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Una strategia flessibile degli orari di lavoro

1. Bisogna fermare il declino industriale e la disoccupazione

Il sistema industriale italiano sta andando a pezzi.

Dopo la crisi della grande impresa, che risale agli anni ’90, c’è stata la delocalizzazione “selvaggia” non solo senza regole ma spesso senza visione strategica, e ora c’è la crisi prolungata che mette  sulla graticola anche il sistema dei distretti e delle filiere, che costituiva il nocciolo duro del nostro sistema industriale.

La crisi sta creando un nuovo dualismo, che sarà il dualismo dei prossimi anni: non più dualismo Nord-Sud o aree forti-aree deboli, ma dualismo tra chi esporta con ampie reti di vendita e chi non esporta e non ha reti di vendita a dimensione mondiale. 

E siccome le imprese o le filiere che esportano con buone reti di vendita e con prodotti competitivi, sono circa il 25-30% del nostro sistema industriale, accade che questo 30% riesce in qualche modo a sostenere la crisi e a sopportare i “difetti del sistema paese”, mentre il restante 70% è in profonda difficoltà e sta riducendo drasticamente l’occupazione. 

I disoccupati non sono solo nell’edilizia e nelle grandi opere, congelate dal blocco della spesa pubblica e del credito bancario, ma sono generati  nell’industria manifatturiera tradizionale e in tutti i  servizi ad essa collegati. La recessione poi produce disoccupati a catena.

L’Italia sta così scoprendo quello che aveva cercato di dimenticare e cioè di essere un paese a vocazione manifatturiera e “obbligato a esportare”. Se vogliamo mantenere un dignitoso livello di vita e non ripiombare nella povertà atavica dobbiamo salvare e rilanciare l’occupazione dell’industria manifatturiera.

Attenzione: è evidente che nella vocazione a esportare bisogna collocare anche l’intera filiera agro-alimentare, a iniziare dai campi sino ai marchi alimentari, e l’intera filiera turistico-paesaggistica-culturale- che ha una fortissimo potere di attrazione sui consumi mondiali e che può qualificare globalmente il “Made in Italy”.

 

2. I modi per salvarsi e per uscire dalla crisi

Il principale barlume di luce che mi sembra di intravvedere sta nel fatto che ci sono sempre più persone che si convincono che l’uscita dalla crisi non sarà né spontanea né automatica, e neanche frutto di ricette miracolistiche. Non ci sono interventi taumaturgici risolutivi all’orizzonte. Bisogna lavorare al progressivo adattamento del nostro sistema economico e produttivo alle nuove condizioni della globalizzazione e dell’economia internazionale, attraverso tanti piccoli passi e tanti miglioramenti progressivi.

E mentre ci auguriamo che il governo e i poteri politici locali procedano alle necessarie riforme del sistema paese, abbiamo il dovere di intervenire rapidamente sulla organizzazione delle imprese, delle filiere e delle relazioni sindacali per aumentare la loro competitività con interventi all’interno delle imprese stesse.  Queste ricette sono note e discusse da molto tempo: esse fanno perno sulla accelerazione dell’innovazione in tante direzioni. Bisogna aumentare l’innovazione di prodotto, quella delle catene di vendita mondiali, e quella di processo, sia a base tecnologica che  organizzativa.

L’innovazione di processo, soprattutto se a base organizzativa, può essere non solo una leva a buon mercato, ma può addirittura portare a notevole riduzione dei costi a breve, eliminando in poco tempo  gli sprechi e senza riduzione di personale.

3. Riduzione di orario come leva di competitività e di crescita occupazionale

La riduzione dell’orario di lavoro è stata usata in altre epoche e in altri contesti come una leva strutturale per fronteggiare gli effetti dell’innovazione tecnologica. Gli orari più corti sono serviti per rendere sostenibile l’avvento di nuove macchine sia a livello individuale (con meno fatica) sia a livello sociale (aumentando i posti di lavoro).

La riduzione di orario può essere utile nel contesto attuale? e come? 

A mio avviso oggi, in Italia, la riduzione di orario può essere molto utile alle seguenti condizioni:

a) non  essere generalizzata ma riguardare solo categorie circoscritte di lavoratori o settori particolari. Una riduzione generalizzata infatti produrrebbe o un aumento netto dei costi di lavoro (evidentemente insostenibili) o una riduzione secca del salario individuale di tutti (anch’essa insostenibile). Ci sono invece fasce di popolazione marginale (come giovani o anziani) che sono interessati a orari ridotti a part time (25-35 ore) e che nelle condizioni attuali sarebbe molto favorevole a un lavoro stabile anche con orario e salario proporzionalmente ridotto.

b) rompere il circolo vizioso bassi salari – alta rigidità dell’orario.

Negli ultimi 20 anni l’evoluzione del sistema finanziario, fiscale e delle relazioni industriali ha portato a una situazione di alto costo del lavoro ma di basso salario netto relativo. Come conseguenza,  le esigenze di reddito dei lavoratori si scaricano sul fatto di preferire il tempo pieno al tempo parziale e di caricare le aspettative di incremento del guadagno sulle ore straordinarie e sulle variazioni di orario, richieste dalle imprese per fronteggiare la stagionalità e le oscillazioni di mercato.

Come conseguenza per l’Impresa, in Italia le ore flessibili, che spesso sono  da concordare con i Sindacati, non solo costano molto, ma sono anche difficili e lunghe da ottenere. Il motivo non è solo nei vincoli di tempo famigliare e sociale, ma soprattutto nel fatto che attraverso una limitazione delle ore flessibili (concesse con il contagocce) i  lavoratori pensano di ottenere più soldi. Il bisogno di guadagnare di più si scarica proprio su quelle ore “flessibili” a cui l’impresa sembra tenere di più. Il risultato è un circolo vizioso: per competenze sul mercato mondiale le imprese hanno bisogno di più ore flessibili, ma queste ore sono costose, sono  poche e vengono concesse dopo lunghi negoziati, per strappare più soldi. Come risultato la competitività scende, quindi si riduce anche la torta da dividere e le imprese puntano a orari “alti”, cioè solo  a tempo pieno, per avere più margine di manovra.

Bisogna spezzare questo circolo vizioso: ci deve essere più flessibilità per l’impresa, più salario per i lavoratori, più disponibilità a forme di orari flessibili. 

c) incentivare la riduzione di orario con nuovi assunti e con forme di part time flessibile

Una buona soluzione ai diversi circoli viziosi, che stringono come  un cappio al collo il sistema industriale italiano, potrebbe essere quello di utilizzare gli scarsi fondi disponibili per la competitività e l’occupazione per incentivare soluzioni limitate e circoscritte di riduzioni di orario a livello aziendale, che conducano a nuove assunzioni e a forme di maggiore flessibilità.

Invece di incentivare lo straordinario, che è un provvedimento che contraddice la produttività, in quanto le ore di straordinario abbassano la produttività,  bisognerebbe incentivare gli accordi aziendali che riducono gli orari a gruppi di lavoratori disponibili, in  cambio di nuove assunzioni e di maggiore flessibilità nell’uso del tempo.

Se ciò accadesse si otterrebbero due benefici con un solo incentivo: aumentare la competitività delle imprese sui mercati mondiali e aumentare l’occupazione in Italia riducendo la platea dei disoccupati. Le due cose favorirebbero l’uscita dalla crisi.

Quali potrebbero essere le forme di questo incentivo?  

L’incentivo potrebbe premiare da un lato il lavoratore che accetta un orario ridotto con paga ridotta: una parziale detassazione o defiscalizzazione porterebbe la busta paga a essere proporzionalmente meno leggera e renderebbe più sostenibile la riduzione per le singole persone. Con meno ore  di lavoro guadagnano proporzionalmente di più.

A mio avviso ci sono ampie fasce di lavoratori già occupati, soprattutto anziani e persone con carichi di famiglia o con problemi di salute, che sarebbero disponibili a ridurre l’orario di lavoro ma a perdere solo in parte il salario corrispondente. A loro volta i giovani neo-assunti potrebbero avere in cambio dell’assunzione, un orario più flessibile, magari a part time. In questo ultimo caso, è necessario che  le eccessive regole di rigidità dell’ attuale normativa sul part time, siano attenuate.

Dall’altro lato, l’incentivo potrebbe premiare le imprese che assumono  in due modi diversi:  o sotto forma di riduzione del costo del lavoro  (ad es. con parziale defiscalizzazione), oppure  sotto forma di  maggiore flessibilità, oppure anche  in ambedue le forme a parità di incentivo pubblico.

Nel caso della scelta di flessibilità ci dovrebbe essere un accordo aziendale che  stabilisce come i nuovi occupati, assunti in seguito alla riduzione di orario dei già occupati, e magari anche i lavoratori che beneficiano dell’incentivo salariale, siano un po’ più flessibili nelle tante forme che si possono stabilire con la contrattazione aziendale. Forme più flessibili potrebbero essere sia i part time stagionali (oggi quasi impossibili con la normativa vigente), sia la variazione periodica dei turni e degli orari medi settimanali (cioè una forma più modera del multiperiodale), sia il monte ore di flessibilità positiva e negativa, oggi di solito plafonate a 96 ore (che sono poche per le esigenze attuali).

4. In sintesi: Non disperdere a pioggia gli incentivi pubblici ma mirarli a riduzione di orario, nuova occupazione o flessibilità.

In breve una idea forte per aiutare a superare la crisi potrebbe essere quella di concentrare gli incentivi economici che il Governo può mettere a disposizione per la competitività e l’occupazione su una riduzione di orario che implichi  nuove assunzioni e più flessibilità. La riduzione di orario potrebbe essere circoscritta a fasce di popolazione lavorativa che sono disponibili alla riduzione di orario e di salario per ragioni famigliari o di età o di anzianità: l’orario ridotto però comporterebbe un salario ridotto in modo non proporzionale ma integrato parzialmente dall’incentivo.

L’impresa potrebbe scegliere tra benefici diretti sul costo del lavoro e/o benefici sulla maggiore flessibilità degli orari dei neo assunti e dei neo part time, e ove possibile anche dei lavoratori che riducono il tempo di lavoro.

I sindacati, attraverso accordi aziendali o territoriali, parteciperebbero alla nuova regolazione della flessibilità e allo sviluppo occupazionale  dei giovani.

 (*) Docente di organizzazione aziendale al Politecnico di Milano

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