente fine allo stato di latenza della strutturale ambivalenza di un diritto che non può essere del lavoro più di quanto sia del capitale sarebbe una misura salutare. Renderebbe trasparente come i contrasti che il diritto compone non si esauriscano sul piano della produzione delle regole e si trasferiscano sul piano dell’interpretazione: qui, cambiano i duellanti, ma le ragioni del contendere permangono intatte. Perciò, non a torto Federico Mancini affermava energicamente che “il giurista fa politica e i suoi tempi sono quelli della politica” e, con la franchezza che gli è abituale, gli farà eco Luigi Mariucci: “il diritto del lavoro ha costituito un succedaneo della mia inclinazione alla politica” ed “ha funzionato (…), come può funzionare il metadone per un tossico-dipendente”.
Ciononostante, personalmente sono meno interessato a cambiare il nome che a spiegarne l’universale successo. A mio avviso, esso dipende dall’arbitrario impoverimento della cornice in cui si colloca l’accostamento di parole, dal fatto cioè che viene tenuto nell’ombra l’elemento la cui inclusione chiarirebbe l’esatta portata della proposizione. Come dire: mi sono persuaso che abbiamo a che fare con un’espressione lessicale che meriterebbe l’attenzione dei semiologi. Lo spunto mi è stato offerto dalla rilevazione di un dato empirico incontrovertibile: da noi, quell’insieme di vocaboli era estraneo ai discorsi giuridici anteriormente all’insediarsi di un regime che, allo scopo di mettere polemicamente in risalto una cesura rispetto all’imperturbabilità borghese dei precedenti governanti, sfoggia una vociante sensibilità alle ragioni del lavoro. E’ nel 1927 infatti che nasce, ad iniziativa di Giuseppe Bottai, la rivista di dottrina e giurisprudenza “Il diritto del lavoro”, destinata a restare in vita fino alla fine del ‘900.
Occhio alla data. La rivista esordisce nell’anno in cui è emanata una Carta che prende il nome dal lavoro per celebrarne la centralità del ruolo in una società pacificata, assistita e senza classi contrapposte. Dunque, l’evento che motiva esplicitamente l’iniziativa editoriale del ministro delle corporazioni è la deliberazione di un documento che, elaborato da un organismo sfornito di competenza legislativa (il Gran Consiglio del Fascismo), ha un’intonazione ideologico-programmatica. Privo di valore giuridico, la sua risonanza non poteva che essere mediatica. Bisogna però riconoscere che lo è stata nella maniera più solenne possibile. La Carta del lavoro venne pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale ed è ragionevole argomentare che la campagna pubblicitaria ideata per enfatizzare l’alba di una nuova era contemplava anche la sponsorizzazione, da parte di un uomo politico di punta, della nascita di una rivista giuridica dedicata al lavoro.
A questo punto cade opportuno osservare che il significato dei lemmi che compongono la testata è predeterminato dalla legge del 1926. Legata al nome di Alfredo Rocco, Guardasigilli del Regno, è la legge che aveva gettato le basi costitutive del regime, precludendo la possibilità stessa che il diritto del lavoro si formasse attraverso gli itinerari evolutivi che solamente la libera misurazione dei rapporti di forza è in grado di tracciare. Infatti, aveva confiscato la libertà sindacale proprio allo scopo di facilitare la gestione dei rapporti individuali di lavoro in conformità ai canoni vetero-liberali che pretendono l’intangibilità dell’ordinamento capitalistico della produzione. E’ documentabile, infatti, che il diritto corporativo non ha disturbato la preesistente e ormai consolidata communis opinio che comprimeva le regole dello scambio lavoro-retribuzione negli involucri confezionati dai privati nell’esercizio di un potere di autodeterminazione negoziale considerato come la più sacra manifestazione dell’individualismo economico e giuridico. Stando così le cose, la testata del periodico non poteva che riferirsi al diritto relativo ad un contratto che permette di soddisfare l’aspettativa dell’imprenditore sia di disporre di manodopera docile e ubbidiente sia di potersene disfare in ogni momento col solo obbligo del preavviso. E’ il diritto che, se protegge il contraente debole, lascia al tempo stesso intatte le cause di fondo della sua debolezza. E’ il diritto che coincide con la disciplina di un contratto istitutivo d’immodificabili rapporti tra diseguali, perché granitica è la certezza che il lavoro poté rompere il suo millenario silenzio a condizione di metabolizzare il divieto di alzare la voce.
Come dire che l’accostamento di parole scelto come testata della rivista il cui sponsor era seriamente impegnato a creare un clima d’opinione favorevole alla Carta del lavoro ha il pregio dell’incompletezza. Infatti, sarebbe imperdonabilmente riduttivo comunicare che, nel periodo corporativo, il diritto del lavoro non era altro che il diritto del contratto di lavoro. Certo, comunicare che il lavoro ha un “suo” diritto è una forzatura, una manipolazione, una mistificazione; ma il fascismo ci fa una bella figura.
Chissà se ai funzionari del ministero della Pubblica istruzione incaricati dal governo Badoglio di far sparire dall’ordinamento degli studi universitari le tracce più vistose del regime collassato risultassero chiare tutte le possibili implicazioni del maquillage che gli si chiedeva di fare. Probabilmente no. In particolare, nessuno li informò che, proponendo di inserire il diritto del lavoro (in luogo del diritto corporativo) nei piani di studio offerti dagli atenei dell’Italia (non ancora repubblicana, ma solo) post-corporativa effettuarono una scelta che era meno banale e meno superficiale di quanto pensassero. In realtà, l’anno accademico 1943-44 sanciva la Waterloo del corporativismo giuridico e certificava, nonostante l’invarianza di docenti e materiali didattici, la vittoria culturale della giusprivatistica. Non solo quest’ultima ha sempre visto nel contratto di lavoro, reinventato dal capitalismo industriale, un’insula in flumine nata di cui appropriarsi a titolo originario, ma anche la più apprezzata monografia del ventennio in materia di lavoro fa parte di uno dei più prestigiosi trattati di diritto civile pubblicati nel nostro paese e il suo autore da buon civilista non può non considerare la Carta come un contenitore di principi generali cui l’ermeneutica assegna solitamente un rilievo secondario.
Come dicevo in apertura, la convenzione linguistica oggetto di questa riflessione è giunta inalterata fino ai nostri giorni. Nel frattempo, però, è entrata in vigore una Costituzione che fa del lavoro l’elemento fondativo dello Stato. Pertanto, nel mutato contesto, potrebbe dare lustro e spessore ad un più complesso disegno in divenire, acquistando così una validità conoscitiva che non aveva mai avuto. Viceversa, ha conservato il senso che produceva in passato. Perché? I teorici della comunicazione risponderebbero: perché non c’è senso senza cornice. Difatti, dalla cornice del discorso giuridico la Costituzione rimane fuori (o il più distante possibile), ed è a causa dell’esclusione che non si è determinato uno spostamento dell’asse nella produzione di senso. Dopotutto, in questi settant’anni il diritto del lavoro non ha stabilito con la Costituzione lo stesso intreccio che esiste tra la lingua e la grammatica.
Come dire: intere generazioni di giuristi e giudici del lavoro non si sono discostate, o l’hanno fatto il più tardi possibile e spesso controvoglia, dall’insegnamento del più politico tra gli allievi di Arturo Rocco. Alberto Asquini era del parere che la struttura del rapporto individuale di lavoro dovesse rimanere inalterata: “questa struttura resta sempre privata e contrattuale”. Pertanto, l’accostamento di parole che in passato identificava nel mercato dell’editoria giuridica un periodico specializzato e, adesso, un corso di lezioni svolto nelle Facoltà giuridiche della Repubblica è ancora un piccolo grande capolavoro di sarcasmo. Più di prima, però, può trovare la sua giustificazione soltanto sul terreno della retorica, perché la normativa applicabile al rapporto instaurato dal contratto di lavoro tende più a contraddire il principio fondante della nostra democrazia costituzionale che ad interiorizzarlo.
(*) dall’introduzione del libro “Quel diritto che dal lavoro prende il nome” in uscita in autunno 2017