Dal 2010 a oggi mi sono chiesto spesso se, nelle scelte dell’amministratore delegato e della proprietà, c’è un futuro, e quale, per le lavoratrici e i lavoratori degli stabilimenti del Gruppo Fiat in Italia. I numeri sono impietosi: con una capacità produttiva installata di 1 milione e 400.000 veicoli, lo scorso anno sono state prodotte circa 370.000 vetture. Si potrà obiettare che c’è la crisi in Europa e che c’è un calo di vendite generalizzato di auto, che in particolare nel nostro paese c’è una riduzione delle vendite di tutti i beni durevoli, che sull’auto pesano il costo, oltre la media europea, di bollo e assicurazione, possono valere tutti questi elementi, ma la verità è che nella crisi il sistema italiano paga più di altri.
Due esempi distanti fra di loro: Inghilterra e Spagna. In entrambi i paesi l’intervento pubblico ha impresso una spinta al settore, risultato? Nel paese più finanziarizzato del “vecchio continente” lo scorso anno si sono prodotte quasi 1 milione e 500.000 vetture, nonostante non ci sia un marchio nazionale. In Spagna, dove le politiche di austerità battono pesantemente sulla testa dei lavoratori, anche grazie agli incentivi statali si assiste a una forte ripresa della produzione. La verità è che i lavoratori italiani stanno pagando “lo scarico produttivo” del continente. I dati diffusi dall’Anfia ci dicono, infatti, che in Italia tre cittadini su sette acquistano un’auto prodotta in loco, in tutti gli altri paesi europei le percentuali sono a partire da sei su dieci.
Bisognerebbe fare un bilancio di quello che è accaduto dal 2010 – anno domini Fabbrica Italia – ad oggi, valutando se quello scambio proposto a Pomigliano e in seguito a Mirafiori era reale, oppure se già lì c’erano le premesse della realtà con cui siamo costretti a confrontarci oggi. Il ricatto lavoro-diritti si è dimostrato un inganno, del resto negli accordi sottoscritti allora non una sola riga, se si esclude un comunicato stampa allegato, vincolava la direzione aziendale sulla reale messa al lavoro di tutte le maestranze. Siamo nel 2014 e in entrambi gli stabilimenti sono decine di migliaia le ore di cassa integrazione e le aziende dell’indotto che chiudono sono la dimostrazione palese dell’inganno imposto con il “referendum ricatto” prima e l’estensione in tutti gli stabilimenti del Contratto collettivo specifico di lavoro (Ccsl) poi.
Lo scambio “lavoro-diritti” sembrava essere equo agli occhi di molti, per la verità quasi tutti, ma non ai lavoratori che si erano trovati rovesciato addosso tutto il peso della propria vita futura e addirittura del paese, a sentire molti rappresentanti istituzionali. Nonostante tutto, il plebiscito non ci fu e l’azienda decise di non rischiare il voto tra tutti gli 86mila dipendenti dei Gruppi, ma di cancellare tutta la contrattazione ed estendere il Ccsl.
Sembrava dovessero partire immediatamente i lavori nei singoli stabilimenti per adeguare le linee e la logistica a un sistema innovativo, il Wcm e l’Ergo-Uas, che avrebbero garantito salute, sicurezza e produttività. Sembrava che i 18 nuovi modelli dovessero partire in tempi brevissimi e che le punte di lancia della ripresa produttiva dovessero essere proprio Pomigliano e Mirafiori, stabilimenti da cui si partiva con un nuovo modello organizzativo e di processo produttivo che cancellava tutti i tempi a non valore aggiunto per l’impresa: la mezz’ora di pausa a fine turno, la mancata retribuzione dei primi giorni di malattia, l’aumento dei carichi e dei ritmi di lavoro, la cancellazione di dieci minuti di pausa, la possibilità di comandare lo straordinario, e altri elementi contrattuali che avrebbero dovuto contribuire a rendere più competitivi gli stabilimenti per raggiungere nel giro di poco tempo il milione di vetture per anno. Risultato? Valanghe di ore di cassa integrazione e la chiusura di stabilimenti come Termini Imerese, Cnh di Imola, Alfa di Arese e Irisbus di Valle Ufita a cui si aggiungono gli stabilimenti della Magneti Marelli (plastic component). L’azienda ha ricattato i lavoratori per poi ingannarli nella completa assenza delle istituzioni.
Tutta questa operazione ha diviso i lavoratori, sia di stabilimenti diversi che all’interno degli stessi stabilimenti. Ha diviso, col consenso dei sindacati firmatari, la rappresentanza sindacale fino all’esclusione incostituzionale della Fiom-Cgil. La battaglia sindacale di chi dissentiva è stata resa impraticabile dall’azienda che col Ccsl, un patto “ad escludendum” tra l’impresa e le organizzazioni sindacali firmatarie, ha cancellato per tre anni il diritto dei lavoratori a essere iscritti a un sindacato dissenziente, a poter eleggere liberamente Rsu e Rls, e a modificare completamente le relazioni sindacali. È stato introdotto un sistema che garantisce all’impresa di poter disporre delle maestranze come meglio crede, senza alcun vincolo contrattuale e legale. Infatti, il Ccsl che deroga a norme di legge è stato legalizzato da una legge del Governo Berlusconi, precisamente con l’articolo 8 del d.lgs. 138/2011 (recepito nella Legge 148/2011).
Il Ccsl non è un’eccezione, ma un accordo storico che segnerà il futuro delle relazioni industriali. Oggi, nonostante la sentenza della Corte costituzionale, la direzione aziendale continua a non riconoscere legittimità negoziale alla Fiom-Cgil; ma sul piano nazionale o aziendale esistono veri tavoli negoziali in cui salario, orario, salute e sicurezza, futuro industriale, solo per citare alcuni aspetti, sono oggetto di un vero negoziato?
Nelle assemblee che abbiamo tenuto dopo la sentenza della Corte costituzionale, abbiamo trovato conferma di quanto abbiamo sostenuto: in fabbrica c’è il comando unilaterale dell’impresa e con il sistema sanzionatorio e la burocrazia delle commissioni non c’è più nulla che l’azienda permette di contrattare davvero. Il paradosso è che ai delegati delle organizzazioni firmatarie è impedito la possibilità stessa di avere una propria posizione e di farla valere nei confronti dell’impresa, perché vincolati a un sistema di clausole di esigibilità e sanzioni che impediscono la possibilità stessa di esercitare il proprio ruolo, tanto che in questi anni lo stesso confronto coi lavoratori in assemblea è stato ridotto a poche ore rispetto alle dieci previste dal contratto.
A una disciplina aziendale durissima si somma la paura per il futuro occupazionale. Il mix cassa integrazione e aumento dei ritmi e carichi di lavoro sta garantendo all’impresa una competitività molto forte – che non sviluppa però risultati in assenza di nuovi modelli – e un governo degli stabilimenti senza un ruolo attivo del sindacato. Infatti si è diffusa la convinzione tra i lavoratori che col Ccsl il sindacato in fabbrica non c’è più.
Penso che ci sia bisogno di una nuova fase nel gruppo Fiat-Chrysler dopo la fusione e lo spostamento della sede altrove come già è accaduto col Gruppo Cnh Industrial. Una nuova strategia che mobiliti i lavoratori per l’apertura di un vero negoziato, garantito dal Governo, per un piano per l’occupazione attraverso investimenti pubblici e privati. Assicurare un futuro industriale e occupazionale è oggi il primo punto di una vertenza nei Gruppi. L’incertezza crea paura e preoccupazione e mina nelle fondamenta la solidarietà tra le maestranze e la possibilità stessa di avere fiducia nella propria forza in una vertenza.
Per mobilitare i lavoratori bisogna riconsegnargli il diritto di scegliersi il sindacato e la rappresentanza col voto degli Rsu e degli Rls, per poi discutere in assemblee un mandato per una azione rivendicativa utile a far tornare il sindacato in fabbrica. Senza un ruolo indipendente del sindacato l’impresa dimostrerà ai lavoratori che essi stessi del sindacato potranno farne a meno.
- (*) Segretario generale Fiom Cgil