“Chiediamoci perché politica, istituzioni, cultura, abbiano avuto bisogno delle parole dei giudici per cominciare finalmente a capire… Un manipolo di magistrati e di investigatori ha dimostrato di non aver paura a processare lo Stato. Ora anche altri devono fare la loro parte.” Nino Di Matteo
“Volevo che nelle pagine di questo libro parlasse il magistrato, parlasse l’uomo, protagonista e testimone di un processo destinato a lasciare il segno.” Saverio Lodato
IL LIBRO
Gli attentati a Lima, Falcone, Borsellino, le bombe a Milano, Firenze, Roma, gli omicidi di valorosi commissari di polizia e ufficiali dei carabinieri. Lo Stato in ginocchio, i suoi uomini migliori sacrificati. Ma mentre correva il sangue delle stragi c’era chi, proprio in nome dello Stato, dialogava e interagiva con il nemico.
La sentenza di condanna di Palermo, contro l’opinione di molti “negazionisti”, ha provato che la trattativa non solo ci fu ma non evitò altro sangue. Anzi, lo provocò. Come racconta il pm Di Matteo a Saverio Lodato in questa appassionata ricostruzione, per la prima volta una sentenza accosta il protagonismo della mafia a Berlusconi esponente politico, e per la prima volta carabinieri di alto rango, Subranni, Mori e De Donno, sono ritenuti colpevoli di aver tradito le loro divise. Troppi i non ricordo e gli errori di politici e forze dell’ordine dietro vicende altrimenti inspiegabili come l’interminabile latitanza (43 anni!) di Provenzano, la cattura di Riina e la mancata perquisizione del suo covo, il siluramento del capo delle carceri, Nicolò Amato, la sospensione del carcere duro per 334 boss mafiosi.
Anni di silenzi, depistaggi, pressioni ai massimi livelli (anche dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano), qui documentati, finalizzati a intimidire e a bloccare le indagini. Ora, dopo questa prima sentenza che si può dire storica, le istituzioni appaiono più forti e possono spazzare via per sempre il tanfo maleodorante delle complicità e della convivenza segreta con la mafia. Tutto questo viene raccontato in un libro straordinario che è uscito da poco nelle librerie.
GLI AUTORI
Sostituto procuratore della Repubblica a Caltanissetta e poi a Palermo, Nino Di Matteo è ora sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Ha indagato sulle stragi dei magistrati Chinnici, Falcone, Borsellino e delle loro scorte, e sull’omicidio del giudice Saetta. Pm in processi a carico dell’ala militare di Cosa Nostra, si è occupato anche dei processi a Cuffaro, al deputato regionale Mercadante, al funzionario dei servizi segreti D’Antone, e alle “talpe” alla procura di Palermo. Diverse amministrazioni comunali (tra queste Roma, Milano, Torino, Bologna, Genova) gli hanno conferito la cittadinanza onoraria per il suo impegno nella ricerca della verità. È autore dei libri “Assedio alla toga” (con Loris Mazzetti, Aliberti) e “Collusi” (con Salvo Palazzolo, Rizzoli).
Saverio Lodato è tra i più autorevoli giornalisti italiani in materia di mafia, antimafia e Sicilia. Per trent’anni è stato inviato de “l’Unità” in Sicilia e oggi scrive sul sito antimafiaduemila.com. Ha scritto: “Avanti mafia!” (Corsiero Editore); “Quarant’anni di mafia” (Rizzoli); “I miei giorni a Palermo” (con Antonino Caponnetto, Garzanti); “Dall’altare contro la mafia” (Rizzoli); “Ho ucciso Giovanni Falcone” (con Giovanni Brusca, Mondadori); “La linea della palma” (con Andrea Camilleri, Rizzoli); “Intoccabili” (con Marco Travaglio, Rizzoli); “Il ritorno del Principe” (con Roberto Scarpinato, Chiarelettere); “Un inverno italiano” (con Andrea Camilleri, Chiarelettere); “Di testa nostra” (con Andrea Camilleri, Chiarelettere).
PER GENTILE CONCESSIONE PUBBLICHIAMO L’INCIPIT DEL LIBRO
Venticinque anni di solitudine e coraggio
Dottor Di Matteo, venticinque anni
di inchieste e di solitudine,di ricerca accanita della verità,
di successi e momenti
di amarezza, ma anche di isolamento e vita blindata. Un
quarto di secolo, con la toga addosso, nell’Italia di oggi.
Dall’età di trent’anni, a oggi che ne ha cinquantasette. Così
è volata via metà della sua esistenza. Ma quando ha inizio
l’incubo di una vita blindata giorno e notte?
Il primo servizio di scorta lo ebbi nel dicembre 1993,
alla procura di Caltanissetta. Ero alle prime armi. Mi
avevano assegnato un processo che riguardava la guerra
in corso in quegli anni fra Cosa Nostra e la Stidda, nel
territorio di Gela.
Cos’è la Stidda?
Un’organizzazione di tipo mafioso che fra la fine degli
anni Ottanta e l’inizio del ’90 si oppose al potere tra
dizionalmente incarnato, nel resto della Sicilia, solo da
Cosa Nostra; formata, in parte consistente, anche da
fuoriusciti di Cosa Nostra; e che con gli stessi metodi
di intimidazione e violenza entrò in guerra, nei territori
di Gela, Vittoria, Ragusa, di tutto l’agrigentino, proprio
con la mafia tradizionale.
Cosa accadde?
Venne intercettata una telefonata fra due capi della Stidda.
L’indomani dovevo andare da Caltanissetta a Gela, dove
sostenevo l’accusa in un processo nell’aula del tribunale.
I due capi stiddari parlavano del tragitto che ero solito
fare quando mi recavo in udienza, osservando che organizzare
un agguato poteva essere facile. Così mi trovai, da
un giorno all’altro, a passare dalla vita normale dei primi
tempi in cui ero in magistratura, alla presenza costante dei
carabinieri che mi accompagnavano in ogni spostamento.
Quanti anni aveva?
Nel ’93 avevo trentadue anni e non ero ancora sposato.
All’inizio, e penso che sia un fatto umano, la protezione,
in un certo senso, mi faceva anche piacere. Provavo un
senso di maggiore sicurezza nel mio lavoro. E poi, perché
no?, la scorta poteva essere vista come un riconoscimento
dell’importanza del mio ruolo. Con il passare degli anni,
però, questa situazione, invece di essere da me
accettata, come sarebbe stato fisiologico, ha costituito
un peso sempre maggiore.
Quando iniziò a fare il magistrato?
Avevo iniziato il tirocinio, che allora si chiamava uditorato,
nell’agosto 1991. Lo avevo vissuto, da appassionato
di vicende di mafia, negli uffici giudiziari più esposti,
proprio quelli palermitani. La mia formazione coincise
tragicamente con il periodo dell’attacco più violento
della mafia alle istituzioni, ma soprattutto con le stragi
di Capaci e via D’Amelio, che colpirono Giovanni Falcone,
Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, uomini e
donne delle loro scorte.
Cosa rappresentavano per lei, giovane uditore giudiziario,
Falcone e Borsellino?
Erano stati, fra gli altri, ma più degli altri, i miei punti
di riferimento nella scelta di diventare magistrato. Finalmente
avevo realizzato un sogno. Li avevo conosciuti.
Ero orgoglioso di fare il tirocinio negli stessi uffici dove
loro avevano lavorato e dove Paolo Borsellino continuava
a lavorare. E in quegli stessi corridoi della procura
di Palermo ho vissuto lo sgomento per gli attentati di
Capaci e via D’Amelio.
Prima di andare a Caltanissetta, li aveva già conosciuti
personalmente?
Sì, Falcone in maniera più superficiale. Ogni tanto,
seppure fosse già in servizio al ministero della Giustizia
a Roma, veniva a Palermo. Paolo Borsellino lo conobbi
meglio perché lavorava come procuratore aggiunto a
Palermo, proprio mentre facevo il tirocinio nello stesso
ufficio giudiziario.
Cosa ricorda di loro?
La prima stretta di mano con Falcone rimarrà soprattutto
un mio ricordo, legato a una grande emozione.
Quella di stringere la mano a colui che era stato il punto
di riferimento ideale del mio impegno per diventare
magistrato. Accadde in occasione di una sua visita
alla procura di Palermo, in cui gli vennero presentati
i tirocinanti. Appena pochi giorni prima dell’omicidio
di Salvo Lima, europarlamentare democristiano, il 12
marzo 1992. Il delitto che, come immediatamente
percepì con preoccupazione proprio Falcone, avrebbe
cambiato il corso dei rapporti fra il vertice di Cosa
Nostra e l’apparato statuale. Stava iniziando la stagione
delle bombe.
Nino Di Matteo – Saverio Lodato, IL PATTO SPORCO. Il processo Stato-Mafia nel racconto di un suo protagonista, Ed.Chiarelettere 2018, pagine 224, prezzo 16 €