Il Rapporto mondiale sulla Felicità del 2018 presentato in questi giorni di vigilia della Giornata della felicità che l’Onu ha deciso di celebrare il 20 marzo di ogni anno fornisce indicazioni interessanti non solo a livello globale, ma anche per l’Italia. Il nostro, infatti, resta tra i Paesi peggiori per variazione del livello della soddisfazione di vita negli ultimi tre anni (119ª su 141) pur mantenendo una buona posizione a livello assoluto (47ª).
L’analisi delle determinanti della soddisfazione di vita sui dati individuali a livello mondiale conferma che sei variabili spiegano tre quarti delle differenze tra Paesi. Si tratta di due variabili la cui importanza appare scontata (reddito e salute), due variabili “politiche” (libertà di iniziativa e assenza di corruzione) e due variabili legate alla dimensione interpersonale (qualità della vita di relazioni e gratuità, ovvero il saper dar spazio nella propria vita a comportamenti che incidono positivamente sulla vita di altri senza chiedere nulla in cambio). Il rapporto approfondisce in uno dei suoi capitoli anche il tema del rapporto tra migrazioni e soddisfazione di vita. E conferma che i flussi migratori nascono per “lucrare” il differenziale di felicità atteso tra Paese di origine e Paese di destinazione. La parte più interessante è quella che verifica che l’aspettativa dei migranti si realizza in quanto la felicità dei nuovi arrivati converge con grande rapidità verso il livello del Paese di destinazione.
Molto interessante anche la stima dell’effetto delle migrazioni sui familiari che restano nel Paese di origine. In questo caso i risultati sono meno chiari e l’effetto è misto: la soddisfazione per le conquiste dei familiari migrati è, però, bilanciata da un impatto emozionale negativo dettato dalla distanza coi propri cari. Un altro spaccato impressionante è quello sul rapporto tra felicità e salute negli Stati Uniti. Questo grande Paese continua a essere caratterizzato dal cosiddetto “paradosso di Easterlin”. Il Pil pro capite cresce quasi ininterrottamente dal secondo dopoguerra novecentesco, ma la soddisfazione di vita ristagna, mostra addirittura un lieve declino negli ultimi anni ed è da sempre lontana dalle posizioni dei Paesi di vertice.
I livelli di aspettativa di vita in buona salute sono quasi tre anni più bassi che da noi, mentre si assiste a un’esplosione del problema dell’obesità (quasi il 38,2% degli adulti). Jeffrey Sachs, economista di punta delle Nazioni Unite e uno dei più acuti critici della società americana ha commentato il rapporto in un recente incontro del “Cortile dei Gentili” puntando giustamente il dito sulle caratteristiche intrinseche della società capitalista non temperata da un quadro esterno di valori: abbandonata a sé stessa genera naturalmente diseguaglianze, non ha alcuna spinta alla produzione di beni pubblici e, soprattutto, incita alle dipendenze. Dal lato della domanda in virtù di una visione povera della persona ridotta a massimizzatrice di utilità (che John Stuart Mill scherniva dicendo che era meglio essere un “Socrate infelice” che un “maiale soddisfatto”).
Dal lato dell’offerta perché la spinta al massimo profitto porta naturalmente in direzione dei beni che producono dipendenza (cibo negli Stati Uniti, azzardo da noi) e con essa una domanda stabile e meno sensibile al prezzo. Il paradigma dell’economia civile è la giusta correzione a un sistema che ha prodotto benessere e progresso tecnologico generando al contempo diseguaglianze inaccettabili (basterebbe una piccola quota delle ingenti ricchezze dei supermiliardari del mondo per assicurare istruzione per tutti), sottoproduzione di beni pubblici e sottoinvestimento nelle virtù.
Questo paradigma riconosce, nell’ormai vasta mole dei dati empirici sulle determinanti della soddisfazione di vita, quel tratto comune agli uomini di tutti i continenti e di ogni epoca (la libertà dal bisogno, l’aspirazione a vivere in società politiche che non limitano anzi stimolano la generatività individuale).
E attraverso visioni più ricche di senso della persona (capace di razionalità cooperativa e maestra di relazioni), dell’impresa (ricca di senso e creatrice di valore economico sostenibile) e del benessere indica le condizioni politiche per “società a quattro mani” dove stato, mercato, cittadinanza attiva e imprese responsabili lavorano insieme in direzione dell’orizzonte del bene comune. Per capire l’importanza di questi fattori basti ricordare un’immagine bellissima di Antonio Genovesi che nel 1765 diceva che una società florida ha bisogno di infrastrutture materiali (strade, porti, canali) ma ancor più e prima di esse di canali e infrastrutture morali. Per trovare fondamenti a questa visione non dobbiamo andare lontano o in altre culture.
L’art. 3 della Costituzione Italiana e il concetto di «bene comune» della Dottrina sociale della Chiesa sono straordinariamente concordi nel proporre da una prospettiva laica e credente il traguardo di una società che rimuove gli ostacoli alla piena realizzazione delle persone. Un meta-programma bellissimo che dovrebbe bastare per mettere attorno a un tavolo le forze politiche italiane in questo faticoso dopo elezioni.
(*) da L’Avvenire, 20 marzo 2018