Nella generale incertezza che domina la scena politica interna e internazionale, il mercato del lavoro italiano è in subbuglio. Cresce l’occupazione (59,9% degli occupabili, record dal 2004), parecchio contrassegnata dall’utilizzo delle varie forme contrattuali del lavoro a tempo determinato. E’ segno di un dinamismo produttivo e di offerta di servizi che si sono ripresi dalla fase pandemica ma non hanno visione lunga per il futuro. Anzi, il vento della recessione – alimentato dall’inflazione e da rifornimenti singhiozzanti, molto condizionati dagli effetti della guerra in Ucraina – sta alzandosi di intensità e non promette tempi tranquilli.
In questo scenario, il mercato del lavoro lo possiamo semplificare in tre maxi gruppi. Il primo è quello degli occupati vecchi e nuovi alle prese soprattutto con il depauperamento dei salari. Senza essere smentita, la CGIA di Mestre calcola che a fine anno l’aggravio della spesa per famiglia sarà mediamente di poco più di 1000 euro. Quasi una mensilità. La pressione per una stagione di rinnovi contrattuali all’insegna del recupero almeno dell’inflazione è da dare per scontata (oltre 7milioni di dipendenti lavorano con un contratto collettivo nazionale scaduto: il 62% dei CCNL non è stato finora rinnovato). Il punto è come non renderla oggetto di un braccio di ferro tra sindacati e imprenditori che non gioverebbe alla stabilità politica del Paese. Molto dipenderà dalla coesione delle tre maggiori confederazioni (gli sgarbi registrati al Congresso della CISL non sono un buon segnale), dall’atteggiamento più o meno dialogante delle organizzazioni degli imprenditori (le ultime dichiarazioni di Bonomi non sono rassicuranti), dalla capacità del Governo di delineare una politica dei redditi che riduca le disuguaglianze senza alimentare inflazione. L’autunno prossimo sarà il momento della verità.
Il secondo gruppo è formato dai giovani in cerca di occupazione. Anche se leggermente diminuita, la quota dei disoccupati sotto i 25 anni resta consistente (24,6%). La tendenza è che trovano lavoro, anche se non il più desiderato, soltanto quelli con una buona o ottima qualificazione professionale media e universitaria. Sembra che il sistema produttivo di beni e servizi abbia corso più velocemente nell’innovazione tecnologica che il sistema formativo. Le imprese denunciano la mancanza di 300/350.000 professionalità rapidamente occupabili. E’ una situazione che viene da lontano, c’è sempre stato questo gap; ma ora appare più eclatante e anche diffuso su tutto il territorio italiano. Il ritardo nell’adeguamento della formazione media ed universitaria alle previsioni di cambiamento della qualità del lavoro mette sotto processo il sistema di orientamento nelle scuole che è quasi inesistente, la scarsità di Istituti Tecnici Superiori operanti nei territori, l’ancora scarso riposizionamento dell’Università rispetto al futuro del lavoro, nell’era dell’“industria.5”. Il PNRR ha risorse significative per intervenire efficacemente su questi nervi scoperti. La velocità di recupero del ritardo dipende dal Governo, ma soprattutto dalle parti sociali che dovrebbero essere le vere protagoniste, in quanto le più interessate. Allo stato, soprattutto dal lato imprenditoriale non vengono indicazioni di particolare vivacità
Il terzo gruppo è quello formato dagli adulti che sono in Cassa Integrazione Straordinaria (ancora 56 milioni di ore, in aumento rispetto a febbraio) o alle soglie dei licenziamenti per effetto non tanto della congiuntura economica, ma dei mutamenti tecnologici che stanno interessando tutti i settori produttivi privati e pubblici. L’intelligenza artificiale ha una pervasività orizzontale sempre più crescente e mette lavoratrici e lavoratori adulti nell’alternativa o di accettare lavori e stipendi più dequalificanti o di ri-formarsi per acquisire nuove competenze. Dal punto di vista delle istituzioni l’alternativa è di prevedere un ampio assistenzialismo o di organizzare l’educazione degli adulti. Alla lunga la prima soluzione è decisamente più costosa e deresponsabilizzante i singoli, le imprese e le organizzazioni sindacali dall’affrontare la questione. La seconda è una vera politica attiva del lavoro, per la quale non va scaricato sul singolo la responsabilità (ed eventuali costi) della riqualificazione, ma va assunto dalle parti sociali il ruolo di promozione della transizione da ciò che si sapeva a ciò che bisogna sapere. Finora questa cooperazione non è né prevista, né auspicata dalle parti sociali. Il governo e le Regioni ritengono che il loro compito è reperire le risorse per il sostegno del reddito (programma GOL). Invece, una cooperazione tra istituzioni pubbliche e parti sociali nella gestione di quest’area di adulti sarebbe una innovazione significativa per alzare il livello della occupabilità di donne e uomini nel nostro Paese.
Non basta adeguare la produttività del sistema Paese, la sua sostenibilità ambientale, la sua vocazione di creatività. E’ enorme l’esigenza di non allargare ma semmai di ridurre le differenze sociali e soltanto il lavoro, sia pure rinnovato nel tempo e nei contenuti, può assicurare questa prospettiva. Si è sempre detto che o c’è lavoro o c’è assistenza. La gente non accetterà mai la carenza dell’uno e dell’altra. In questi anni di pandemia, il pendolo si è spostato inevitabilmente sulla seconda. Ma non può essere una ipotesi strutturale. Il lavoro dignitoso ha un suo valore aggiunto, insostituibile. Bisogna soltanto saper guardare avanti e non fermarsi all’emergenza.