Parliamo di sindacato. Anche alcuni recenti avvenimenti di “bassa cucina” interna a un’organizzazione sindacale confederali servono per fare alcune riflessioni su se stessi. A volte quando mi trovavo di fronte a qualche sindacalista(?) mi toccava chiedergli: “Oggi di che sindacato sei?”.
Le luci e le ombre della capacità di rappresentare il mondo del lavoro del sindacato confederale si sono accentuate, di fatto, allontanandosi. Vi è anche qui una divaricazione di rappresentanza, che è lo specchio della società in cui i ricchi sono più ricchi e i poveri più poveri e aumentano.
Se nel mondo del lavoro “garantito”, per quanto possa esserlo nella prossima fase, il sindacato mantiene un accettabile livello di rappresentanza, diversificato per settore e comunque sempre superiore ai livelli di rappresentanza di Confindustria. La difficoltà che si riscontra è in particolare nei nuovi lavori e nel mondo categoriale dove la rappresentanza è più corporativa o dove vi sono maggiori garanzie soprattutto sul mantenimento del posto di lavoro.
Sui nuovi lavori penso soprattutto al mondo della logistica e dell’agroalimentare, per parlare dell’area metropolitana torinese dove abbiamo un proliferare di sindacati di base e su cui il sindacato confederale ha maggiori difficoltà a rappresentare i nuovi lavori ovvero il precariato diffuso e dove si diffonde la cooperazione “deviata”. Per contro abbiamo anche un riprodursi stabile di sindacati autonomi e neocorporativi laddove vi è una spinta più corporativa e a tutela dei privilegi. Qui fioriscono autonomi e sindacati delle professioni con evidenti difficoltà confederali. Evidenti perché diventa difficile fare prevalere i valori storici e fondanti della confederalità quando sindacati e sindacatini difendono la corporazione. Però, quando nella sanità, a fronte della pandemia la situazione si è fatta complicata, di nuovo emerge il sindacato confederale, forte delle sue radici esperienza e militanza. Infatti, è curioso come di fronte alle crisi più acute del mondo del lavoro, dell’industria in particolare, tutti questi sindacati da destra a sinistra spariscano, salvo rarissimi casi, o via sia la presenza di sindacati metalmeccanici ininfluenti.
Durante la mia esperienza quarantennale di metalmeccanico, in particolare in questi anni da segretario della Fim territoriale, rare volte abbiamo visto la presenza di codesti “paladini del pluralismo sindacale” affacciarsi ai cancelli di una fabbrica in crisi o in chiusura; e quando alcune volte lo hanno fatto i disastri sono stati ampi e visibili. Motivo? Semplice: è più facile fare sindacato demagogico e populista dove c’è certezza, soprattutto del posto di lavoro. Invece laddove bisogna difendere davvero i lavoratori, “sporcarsi le mani” fare accordi difficili, drammatici, mediare e non dare sempre ragione ai lavoratori, spiegare, trovare infine un accordo. Insomma fare i sindacalisti veri e non ideologici o corporativi, i sindacatini spariscono.
Poi abbiamo esperienze sindacali aziendali di sindacati veramente autonomi come il Fali alla Skf; appunto sindacato aziendale e non aziendalista come altre esperienze industriali. Il Fali ha però una storia sua, non nasce da una scissione ma dalla precisa idea di rappresentare i lavoratori di quell’azienda e le sue peculiarità. E infatti, troviamo persone competenti e preparate, non ideologiche non “contro qualcosa” ma “per qualcosa”.
Come possiamo recuperare il gap di rappresentanza, sopratutto nei nuovi lavori?
Oggi molti sindacalisti sostengono che il problema prioritario è il salario, dai prossimi mesi dovremmo avere una riduzione del cuneo fiscale per i lavoratori che porterà un leggero sollievo alle buste paga ma penso che la questione vera e imprescindibile sia il lavoro, senza lavoro non c’è salario. Allora occorre superare la fase dell’unità sindacale al ribasso, dove ogni mediazione unitaria è un passo indietro e non in avanti, per rilanciare il tema del superamento della precarietà, ormai da anni, diffusa oltre ogni vera esigenza imprenditoriale. I precari sono ben oltre la soglia dell’andamento della fluttuazione produttiva.
La battaglia “essenziale” del sindacato è riconquistare, proprio di fronte a una situazione di crisi acuta in cui Confindustria ripete come un mantra lo spettro della disoccupazione e dei licenziamenti, bisogna riproporre con forza l’occupazione stabile con percorsi di inserimento certo dove il salario cresca progressivamente.
Il Paese può ripartire non sui piagnistei, sui tatticismi o le furbizie “bonomiane”, assai diffuse, ma sulla capacità di aprirsi al futuro dove anche la crisi mondiale può aprire delle opportunità. Spendere oggi per guadagnare tutti domani se invece la politica imprenditoriale e dei partiti è il successo a breve, siamo “panati”. Serve mantenere la cassa in deroga e la cig per Covid per tutto il 2020 insieme al blocco dei licenziamenti. Occorre riformare gli ammortizzatori sociali allungando la durata della cigs nelle situazioni di crisi. Occorre ridurre le tasse alle imprese, se investono. Bisogna rilanciare Industria 4.0 e ridurre le tasse sulle assunzioni a tempo indeterminato aumentando i costi, per le aziende, del lavoro precario e lo straordinario. Quando il Governo Renzi introdusse efficaci sgravi fiscali le assunzioni a tempo indeterminato, le aziende le fecero e massicciamente.
A Torino bisogna usare questi mesi pre-feriali per rilanciare, in autunno, la Vertenza Torino che deve diventare la “Vertenza Metropolitana”. La Regione è inesistente, il Comune è in disfacimento esistenziale e tra l’altro le aziende soprattutto quelle in crisi, a parte Fca e Cnhi, non sono sul territorio di Torino.
Ecco allora che bisogna coinvolgere i Comuni dell’Area Metropolitana, creare un movimento e un’azione corale dei sindaci per mettere in atto strategie solidaristiche non solo per difendersi ma per costruire una piattaforma di sviluppo condivisa per il futuro industriale, turistico, gastronomico, agricolo e culturale in cui svolge un ruolo essenziale la scuola a tutti i livelli. Che non significa che il Magnifico debba fare il Sindaco!
I sindaci dell’area metropolitana devono diventare i veri interlocutori del sindacato, in attesa che le prossime elezioni amministrative torinesi riportino a un ruolo di guida del territorio il sindaco di Torino.
Il “mostruoso” Piano Competitività della Regione, mai nato, o nato morto, era una capillare distribuzione di piccole quantità di soldi a tutti per non scontentare nessuno. Ecco cosa non bisogna fare.
Mappare e suddividere il territorio per aree di interesse il Canavese con le sue specificità, il Pinerolese, il Chierese, e quant’altro attribuendo mission e investimenti.
Il sindacato confederale per attuare questo deve necessariamente rilanciare la sua azione sul territorio, verso gli Enti Locali, aprire le porte delle sue sedi non limitandosi ai servizi per gli Iscritti e non, ma andare laddove ci sono i cittadini e i lavoratori.
Carlo Alberto abdicò per provare a salvare il Regno di Sardegna, il sindacato non abdichi al suo ruolo esca dalle sedi e “invada” il territorio.
La “guerra pacifica” per lo sviluppo dell’area metropolitana si vince anche così.