Uno dei più gravi problemi dell’Impero nel III secolo d.C. fu l’inflazione. Ci fu dalla metà del III secolo un costante aumento dei prezzi, aumento molto accelerato rispetto al trend dei due secoli precedenti perché era patologico.
Studi recenti hanno rinvenuto, nell’arco del III secolo, due distinti periodi inflattivi: il primo nell’età severiana mostra una inflazione normale, che ebbe solo un picco in concomitanza con le misure a favore dell’esercito prese da Settimio Severo; poi i prezzi si fermarono e l’inflazione divenne sopportabile. Il secondo periodo, iniziato a metà del III secolo con Decio, vide l’inflazione sfuggire ad ogni controllo e ad ogni misura di contenimento, aggravarsi in modo preoccupante durante il regno di Aureliano, ed è l’inflazione di cui dovette occuparsi Diocleziano.
Del processo inflattivo i testi antichi parlano in termini di “licenza di prezzi”, di “sfrenata voglia di accaparrare”; il preambolo dell’Editto dei prezzi -legge del 301 d. C.- attribuisce questo comportamento alla mancanza del senso di umanità delle persone. Il processo inflattivo era così grave, si legge nell’Editto, che “i prezzi delle merci vengono estorti non ad un valore moltiplicato per quattro o per otto, ma a tal punto che le strutture della lingua umana non possono definire…”.
Stime dell’inflazione nel corso del III secolo sono state fatte da alcuni autori: Ruffolo valuta un incremento dei prezzi dal 700 al 900%; Bessone scrive che una libbra d’oro (circa 327 gr.) costava 1125 sesterzi d’argento alla fine del II secolo; ma ne costava 50.000, quaranta volte di più, settant’anni dopo ai tempi di Diocleziano; ed Horst riporta che un cammello, che a metà del II secolo costava 250 dracme, ne costava 64.000 alla fine del III; il costo di una schiava lievitò, in Egitto, da 1200 dracme a 90.000. Come si vede da questi pochi esempi, si trattò di incrementi inverosimili, che misero in ginocchio l’economia.
L’inflazione, quando è fisiologica, cioè contenuta e controllata, è un fattore positivo nello sviluppo dell’economia, perché crea un circolo virtuoso di aumento della disponibilità monetaria che si traduce in aumento del potere d’acquisto delle persone; perché resti un fattore fisiologico e positivo dell’economia, occorre però che la sua crescita sia controllata e non superi un certo livello. La scienza economica valuta, oggi, che un’inflazione annua del 2-3% sia salutare per l’economia di uno Stato, perché stimola produzione e scambi ed evita la stagnazione.
È interessante indagare le presumibili cause dell’inflazione del terzo secolo; naturalmente non esistono fonti storiche che riferiscano elementi concreti del fenomeno tali che ne consentano la comprensione, per cui occorre procedere ad un’analisi induttiva.
La moderna scienza economica riconduce, come si sa, l’inflazione a quattro possibili cause: la mancanza di beni sul mercato; l’aumento dei prezzi delle materie prime importate; l’eccesso di moneta circolante; e, infine, la tosatura della moneta.
Uno storico britannico, A. H. Jones ha affermato che la forte inflazione partita nella seconda metà del III secolo fu causata dal deprezzamento del denario, che portò alla scomparsa dell’oro dalla circolazione monetaria, e alla prassi del pagamento in natura delle imposte.
Era avvenuto che il denario d’argento, introdotto nel 15 a.C. dalla riforma monetaria di Augusto, con il rapporto di 1:25 con l’aureo fu, a partire da Nerone, più volte alleggerito del metallo nobile che conteneva, perdendo il rapporto di equivalenza di 1:25 ma conservando il corso legale di 1:25 sull’aureo.
Lo svilimento continuo della moneta d’argento causò la tesaurizzazione di quelle auree, che scomparvero dal mercato; lo Stato stesso cominciò a richiedere che il pagamento delle imposte agrarie fosse fatto con beni in natura.
A me sembra che Jones offra una spiegazione tautologica: dire che la causa fu il deprezzamento del denario non spiega realmente la causa dell’inflazione, ma rimanda il problema ad altra causa.
Considerando le condizioni dell’Impero nel III secolo, si deve ritenere che l’inflazione sia stata provocata da un insieme di cause concorrenti e concomitanti: la mancanza di prodotti alimentari in primo luogo; poi la circolazione di troppa moneta c.d. divisionale, cioè di poco valore; e infine la perdita del valore intrinseco delle monete dal conio nobile, tesaurizzate e sparite dalla circolazione.
Il primo fenomeno, cioè la penuria di prodotti sul mercato, fu dovuta a due cause principali: alla scarsità della produzione agricola, a sua volta dovuta allo spopolamento delle campagne e alla pratica di un’agricoltura che si può definire ancora arcaica, cioè con poco impiego di tecniche e tecnologia; e alla distorsione del normale afflusso di beni sul mercato, provocata dallo Stato come soggetto accaparratore di grandi quantità di derrate agricole.
Gli studi sulle pestilenze riferiscono che il calo demografico alla metà del III secolo fu molto elevato; la popolazione dunque calò -si stima- a 45-50 milioni, ma si suppone che il calo della popolazione impegnata nella produzione agricola sia stato percentualmente maggiore della media complessiva, quindi più del 25-30%, perché priva del tutto di misure di prevenzione e di cure rispetto alla popolazione cittadina.
Occorre ricordare, ancora, che finché vi fu abbondanza di mano d’opera schiavile o comunque a buon mercato, le tecniche produttive in agricoltura non avevano fatto progressi rispetto ai secoli precedenti; la conduzione delle aziende agricole avveniva ancora con metodi e tecnologie vecchie di secoli; e per lungo tempo mancarono coloro che insegnassero il modo di produrre e di condurre proficuamente una villa, come invece era avvenuto nei secoli precedenti quando l’attività agricola era considerata nobile e adatta all’aristocrazia.
Né aveva portato un concreto vantaggio alla produzione l’introduzione più massiccia di affittuari e coloni, perché costoro non avevano capitali per fare investimenti in tecnologia e spesso abbandonavano le terre. Quanto al latifondo la redditività che esso produceva era impiegata in ulteriori acquisti di terre piuttosto che nel miglioramento delle tecniche di coltivazione.
A queste considerazioni va aggiunto un secondo fenomeno, che causò -nel corso del secolo- una grave distorsione del mercato dei prodotti agricoli, in quanto sottrasse, per lungo tempo, ingenti quantità di beni alla libera circolazione e alla autoregolamentazione dei prezzi sul mercato. Avvenne infatti che lo Stato, per sostentare i militari, divenne dapprima un grande acquirente di prodotti che pagava con moneta (svilita); e poi, quando venne meno in tutti la fiducia nella stabilità del potere d’acquisto della moneta corrente, lo Stato medesimo, pressato dai militari e dalla burocrazia, richiedeva il pagamento delle imposte con derrate agricole, con beni in natura. In questo modo una gran parte della produzione agricola aveva un destinatario che assorbiva grandi quantità di prodotti a titolo di pagamento delle imposte e non finiva sui mercati, impedendo la libera formazione dei prezzi. E non basta, perché spesso lo Stato procedeva ad arbitrarie requisizioni di derrate agricole da destinare agli eserciti; le requisizioni, cui nessuno poteva sottrarsi, erano improvvise e sconvolgevano il mercato cui quei prodotti erano originariamente destinati, provocando l’aumento dei prezzi dei prodotti che riuscivano a giungere sui mercati.
Lo Stato romano, nella metà del III secolo si reggeva su un apparato gigantesco di militari e di burocrazia: circa 500.000 militari fra esercito e marina, ed un complesso apparato burocratico statale stimato in 100.000 unità. Lo Stato doveva, quindi, pagare uno stipendio a circa 600.000 persone.
Il costo del sostentamento dell’esercito è stato stimato da uno storico britannico, Duncan Jones essere., per ogni anno, di 123 milioni di denarii al termine dell’età di Augusto, di 223 milioni alla morte di Settimio Severo e a ridosso dei 300 milioni alla fine del secolo III. L’incidenza della spesa militare sul Prodotto interno lordo dell’Impero aumentò percentualmente dal 2,5% in età augustea ad oltre il 4% in età severiana ed aumentò ancora negli anni dell’anarchia militare.
È stato anche calcolato da Duncan Jones, nel lavoro citato, che la spesa militare che ai tempi di Augusto consumava il 50% del bilancio statale, nel III secolo assorbiva il 75% di tutte le spese dello Stato romano, il che vuol dire di tutta la raccolta tributaria, ed era una percentuale rilevantissima: lo Stato impiegava in spese militari risorse molto superiori a quelle oggi impiegate dagli Stati dotati di moderni eserciti.
Quando la raccolta tributaria in danaro si trasformò in raccolta tributaria in natura, saltò la regola base dell’economia liberale, quale era quella di Roma antica, ossia l’autoregolamentazione del mercato che comporta l’adattamento dei prezzi alla quantità dei beni circolanti, alla moneta e alla qualità della moneta.
In buona sostanza, i beni che prendevano la strada del libero mercato erano una quantità insufficiente rispetto a quella necessaria per soddisfare i consumi della popolazione. Se ne deve concludere che la riduzione dell’offerta di beni sul libero mercato fu certamente una concausa dell’aumento dei prezzi.
Il secondo fenomeno coinvolto nella genesi dell’inflazione, fu l’eccessiva quantità di moneta divisionale, di poco valore, circolante rispetto alla capacità di spesa che il sistema economico nel suo complesso ancora aveva. Da dove e perché si era originata la grande quantità di moneta divisionale circolante di poco valore?
In primo luogo l’indice va puntato sul sistema imperiale delle zecche. L’organizzazione delle zecche imperiali contava su una dozzina di stabilimenti produttivi, dislocati non solo a Roma e nelle città sedi imperiali, ma anche in altre località, sia in Occidente che in Oriente. Non è noto come avvenisse il coordinamento fra tutti gli stabilimenti di produzione monetaria per stabilire la corretta quantità di monete d’oro e d’argento che potevano circolare nell’Impero senza alterare il rapporto fra ricchezza reale e quantità monetaria circolante. Certo è che i romani avevano capito che la moneta circolante doveva essere in rapporto di equilibrio con l’economia; quando la conquista della Macedonia, nel 167, fece affluire a Roma l’enorme tesoro dei Macedoni (tanto ricco che i romani furono esentati dal pagamento delle imposte agrarie) i romani notarono che i prezzi subirono un’impennata; la stessa cosa avvenne quando Giulio Cesare tornò dalla Gallia con i tesori sottratti alle tribù sconfitte. Dunque il principio dell’equilibrio fra ricchezza e moneta circolante, che è la regola aurea dell’economia, anche se non compreso e spiegato scientificamente, era noto agli amministratori romani che certamente ne tenevano conto.
Ma riesce difficile credere che nei cinquant’anni di anarchia militare l’amministrazione centrale fosse in condizione di tenere sotto controllo la produzione monetaria di una decina di zecche sparpagliate nel vasto territorio dello Stato, molte delle quali in territori che spesso finivano nelle mani degli usurpatori di turno.
In secondo luogo l’indice va puntato contro gli usurpatori che, per dotarsi di eserciti, dovevano pagare i militari e – essendo fuori dal sistema – non potevano sempre accedere alle riserve monetarie legali. Dovevano fare ricorso alle emissioni delle zecche sotto il loro controllo militare (e a volte ricorrere alle stesse miniere) per pagare il soldo ai legionari e fare acquisti di armi, cavalli e derrate alimentari. Costoro, senza porsi il problema dell’inflazione, mettevano in circolazione la quantità di moneta che loro serviva.
Infine un terzo elemento che favorì l’inflazione fu l’immissione in circolazione di moneta nobile con ridotto valore intrinseco, che non rispettava il valore legale della moneta, ma era molto inferiore. L’emissione di moneta svilita in un primo momento giovava ai soggetti emittenti, imperatori o usurpatori che fossero, ma poi, in breve tempo causava l’aumento dei prezzi e si ritorceva anche contro di loro. La ragione di ciò è che, a quei tempi, negli scambi economici ciò che contava era il valore intrinseco delle monete nobili. Il bene che era in cima alla scala e determinava tutti i valori era l’oro, o meglio l’oncia di oro raffinato; all’oro era ancorato il valore dell’argento secondo un rapporto dato dalla quantità estratta in natura; all’oro e all’argento erano ancorate le monete in lega pregiata (bronzo e oricalco-ottone), e via via tutte le altre di valore minore. L’alterazione di questo equilibrio era causa di disordine monetario e distorsione dell’economia.
Invero, la riduzione della quantità di oro o argento presenti nell’aureo o nel denario permetteva di conservarne il valore legale (o facciale) ma alterava il rapporto di equivalenza con il valore dei beni materiali che era ben noto ai produttori e commercianti.
Questo è il fenomeno causato dalla tosatura delle monete.
Va considerato infine che quanto più le monete pregiate perdevano valore intrinseco, tanto più si accentuava la corsa alla tesaurizzazione. Quindi le monete pregiate avevano poca circolazione e sul mercato vi era abbondanze di moneta divisionale. Il fenomeno della tesaurizzazione si verifica quando c’é paura del futuro. Le popolazioni del III secolo avevano buone ragioni per temere il futuro: almeno tre o quattro generazioni erano vissute fra epidemie, guerre e carestie.
Sembra si possa escludere come causa dell’inflazione l’aumento dei prezzi dei beni importati nel territorio dell’Impero da Arabia, India ed Asia. Uno studioso italiano, D. Foraboschi, ha quantificato il costo degli acquisti fatti dai romani all’estero, partendo da una notazione di Plinio il Vecchio, per il quale, ai suoi tempi (seconda metà del I secolo d.C.) su un Pil annuale stimato in 20 miliardi di sesterzi l’anno (equivalenti a 5 miliardi di denarii), gli acquisti ammontavano a 100 milioni di sesterzi l’anno, cioè 25 milioni di denarii. Anche Bessone ricorda questa valutazione di Plinio il Vecchio. Era dunque lo 0,50% del Pil che veniva speso in acquisti dall’estero, a metà del I secolo. Probabilmente nei due secoli successivi le importazioni aumentarono con l’aumento del benessere, ma la percentuale sul Pil, anche se raddoppiò, non potette certo superare l’1% o l’1,50%, percentuale troppo bassa per causare inflazione nel caso che i produttori esterni all’Impero avessero alzato i prezzi dei loro prodotti.
Va considerato anche che dal territorio dell’Impero non defluivano verso Arabia, India e Cina 100 milioni di sesterzi in monete d’oro ed argento, perché i mercanti che portavano nell’Impero i prodotti orientali, tornavano nei Paesi d’origine con le navi cariche di prodotti romani, ceramiche preziose, vetri, rame ed altri beni, acquistati con le stesse monete romane che avevano ricevuto in occasione delle vendite. Non è conosciuto il saldo della bilancia dei pagamenti, se positivo o negativo per Roma, ma anche ammettendo che fosse negativo, è chiaro che la spesa globale per l’importazione di merci orientali era abbattuta per una buona percentuale dalle esportazioni. Insomma sembra chiaro che il commercio con l’estero non poté mettere in ginocchio l’economia romana e causare una fiammata inflattiva.
In conclusione si può ritenere che non un singolo fenomeno mise in ginocchio l’economia dell’Impero nel III secolo, ma un insieme di fattori.
Fra il 286 d.C. e il 301 Diocleziano attuò importanti riforme in campo economico e fiscale: nel 286 procedette, in continuità con la monetazione antoniniana, all’emissione di una moneta d’argento e di un nuovo aureo; poi fece nuovi interventi monetari in un periodo variabile fra il 294 e il 297; nel 287 avviò la riforma fiscale, con l’introduzione del catasto. che fu completata in un decennio; infine nel 301 emise il notissimo Editto dei prezzi che completava la riforma monetaria che non aveva dato i risultati sperati.
È opinione condivisa che con le riforme l’imperatore e i suoi colleghi della Tetrarchia volevano introdurre, nel corpo economico e sociale dell’Impero, una legislazione risanatrice dei problemi che si trascinavano da tempo. Con l’insieme dei provvedimenti legislativi infatti furono disciplinati sia molti aspetti dell’economia privata che problemi dell’economia pubblica, cioè il bilancio dello Stato e la certezza delle entrate. Furono anche introdotti princìpi di maggiore uniformità, di parità di trattamento ed equità fra le varie province dell’Impero e fra i ceti sociali, tutto ciò naturalmente nei limiti del possibile, considerata la salda stratificazione delle diversità di trattamenti fiscali e dei privilegi anche ad personam vigenti. Fu la prima volta che il principio di equità fiscale fu tenuto in considerazione in un provvedimento fiscale.
Uno studio interessante riguarda le misure che potevano essere adottate nell’antichità per fermare l’inflazione.
Oggi (o meglio fino ad epoca recentissima) un governo che debba affrontare una grave inflazione in corso ha diversi strumenti, che può utilizzare a seconda della causa dell’inflazione. Se la causa è costituita dallo sbilancio del rapporto fra esportazioni ed importazione, può cercare di ridurre le importazioni sia quantitativamente che finanziariamente imponendo dazi che rendano il prodotto estero più costoso. Se la causa è l’eccesso di moneta circolante, può provvedere al ritiro graduale, operazione semplice perché la moneta è cartacea; se la causa è l’eccesso di credito bancario, che aumenta la disponibilità nel portafoglio dei cittadini, può imporre tassi più alti, e così via.
Lo strumento principe, nelle società che fondano sul credito bancario le attività economiche, è certamente quello che si definisce “leva finanziaria”, che non coinvolge i rapporti con Paesi esteri in quanto non tocca le importazioni.
Questo strumento essendo imperniato sul credito, è applicabile ad una società che ha, come le odierne, un sistema bancario sviluppato, che funge da hub nella circolazione del danaro. In una società poco sviluppata finanziariamente, anche oggi, questo strumento non è applicabile. La leva finanziaria era strumento attuabile ai tempi dell’Impero?
Nell’antichità, e fino a qualche secolo fa, la vita economica della società non era imperniata sul credito bancario; anche se certamente esistevano banchieri, l’attività bancaria non era però determinante per l’economia quotidiana della popolazione e per la produzione di beni.
Uno studio interessante sull’attività creditizia lo ha svolto Lo Cascio (8), dal quale si deve dedurre che l’attività creditizia non avesse un ruolo centrale nell’economia dell’impero romano come invece è nelle moderne società.
(8) Lo Cascio 2003, p.147