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Home working del lavoro pubblico, una sfida europea

L’utilizzo del lavoro agile come misura di tutela della salute pubblica correlata all’obbligo del distanziamento fisico rappresenta un elemento comune alle amministrazioni pubbliche dei Paesi Ue sottoposte allo “stress test” pandemico. Durante l’emergenza epidemiologica l’erogazione dei servizi pubblici d’oltralpe, al pari dell’Italia, è stata garantita attraverso un utilizzo massivo di modalità di lavoro basate sull’utilizzo di tecnologie digitali, variamente configurate e attecchite su impianti normo-contrattuali differenti.

Attesa la mancanza di una definizione univoca dello “Smart Working”, i percorsi intrapresi dai singoli Paesi e la diffusione di pratiche associabili al nostrano lavoro agile (Flexible Working, Mobile Working etc.) sono differenti e risentono fisiologicamente di un diverso grado di maturità in termini di cultura manageriale, diffusione delle tecnologie e legislazione. Nel disciplinare la prestazione da remoto vari Paesi hanno scelto di impostare le norme nazionali intorno ad alcuni principi di fondo – flessibilità oraria, conciliazione vita-lavoro, parità di trattamento – lasciando ai soggetti di ciascun settore o contesto produttivo, compreso quindi il settore pubblico, l’onere di calarle nel proprio specifico. 

I paesi europei più avanzati sulla via della trasformazione digitale del lavoro più che definire il lavoro agile come tipologia ‘altra’ rispetto al telelavoro, hanno preso le mosse dall’implementazione dell’Accordo quadro europeo sul telelavoro sottoscritto il 16 luglio 2002. La definizione di telelavoro ivi scolpita, quale “modalità di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che fa uso della tecnologia informatica, nel contesto di un rapporto/contratto di lavoro, nella quale un’attività lavorativa che potrebbe ugualmente essere svolta nei locali di proprietà del datore di lavoro viene svolta regolarmente al di fuori di queste”,  offre una portata definitoria tanto ampia da ricomprendere modalità di prestazione analoghe a quelle riconducibili nel perimetro concettuale del lavoro agile di cui alla legge 81/2017. 

L’obiettivo di intraprendere un percorso di transizione dall’home-working emergenziale ad un lavoro da remoto più strutturato, auspicio comune dichiarato dalla maggior parte dei Governi e delle parti sociali nei Paesi Ue, passa attraverso la costruzione di discipline nuove e più evolute rispetto a quelle vigenti prima dell’emergenza epidemiologia. 

La Francia, al pari dell’Italia, ha risposto all’esigenza di un ricorso più spinto al teletravail imposto dalla pandemia, disponendo ampie deroghe rispetto alla disciplina introdotta nel 2016 con riferimento a ciascuno dei tre rami della funzione pubblica (statale, territoriale e ospedaliera).  Il regime derogatorio ha riguardato sia gli aspetti procedurali – a partire dalla possibilità di disporre il lavoro agile senza la previa conclusione di un accordo individuale – che le relazioni sindacali laddove, diversamente da quanto prevede la legislazione ordinaria, la concreta implementazione nei luoghi di lavoro non è stata oggetto di consultazione sindacale.Nei mesi successivi alla prima fase emergenziale, nell’ottica della graduale ripresa delle attività in presenza, è stata reintrodotta la volontarietà del telelavoro e la connessa facoltà datoriale di rifiutarne la richiesta qualora la ripresa dell’attività in presenza fosse conforme alle prescrizioni sanitarie previste nei protocolli nazionali vigenti ed essenziale per l’erogazione del servizio. 

Negli ultimi giorni con l’aggravarsi dell’emergenza sanitaria e l’aggiornamento del relativo protocollo di contenimento che ha imposto nei luoghi di lavoro sia pubblici che privati un ritorno al lavoro a distanza “per l’insieme delle attività che lo consentano” e “cinque giorni sui cinque” della settimana lavorativa, il telelavoro è tornato ad essere la norma (“imperativa”, come ha precisato una recentissima circolare ministeriale della Fonction publique) e il lavoro in presenza l’eccezione, garantendo una riduzione al minimo del tempo di presenza anche in quelle funzioni del settore pubblico che non risultino “smartabili” se non in via accessoria. Contestualmente è stato normato anche il ricorso a permessi e congedi in modo da evitarne quell’utilizzo “selvaggio” come alternativa al telelavoro che ha caratterizzato la prima ondata della pandemia con conseguente rischio di paralisi dei servizi.

Fermo restando che per espressa previsione di legge le autorizzazioni di teletravail attivate in fase emergenziale sono da considerarsi derogatorie e temporalmente connesse al perdurare dello stato di emergenza sanitaria, la Funzione pubblica francese ha dichiarato la volontà di capitalizzare l’esperienza acquisita in fase pandemica. In tal senso è stato avviato un confronto con le parti sociali sul lavoro a distanza, finalizzato a tracciare un percorso di transizione alla fase post-emergenziale che passa attraverso una revisione della legge sul teletravail adottata nel 2016, improntata ad una riorganizzazione dei processi e degli spazi di lavoro, ad un miglior bilanciamento dei tempi di vita/ lavoro e una maggiore efficienza dei servizi pubblici. La consultazione con le parti sociali è stata avviata lo scorso ottobre con un primo incontro tematico relativo alla formazione dei dirigenti e si propone di giungere alla sottoscrizione di un accordo quadro entro il 2021.

La crisi sanitaria ha creato uno scenario favorevole alla diffusione del lavoro a distanza anche in Spagna, paese che in assenza di una disciplina ad hoc non poteva certo considerarsi all’avanguardia nel contesto dello scenario europeo. Il 23 settembre scorso con l’entrata in vigore del “Real Decreto-Ley 28/2020” dopo aver ottenuto l’approvazione dei datori di lavoro e dei sindacati di maggioranza, il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera alla prima legge-quadro  sul lavoro a distanza in Spagna, applicabile al solo lavoro privato e caratterizzata da un’ampia delega alla contrattazione collettiva su aspetti cruciali come il diritto alla disconnessione, l’identificazione delle posizioni e delle funzioni suscettibili di essere svolte a distanza, nonché le condizioni di accesso e svolgimento della prestazione. 

Per quanto concerne il lavoro pubblico la principale novità recata dall’emergenza epidemiologica è stata l’approvazione del “Real Decreto-ley 29/2020”, intervenuta il 29 settembre. Il provvedimento, modificando l’articolo 47 del TREBEP (Texto refundido de la Ley del Estatuto Básico del Empleado Público) si propone espressamente di garantire  il normale funzionamento delle pubbliche amministrazioni nella fase di crisi sanitaria e, contestualmente, di promuovere una nuova forma di organizzazione del lavoro finalizzata a promuovere una migliore conciliazione vita – lavoro, un efficientamento dei servizi, una maggiore diffusione delle nuove tecnologie e lo sviluppo dell’Amministrazione digitale, una riduzione degli spostamenti e la sostenibilità ambientale in linea con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. 

Il testo del nuovo articolo, concordato in sede di Conferenza di settore della Pubblica Amministrazione e di Tavolo di negoziazione generale delle Pubbliche Amministrazioni, stabilisce una disciplina del telelavoro applicabile a tutti i dipendenti delle amministrazioni statali, regionali e locali e lascia ampio spazio alla contrattazione collettiva, nonché alle prerogative di autogoverno delle Comunità autonome previste dall’ordinamento statale spagnolo. Si prevede che il telelavoro, definito come “modalità di fornitura di servizi a distanza in cui il contenuto di competenza del lavoro può essere sviluppato, a condizione che le esigenze del servizio lo permettano, al di fuori dei locali dell’Amministrazione, attraverso l’uso di tecnologie ICT” sarà implementato nel rispetto dei principi quadro previsti dall’ “Estatuto Básico del Empleado Público” (l’equivalente del nostro Testo Unico del 2001) che saranno oggetto di contrattazione collettiva per ciascun settore di riferimento e prevederanno criteri oggettivi per l’accesso a questa modalità di prestazione. Ferma restando la sua natura volontaria e la compatibilità con la modalità in presenza, l’autorizzazione al telelavoro è espressamente subordinata al pieno soddisfacimento delle esigenze di servizio nell’interesse generale della collettività.  

Rispetto ad altri paesi europei, la Germania ha una forte “cultura della presenza” sul posto di lavoro. Quanto detto è plasticamente reso dai dati dell’Ufficio federale di statistica che, nel 2019, registrano meno del 13% dei lavoratori dipendenti tedeschi lavorare almeno parzialmente da casa, ponendo la Germania al di sotto della media europea. Anche qui la pandemia ha accelerato l’adozione di modalità di lavoro in mobilità, stimolandone contestualmente una più puntuale regolamentazione. A inizio ottobre il Ministero del Lavoro ha presentato un disegno di legge sul lavoro mobile inteso come “prestazione resa al di fuori dei locali aziendali, da una o più sedi scelte o concordate con il datore di lavoro, utilizzando strumenti ICT” che, in linea con la tradizione delle relazioni industriali tedesche, vedrebbe sindacati, comitati aziendali e rappresentanze del personale titolari del diritto di co-determinazione in materia di “introduzione e progettazione del lavoro mobile”.  

Il disegno di legge, che sancisce il diritto di fruire almeno 24 giorni all’anno in un luogo di lavoro esterno – periodo elevabile in sede di accordo individuale o contrattazione collettiva di livello nazionale o aziendale – prevede un obbligo di fornire entro due mesi dalla richiesta del lavoratore una giustificazione dell’eventuale diniego datoriale per ragioni di “necessità stringente” o qualora la prestazione non sia compatibile per sua natura con il lavoro mobile. In assenza di giustificazione, la richiesta si considera accettata.  La Cancelleria federale per il momento ha bloccato l’iter del disegno di legge ritenendo che l’obbligo di una motivazione al diniego datoriale configuri un “diritto al telelavoro”, estraneo all’accordo di governo dell’attuale coalizione. 

Lo spaccato europeo brevemente tracciato ci consegna un quadro composito che vede i settori pubblici dei principali paesi Ue impegnati in una partita sfidante in termini di adattamento dei tradizionali modelli organizzativi e, conseguentemente, delle discipline normo-contrattuali chiamate a governare rapporti di subordinazione non sempre agevolmente riconducibili a quelli sino ad oggi esperiti. Nonostante la raccolta e l’analisi di dati sull’impatto del lavoro a distanza in termini di incrementi produttivi del settore pubblico sia ancora largamente carente, i policymakers italiani ed europei, mossi dall’obiettivo di capitalizzare la straordinaria esperienza di apprendimento collettivo e il bagaglio di conoscenze tecnico-organizzative acquisite a seguito dell’epidemia, hanno già disegnato una traiettoria del post-emergenza. 

Uno degli elementi di differenziazione più vistosi è il grado di coinvolgimento delle parti sociali che varia dal caso francese, orientato alla sottoscrizione di un accordo quadro entro il 2021, a quello italiano che rimette ad uno o più decreti ministeriali l’adozione di specifici indirizzi per declinare l’implementazione della legge sul lavoro agile (legge 22 maggio  2017,  n.  81) nell’ambito del settore pubblico.  

Qualunque sia la strada prescelta per la gestione della fase post pandemica tutti gli Stati Ue si troveranno a dover sciogliere il nodo di una accentuata “porosità temporale” del lavoro da remoto, poichè la possibilità di una connessione continua consentita dai dispositivi mobili estende inevitabilmente l’area di intersezione tra vita lavorativa e vita privata, favorendo ingerenze che si pongono in netta antitesi rispetto al work-life balance che, in ognuno dei Paesi considerati, costituisce obiettivo prioritario della legislazione sul lavoro da remoto. 

Non è un caso che la Commissione per l’occupazione e gli affari sociali del Parlamento europeo lo scorso 28 luglio abbia licenziato un progetto di relazione recante raccomandazioni alla Commissione per l’approvazione di una direttiva sul diritto alla disconnessione (2019/2181(Inl)) atto a garantire ai lavoratori la possibilità di scollegarsi dagli strumenti lavorativi senza subire alcuna conseguenza ritorsiva. Si tratta di un aspetto cruciale con il quale tutti gli Stati membri dovranno misurarsi conformandosi al dettato europeo. Al punto 19 del progetto di relazione si legge che «le modalità pratiche per l’esercizio del diritto alla disconnessione da parte del lavoratore e per l’attuazione di tale diritto da parte del datore del lavoro dovrebbero essere concordate dalle parti sociali per mezzo di un accordo collettivo o a livello dell’impresa datrice di lavoro». É immediata la percezione di una profonda antitesi rispetto a quanto prevede la legislazione italiana, che affida al solo accordo individuale tra datore e lavoratore la disciplina del diritto alla disconnessione. A conferma che anche gli impianti normo – contrattuali più evoluti, tra cui quello italiano che vanta un pionieristico intervento sul lavoro agile nella pubblica amministrazione a far data dal 2015, risultano ancora troppo gracili per accogliere una novità tanto dirompente.

  

Silvia Candida, Germana Caruso

*Germana Caruso, Dipartimento contrattazione comparto Funzioni locali Cisl Funzione pubblica nazionale. Dottore di ricerca.

** Silvia Candida, Ufficio internazionale Cisl Funzione Pubblica nazionale

 

 

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