“Ho deciso di scrivere. Proprio a te, coinvolto nell’ubriacatura razzista che attraversa il Paese. Una ubriacatura a cui partecipi forse per convinzione o forse solo per l’influenza di un contesto in cui prevalgono le parole di troppi cattivi maestri e predicatori d’odio, che tentano di coprire così l’incapacità di chi ci governa (e ci ha governati) di assicurare a tutti, compresi i più poveri, condizioni di vita accettabili”.
Così scrive, nell’incipit del suo libro, don Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele di Torino e da anni presidente di Libera, l’associazione contro le mafie, in una “lettera” intensa, documentata, che non cerca scappatoie retoriche, rivolta “ad un razzista del terzo millennio”.
Il tono della lettera è esigente, incalzante, serrato, ma mai presuntuoso: “Non mi sento, comodamente e presuntuosamente, dalla parte giusta. La parte giusta non è un luogo dove stare; è, piuttosto, un orizzonte da raggiungere. Insieme. Ma nella chiarezza e nel rispetto delle persone. Non mostrando i muscoli e accanendosi contro la fragilità degli altri”.
Ed è con questo spirito dialogico che lascia parlare le cifre e i fatti.
“Il razzismo dopo essere stato per decenni un tabù, incombe oggi sul nostro Paese. Parlo del razzismo nella sua accezione più cruda, cioè della pulsione ostile, aggressiva nei confronti di chi è percepito come diverso: per il colore della pelle o per abitudini di vita, lingua, religione”.
Questo è l’allarme che lancia Don Ciotti. E diversi episodi recenti di cronaca, avvenuti in Italia, confermano questo.
Così il libro smonta tutta una retorica, la ubriacatura, appunto, che ha costruito una narrativa che alimenta la xenofobia di una parte, crescente, di italiani: gli stranieri ci invadono, tolgono lavoro e risorse agli italiani. In una parola: ci rendono più poveri.
Nulla di più falso. Don Ciotti prende in considerazione gli slogan vuoti (“Prima gli italiani” e “aiutiamoli a casa loro”) mostrando semmai che ad essere miope è la politica oggi spesso ridotta, in mancanza di visioni e sguardi di medio-lungo periodo, a luoghi comuni e facile propaganda: “(…) una politica che invece del ragionamento sensato, alimenta e sfrutta le paure, che spaccia illusioni invece di costruire speranze, è una politica che svende l’etica in cambio del potere. A fronte di ciò bisogna avere il coraggio di parlare di disgusto, quel disgusto che risveglia le coscienze e la salva da una passività complice”.
Il dissenso, afferma don Ciotti citando il sociologo Danilo Dolci, bisogna trasformarlo in progetto.
Una politica da ripensare dunque a partire dal rispetto della dignità umana, e della giustizia, per offrire percorsi di cittadinanza agli esclusi: “si tratta di lavorare alla ricostruzione di un mondo dove la legalità e la prossimità, le regole e l’accoglienza, siano dimensioni non alternative ma complementari, facce di una medesima medaglia”. Così la politica può trasformare le paure in speranze.
*Luigi Ciotti, Lettera a un razzista del Terzo Millennio, ed. Gruppo Abele, Torino 2019, pagg. 80. € 6,00