Non può sfuggire a nessuno, e certo non sfugge a noi, che le drammatiche conseguenze prodotte dalla pandemia sul sistema economico e produttivo richiederanno di destinare ingenti risorse, per tempi che è difficile stimare, a interventi che scongiurino un possibile disastro sociale. Che questa sia oggi un’assoluta priorità è fuori discussione. Così come lo è la necessità di garantire un adeguato livello di protezione sanitaria, per non essere colti impreparati qualora si scateni una nuova ondata di contagio prima di avere pronte e disponibili, auguriamoci al più presto, le armi per un’efficace difesa farmacologica.
Fatta questa premessa, va però detto che un ritorno all’attività scolastica in presenza, da gestire con garanzie di massima sicurezza perché la convivenza e gli spostamenti di dieci milioni di persone non riaccendano pericolosi focolai di contagio, è un’altra questione cui porre la dovuta attenzione e destinare le indispensabili risorse. Non è infatti un problema di poco conto avere milioni di bambine e bambini, ragazze e ragazzi, privati ormai da oltre due mesi della possibilità di vivere una dimensione di relazioni che è per la loro formazione e la loro crescita almeno altrettanto importante degli apprendimenti che la scuola può in qualche modo stimolare anche “da remoto”.
La didattica a distanza si è rivelata una risorsa preziosa nell’emergenza da Covid-19, rappresentando nella fase del lockdown l’unica via praticabile per l’accesso a un diritto sancito dalla costituzione, quello di istruirsi. Il fuocherello delle polemiche innescate in fase iniziale da qualche eccesso di protagonismo (ministeriale, ma anche di una malintesa dirigenza), si è spento quasi subito, lasciando spazio alla bella realtà di un corpo professionale intento a far sì che la scuola potesse continuare a svolgere la sua funzione preziosa anche se le sue porte erano costrette a rimanere chiuse.
Lo hanno fatto con generosità, intelligenza, professionalità e senso del dovere docenti e dirigenti, e con loro tutto il personale impegnato nel lavoro cosiddetto “agile”, talvolta rivelatosi più gravoso di quello in presenza. Nonostante ciò, alcuni ostacoli si sono rivelati insormontabili, ossia quelli legati alla disponibilità di infrastrutture e dotazioni strumentali senza le quali interagire a distanza si rivela impossibile. Un terzo delle famiglie italiane, ci ha detto l’ISTAT con cifre eloquenti, ancora nel 2018/19 non aveva in casa un computer o un tablet. Nelle regioni del sud la percentuale supera il 40%. Difficile che gli stanziamenti resi prontamente disponibili dal Governo e subito utilizzati dal Ministero possano aver colmato carenze così profonde. Ed è sempre l’ISTAT a dirci che “oltre 4 minori su 10 vivono in condizioni di sovraffollamento abitativo”. Non occorrono molte parole per spiegare come sia complicata la fruizione della didattica a distanza in una famiglia con più figli, di cui almeno uno nei primi anni della fascia dell’obbligo. Con spazi angusti, scarsa dotazione strumentale, obblighi lavorativi dei genitori da assolvere, nella migliore delle ipotesi in smart working. Basterebbero queste ragioni per dire che le modalità on line, risorsa preziosa e opportunità da sviluppare anche in prospettiva, facendo tesoro dell’esperienza condotta sul campo, che ha favorito l’acquisizione di più estese competenze e di dimestichezza con tecnologie, linguaggi e stili ampiamente diffusi fra le giovani generazioni, non potrà mai porsi come credibile alternativa di una didattica in presenza che resta dimensione costitutiva imprescindibile e irrinunciabile di una vera scuola.
È proprio il rischio di contribuire, con scelte e misure improprie o inadeguate, alla crescita delle disuguaglianze sociali che dobbiamo assolutamente evitare nel momento in cui decidiamo come gestire la riapertura delle scuole. Il problema della povertà educativa, nella situazione di difficoltà e di emergenza che viviamo ora, rischia di aggravarsi e di aumentare quell’ingiustizia che già sarebbe pesante in una scuola che – come ci ricorda don Milani – facesse parti uguali fra disuguali.
Di tornare quanto prima a vivere e respirare il clima e il calore di una scuola non virtuale hanno bisogno, e diritto, prima di tutto i 10 milioni di alunne e alunni delle nostre scuole pubbliche, statali e non. Ne hanno ancor più necessità di quanta non ne abbiano le loro famiglie di veder soddisfatto un comprensibile bisogno di assistenza e custodia: compito – va detto peraltro con molta chiarezza – che non può essere solo della scuola, che ne assolve altri e di diversa natura.
Se tutto questo è vero, ossia che la didattica a distanza non può raggiungere tutti e che il digital divide può addirittura aumentare squilibri e disuguaglianze; se è vero che il ritorno in classi o sezioni vive e reali si pone addirittura per alunne e alunni come fattore di buona salute mentale, l’obiettivo di una riapertura in sicurezza delle nostre scuole può rientrare a buon diritto tra le priorità da assumere e su cui, necessariamente, investire.
Per tutte queste ragioni, e per molte altre, la proposta per qualche giorno ventilata in ambito ministeriale (poi saggiamente ridimensionata a mera ipotesi di studio), di alternare per tutti l’attività in presenza e quella a distanza, è apparsa da subito piuttosto inconsistente, irrealistica e inadeguata. Una sorta di “uovo di Colombo” mirato all’obiettivo di una riapertura a costo zero sul versante delle spese per il personale.
In realtà si tratta di una costruzione artificiosa che apre più problemi di quanti ne possa in apparenza risolvere. Trascura, oltre ai già citati problemi di digital divide evidenziati dall’ISTAT, le numerose variabili di cui occorre invece tener conto nella programmazione e gestione del lavoro in relazione alle differenti fasce di età, per non parlare dei bisogni estremamente diversificati che manifestano i singoli alunni, in particolare quelli con difficoltà o disabilità. Se, come è ormai certo, nel nuovo anno scolastico si dovrà prevedere un’organizzazione per gruppi ristretti di alunni, e si dovrà vigilare sulla scrupolosa osservanza di regole di comportamento perché la convivenza si realizzi in sicurezza, serviranno inevitabilmente più insegnanti e più collaboratori scolastici. Sarà anche necessario che tutto il personale sia presente in modo stabile a partire dal 1° settembre.
E qui si aprono questioni cui per brevità accenno soltanto, riguardanti le procedure di reclutamento del personale e il rischio che quelle sostenute dal Ministero, ingestibili in tempo utile per il nuovo anno, rendano ancor più massiccio il ricorso al lavoro precario, con ciò che ne consegue per la stabilità del personale, oggi più che mai necessaria. Servono più insegnanti e più collaboratori scolastici, almeno fino a quando non si avrà un auspicabile ritorno a condizioni di vera normalità. Servono poi tutti i materiali e i dispositivi indispensabili per la sanificazione e la costante igienizzazione degli ambienti e per la prevenzione dei rischi di contagio per alunni e personale scolastico. I costi sono facilmente stimabili, e vanno dal miliardo di euro circa per la fornitura di DPI ad alunni e personale, ai quasi quattro miliardi necessari per garantire alle scuole un congruo numero di personale aggiuntivo nel periodo settembre 2020 – giugno 2021.
Che la riapertura delle scuole rappresenti una questione particolarmente delicata e complessa, di forte impatto sull’insieme della collettività, lo dimostra anche la scelta del CTS della Protezione Civile di incontrare in modo diretto – cosa che non è avvenuta per nessun altro settore – il Ministero dell’Istruzione e i sindacati della scuola; un incontro avvenuto il 12 maggio, in avvio del percorso verso la definizione di uno specifico protocollo condiviso su salute e sicurezza sia riguardo allo svolgimento degli esami di Stato, sia per la ripresa delle attività in presenza a partire da settembre. È nella consapevolezza di tutti quale sia la posta in gioco: riaprire le nostre scuole e farlo in sicurezza merita sicuramente di diventare una delle grandi priorità, su cui scegliere e investire.
*Segretaria Generale CISL Scuola