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In tempi di coronavirus

Cari amici, care amiche,

Col decreto del Governo del 10 marzo e con quello immediatamente successivo ci siamo ritrovati in una condizione di segregazione collettiva, mai sperimentata nel corso della nostra vita. La viviamo in modo assai diverso a seconda dell’età di ciascuno. Da persona che sta per compiere ottant’anni, ho vivi i ricordi che genitori e nonni mi hanno trasmesso di tempi duri da loro vissuti. Provo, allo stesso tempo,  ad immaginare come vivano questa pandemia ragazzi e giovani cresciuti senza provare i condizionamenti dei tempi lontani. Confesso, allo stesso tempo che, anche alla mia età, non è affatto facile vivere chiuso in casa, anche se confortato dalla presenza di Maria e dai legami con tante persone che mantengo vivi.

Dopo averci riflettuto un pò, mi son detto che questo potrebbe essere un tempo provvidenziale per ritrovare sé stessi, dando spazio alla riflessione ed alla contemplazione, oltreché alla lettura, all’ascolto della musica ed ai contatti telefonici, specie con le persone che più soffrono la solitudine. Ho anche pensato di mettere per iscritto alcuni dei pensieri che vado rimuginando dentro di me, in modo da cogliere la possibilità di una comunicazione più meditata sul nostro vivere in tempo di restrizione.

Innanzitutto, la condizione che ci troviamo ad affrontare ci può rendere più attenti a sofferenze ben maggiori delle nostre, specie quando cala l’attenzione mediatica sulle tragedie di questo tempo. Mi riferisco, in particolare, alla durissima vita dei migranti, condannati a vivere nella più drammatica incertezza sul loro futuro, assieme alla perdita dei legami con la terra di origine. In questi giorni, la sorte di tante famiglie siriane costrette, a causa della guerra, a fuggire verso un’Europa inospitale, la sento rimossa dall’attenzione, preoccupati come siamo per i rischi che la nostra salute corre. E’ questo invece il momento per accorgerci che c’è al mondo chi sta assai peggio di noi, per prendere coscienza della fragilità che ci accomuna, per risvegliare un doveroso senso di responsabilità a livello globale, per farci vicini in tutti i modi possibili alle persone deprivate di pane, di casa e di affetto. 

Proprio a partire da queste considerazioni, mi trovo d’accordo con Carlo Petrini, fondatore dell’Associazione Slow Food che, in un articolo pubblicato su “La Stampa” dell’8 marzo. Egli  ci invita a “riconoscere l’estrema fragilità del modello economico e della nostra società liberista occidentale” e indica la possibilità di uscire dall’attuale emergenza “ridando rilevanza all’economia locale, senza scadere in sovranismi fuori dal tempo e dalla logica, coltivando i beni relazionali, accelerando un processo di trasformazione che vada nella direzione della lotta senza quartiere agli sprechi, nella ricerca di energie nuove e non impattanti a livello ambientale, nella limitazione dei consumi non necessari”. Conclude affermando che “solidarietà, comunità e cooperazione sono le chiavi per ripartire”.

Papa Francesco, nella sua esortazione postsinodale “Querida Amazzonia”, formula quattro grandi sogni che ci propone di estendere, oltre all’Amazzonia, alle altre regioni della terra di fronte alle loro specifiche sfide: un sogno sociale, un sogno culturale, un sogno ecologico, un sogno ecclesiale. In queste giornate che, per molti di noi, sono di forzato riposo potremmo dedicare del tempo ad una lettura meditata di tale esortazione,     che ci offre preziosi spunti per ritrovare il senso profondo del nostro vivere (si può trovare il testo anche in internet). 

Quanto alla privazione della Messa domenicale, siamo chiamati a viverla, durante questa quaresima, come un tempo di digiuno eucaristico e, allo stesso tempo, come opportunità per far spazio alla Scrittura, da meditare quotidianamente, senza fretta. Questo forzato rimanere in casa, per molti di noi, diventa una possibilità per ritrovare il gusto dell’ascoltarsi reciprocamente e per lasciare alla Parola del Signore la possibilità di sedimentarsi nei nostri cuori.

La calamità del coronavirus è anche l’occasione per rimettere ordine nella nostra vita e per riscoprire il valore di quei legami sociali che, nella frenesia consumistica degli ultimi decenni, sono finiti in soffitta, tra le anticaglie coperte di polvere. In tanti ci siamo commossi dinanzi alle tante azioni di vicinanza testimoniate un po ovunque da tutti coloro che si stanno facendo vicini agli anziani soli, agli ammalati gravi, alle persone senza fissa dimora, ai soggetti fragili e disorientati. Di qui possiamo ripartire per scoprire che non ci si salva da soli e che l’unica strada praticabile è quella della condivisione fraterna. Solo in questo modo potremo restituire una speranza di futuro a tanti giovani disorientati e stanchi di vivere.

Proviamo a guardare il cielo dalla finestra di casa, a riascoltare il canto degli uccelli, a riscoprire i colori di quell’arcobaleno che, in tanti, abbiamo esposto sui nostri balconi. Nelle grandi città è bello vedere la gente che si affaccia alle finestre e che fa festa cantando, suonando strumenti musicali, salutandosi tra sconosciuti, respingendo in questo modo la psicosi della reclusione.

Se c’è una raccomandazione da fare alle persone con le quali entriamo in contatto, per telefono o attraversi i social, è quella di non passare il tempo ad ascoltare un telegiornale dietro l’altro, caricandosi in tal modo di ansia e di paura. 

Prese le opportune precauzioni, liberiamoci da questa cappa di terrore ingenerata dal coronavirus e guardiamo con speranza al grande dono dell’amicizia fraterna che siamo chiamati a riscoprire e praticare, ben oltre le nostre cerchie parentali, per ridare gioia e colore al mondo in cui siamo chiamati a vivere, nel segno della libertà e della responsabilità.

 

Vi abbraccio, gianfranco

 

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