Lo scorso 4 aprile 2019 è stato presentato dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) – ai sensi dell’articolo 99, comma 3, Costituzione – al Senato della Repubblica il DdL 1232, per la creazione di un codice unico di identificazione dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro nazionali.
Tale codice sarebbe il frutto di una stretta collaborazione fra il Cnel – depositario dei Ccnl oggi sottoscritti (circa 900 nei più svariati settori economici) – e l’Inps, ente a conoscenza dei flussi delle denunce contributive e retributive, nelle quali il datore di lavoro ha l’obbligo di indicare il Ccnl applicato. Attraverso tale doppio controllo incrociato si potrebbe, dunque, avere un quadro generale dei Ccnl applicati nel Paese nonché del loro effettivo peso, sulla base del numero di aziende che li applicano e del numero di lavoratori a cui sono applicati.
Un simil disegno di legge nasce dalla dichiarata volontà di arginare i fenomeni di c.d. dumping contrattuale ovvero i contratti “pirata”, che vengono sottoscritti al solo fine di contrattualizzare condizioni di lavoro peggiorative per i lavoratori, nel tentativo di giocare un’asta al ribasso delle retribuzioni.
Com’è noto, nel nostro ordinamento vige un sacrosanto principio di libertà sindacale, che ha trovato esplicazione nell’articolo 39, Costituzione (sebbene per metà la disposizione sia rimasta priva di attuazione): ciò vuol dire, in buona sostanza, che non solo è assolutamente legittima la coesistenza di diversi contratti collettivi (anche nello stesso settore economico), ma che nulla vieta a un’associazione sindacale di definirsi rappresentativa e di stipulare un accordo collettivo anche in settori in cui preesistano accordi dello stesso livello. Dall’altra parte, in parallelo, anche il datore di lavoro è libero di scegliere se e a quale associazione iscriversi e, quindi, quale Ccnl applicare.
Il tema della rappresentatività sindacale è, dunque, da sempre un tema caldo, che, però, finora non ha visto soluzioni definitive, essendosi limitate Cgil, Cisl e Uil, da una parte, e Confindustria, dall’altra, ad autoregolamentarsi nel T.U. sulla rappresentanza sindacale.
In questo scenario si inserisce, quindi, questa “anagrafe unica Cnel-Inps”, che potrebbe consentire di collegare a un determinato Ccnl il numero di lavoratori a cui è applicato. Fino adesso, infatti, il Cnel ha raccolto tutti i contratti collettivi applicati in un archivio nazionale, istituito in adempimento di quanto previsto all’articolo 17, L. 936/1986, concepito, però, di fatto come un deposito documentale finalizzato alla conservazione e alla consultazione pubblica dei contratti e, quindi, sostanzialmente al solo fine di renderli più usufruibili per l’utenza.
Questo codice unico dei contratti permetterebbe, invece, di compiere un passo in avanti in termini di certezza anche nell’applicazione dei contratti stessi. Fra l’altro, la sinergia Cnel-Inps consente anche di ridefinire il perimetro dei vari settori produttivi, il collegamento fra banche dati, infatti, associa, oltre che i codici Cnel e Inps dei Ccnl anche i codici Ateco delle attività produttive. Quest’associazione potrebbe consentire, quindi, di collegare i campi di applicazione di ciascun Ccnl ai relativi settori merceologici e produttivi, mettendo in comunicazione l’archivio del Cnel con i registri statistici dell’Istat sull’occupazione e sulle retribuzioni, nonché con le banche dati di Unioncamere. Valore aggiunto dell’intera operazione è che tutti i collegamenti, sia Cnel-Inps che Cnel-Ateco, sarà validato dalle organizzazioni firmatarie dei Ccnl coinvolti.
Un siffatto progetto metterebbe anche l’Inps nella condizione di poter verificare in maniera più semplice e oggettiva il rispetto dei minimali contributivi attraverso una banca dati costantemente aggiornata, che mappi la situazione di tutti i contratti collettivi operanti nei diversi settori produttivi.
D’altra parte, non può negarsi come l’intero sistema di relazioni industriali abbia un notevole impatto sugli operatori economici e, conseguentemente, sull’intero sistema economico del Paese. Come spesso accade nel mondo giuslavoristico, la fissazione di parametri e regole più certe e meno soggette a libere interpretazioni ha l’indiscusso vantaggio di permettere ai soggetti coinvolti di agire sul mercato con maggiore consapevolezza (anche dei rischi). Non è, quindi, peregrino pensare positivamente dell’individuazione di parametri utili a identificare quale o quali contratti collettivi di lavoro possano essere considerati il riferimento all’interno di un medesimo settore, ad esempio a fini giudiziali, e della conseguente possibilità di costituire un benchmark utile a tracciare la linea di demarcazione fra pluralismo contrattuale e pratica sleale.
*In EuroConference Lavoro 01/10/2019