“Al lavoro per la pace” è lo slogan impegnativo con cui si sono svolte il 1° Maggio le manifestazioni di CGIL, CISL, UIL in tutt’Italia e il Concertone finale a Roma. Un auspicio, più che un messaggio univoco visto le divisioni non sanate che hanno accompagnato le iniziative sindacali che hanno preceduto questo tradizionale evento. Segno di tempi difficili per tutti e non solo per il sindacalismo confederale.
Lavoro e pace sono diventati termini che mettono in campo un lessico spesso contorto, sempre sull’orlo della divaricazione. Le culture del passato – ma ancora presenti se non dominanti nei linguaggi del presente – sono insufficienti per interpretare le dinamiche che attraversano quelle due parole. Eppure esse restano vitali per il futuro dell’umanità.
Sulla pace, poche parole. Per gli arsenali militari esistenti, non vi è esito finale nel quale ci sia un vincitore e un vinto, in nessun conflitto in atto nel mondo (e ce ne sono tanti di cui non si parla e quindi non si tiene conto). Questo vale ancor più per il conflitto in Ucraina. Se la necessità dell’invaso è quella di armarsi per difendersi dall’invasore, i Paesi amici non si possono limitare a dare buoni consigli e pacche sulle spalle. Chi si oppone a fornire gli armamenti, ritiene che l’invaso in realtà sia un “invasato”, un non realista. E questo non è accettabile. Ovviamente, non bisogna neanche rinunciare a costruire le condizioni per fermare la guerra. E questo è il tempo per fare di tutto perché ciò avvenga, perché i linguaggi usati siano finalizzati ad essa e che soprattutto, Stati Uniti e Cina decidano di porsi alla testa dei pacificatori.
Sul lavoro, si rientra in Italia. La catena del valore del lavoro in questo inizio di nuovo secolo si è allungata, con forti disuguaglianze nelle tutele e nei salari. Lo dicono tutte le rilevazioni statistiche nazionali ed internazionali. Il fenomeno è planetario, ma la tendenza italiana è più celere e articolata che nei Paesi a noi simili per struttura del benessere. Fondamentalmente per due ragioni, che però stanno diventando incompatibili con i cambiamenti in atto.
La prima è che il lavoro dipendente e i pensionati sono i soci di maggioranza del bilancio dello Stato. Più dell’80% del gettito è a loro carico. La dimensione dell’evasione fiscale è tale da farci avere il record europeo. Si può pensare di continuare a sforare il debito pubblico per racimolare qualche intervento per sostenere i redditi erosi dall’inflazione, ma senza una correzione di questa anomalia, i margini di manovra redistributivi resteranno modesti e inadeguati.
La seconda questione è che l’area del lavoro dipendente a tempo pieno e indeterminato è al centro di una galassia sempre più polverizzata di condizioni di lavoro e sicurezza oltre che di salari fuori controllo da parte del sindacato, della magistratura, dello Stato. Nessun irrigidimento normativo potrà mettere ordine a questa situazione se non cambiano alcune certezze che appartengono al passato e che resero per molto tempo “autorità salariale”, il sindacato confederale.
Ne indico un paio. Il lavoro dipendente deve essere a tempo indeterminato o non è un lavoro “dignitoso”. E’ un concetto che andava bene nella società del secolo scorso. In quella dell’industrializzazione digitale e dell’espansione del terziario privato e pubblico, le dinamiche professionali e organizzative sia a riguardo del tempo (orari preordinati e uguali per tutti), sia del luogo di lavoro (smart working) e sia della remunerazione (di base e di partecipazione) sono diverse. Non riconoscerlo, significa non riuscire a parlare con i giovani, non corrispondere alle loro aspettative. La flessibilità è inevitabile. Occorre renderla soltanto “buona”. In altri termini, bisogna dare dignità al lavoro a tempo determinato. Significa farlo costare di più all’impresa che quello a tempo indeterminato (semmai con destinazione pensione piuttosto che busta paga), offrire opportunità formative individuali nel corso della propria vita lavorativa (ricorrendo a qualcosa di simile alle storiche “150 ore”), farlo partecipare al welfare aziendale (dal quale spesso è escluso).
Il contratto nazionale è l’unico regolatore normativo oltre che salariale. Anche questa è un’affermazione del secolo scorso. In più, l’archiviazione presso il CNEL lo ha inflazionato. Siamo ad oltre 1000 contratti depositati. I firmatari sono i più disparati soggetti sociali che, approfittando della mancanza di certificazione della rappresentanza, fanno pirateria legalizzata perché tanto la magistratura potrebbe prenderli a riferimento, quanto lo Stato li autorizzati ad avere anche patronati, caf, enti formativi. Nessun salario minimo avrà funzione calmieratrice dei bassi salari e delle “cattive” flessibilità se non si bonifica questa polverizzazione. In attesa dell’applicazione della certificazione della rappresentanza, sarebbe opportuno una sospensione della registrazione di nuovi contratti e l’apertura di una inchiesta sul funzionamento di quelli in atto e dell’attività dei soggetti firmatari.
Ricondurre in un ambito più ragionevole la catena del valore del lavoro è impegno complesso e di medio periodo. Ma iniziare a dare il senso della rotta da seguire è essenziale per non rimanere imbambolati di fronte ad una realtà che è oggettivamente disordinata ma non per questo riorientabile verso una prospettiva più giusta e accettabile.