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Il sabbatico difenderà il lavoro nell’età della AI

Siamo alla 300esima pubblicazione di questa newsletter quindicinale. La prima porta la data del 3 giugno 2008. Quasi un compleanno. Da allora, l’abbiamo inviata, in breve tempo, a circa 15000 indirizzi ed abbiamo una frequenza media di cliccate uniche di poco più di 3000 per ogni numero. Il primo editoriale indicava quattro ambizioni: contribuire a capire cosa bolle nel mondo del lavoro, favorire la cultura della gestione diffusa delle norme esistenti, guardare al di là del breve periodo, facilitare ulteriormente il confronto tra gli attori reali di tutti questi processi. 

Non siamo certi che quest’ambizione sia stata pienamente soddisfatta; siamo certi che ce l’abbiamo messa tutta. E di ciò ringraziamo di cuore i numerosi collaboratori, gli esperti, i protagonisti politici, economici e sociali che volontariamente e in amicizia hanno animato il dibattito, ma soprattutto i tanti lettori che con la loro assiduità e curiosità ci hanno stimolato ad essere puntuali e scrupolosi. Di quella ambizione, non cancelliamo, né aggiungiamo una riga. Resta un valido punto di riferimento e cercheremo di procedere. semmai migliorando in qualità e originalità. A partire dal tema di questo numero.

L’età dell’Intelligenza Artificiale (AI, in inglese) è già in piena maturità. Migliaia di scienziati sono all’opera, sostenuti da sempre più ingenti investimenti privati e pubblici. Una moltitudine di aziende, sia piccole e dinamiche che grandi ed aggressive si contendono il vasto mercato dell’infosfera, della robotica e dell’AI. Tantissimi lavoratori stanno vedendo scomparire i mestieri che sapevano fare; altrettanti lavoratori vengono contesi a suon di buoni salari per i lavori che nascono dall’applicazione e dalla industrializzazione delle nuove tecnologie. Miliardi di donne e uomini consumatori familiarizzano sempre più con gli strumenti e i prodotti che quel mercato sforna con rapidità impressionante.

Molti interrogativi e dubbi sorgono da questo corto circuito planetario che è in moto e che si intreccia con tante altre questioni: dalla transizione ecologica, alle guerre in corso, dalle migrazioni, alla crisi dei sistemi democratici. Ma anche molte speranze vengono alimentate, circa il futuro della comunità internazionale, la sua pace, il suo benessere, la sua riconciliazione con gli altri organismi viventi della Natura. Nel confronto tra queste polarizzazioni, al dunque, quel che emerge è sempre e comunque la messa alla prova della capacità della persona di essere consapevole di ciò che sta succedendo e verso quale mondo si sta andando. 

Nel corso della Storia, l’essere umano è sempre stato coinvolto nel conflitto tra il bene e il male, prodotto da lui stesso in una difficile e incessante ricerca dell’equilibrio migliore. Ma nell’età dell’AI si varca una frontiera inedita: quella della definitiva egemonia della mente sul braccio, del sapere sul fare, dei valori sugli interessi. Proprio in riferimento al lavoro, questa prevalenza acquista una limpidezza sconfinata. In Italia, come nel resto del mondo che ha conosciuto l’industrializzazione, declina la consistenza della “manodopera”; cresce, neanche a passo lento, quella della “mentedopera”. Lo storico Cipputi sta passando la mano a chi è più tecnico, più informato, più carico di “senso”. Secondo i dati 2020 (ultimi disponibili) di Federmeccanica, gli impiegati sono il 53% degli occupati e gli operai di 3° categoria (i Cipputi) solo il 12%. Alla fine degli anni 70, l’operaio massa era il 35% degli occupati e l’insieme degli operai il 70%. Una rivoluzione.

Questo cambiamento così massiccio va orientato verso il benessere dell’umanità e l’inclusività dei più fragili. La chiave ancora una volta, è il lavoro dignitoso a tutti i livelli. E quindi, diffuso, consapevole, responsabile. Soltanto così, la società al tempo dell’AI potrà essere meno disuguale, più civile, meglio organizzata. Impegnarsi perché al di là di quel confine si modelli una comunità umana migliore di quelle finora conosciute, è una prospettiva affascinante e che vale vivere. Ovviamente, nulla avverrà a tavolino. Parecchio sarà realizzato non senza conflitti di interessi e di potere. Molto dipenderà dalla qualità delle classi dirigenti e dalla loro abilità nel prefigurare il futuro.

Ma già ora, qualche tendenza va delineandosi. Innanzitutto la necessità di una democrazia economica adatta a sistemi di mercato nel quale la separazione tra pubblico e privato sfuma molto. Gli oligopoli se non i monopoli privati si possono formare con grande rapidità e quasi sempre pescando a piene mani nel danaro pubblico della ricerca e progettazione. La vicenda Covid ci ha lasciato una narrazione ricchissima di prevalenza di interessi di parte, specie nei settori medicali e farmaceutici, che non si può archiviare come esigenza in una situazione di emergenza. Condizionare e controllare la destinazione degli investimenti nei settori dell’AI è quindi all’ordine del giorno per non mettere le istituzioni statuali, i lavoratori e i consumatori in una situazione di subalternità cronica e ricattatoria ai centri di comando dell’imprenditoria e della finanza mondiali.

Inoltre, la “formazione continua” va riconosciuta come un diritto  costituzionale. Ogni persona, a tutela della propria dignità, deve essere messa nelle condizioni di studiare, aggiornarsi, qualificarsi per tutta la vita. Il sistema formativo esistente è inadeguato, anche se non va squalificato. L’AI mette a repentaglio soprattutto la possibilità degli ultra quarantenni di vivere di lavori non degradanti, per usura delle loro competenze. Bisogna prevedere per tutti il diritto di godere di “periodi sabbatici” retribuiti al 100% (cioè alcuni periodi lunghi extra lavorativi definiti dalla contrattazione, da dedicare alla riqualificazione professionale), finanziati in parte dalle aziende, in parte dallo Stato, in parte dal lavoratore attraverso un posticipo previdenziale. Infatti, quest’ultimo potrebbe impegnarsi a lavorare oltre l’età del pensionamento per recuperare un terzo del valore dell’anticipo dei sabbatici usufruiti.

Infine, bisogna valorizzare il fatto che l’AI non disfa lavori, soltanto. Li crea. Al di là della disputa se ne propone di più o di meno di quanti ne cancella, quello che conta è che occorre prevedere e guidare il mix dei lavori, in una visione olistica. Da qui un’esigenza di trasparenza dei filoni di ricerca, progettazione, industrializzazione dei cambiamenti. E’ lo stesso concetto di segreto industriale che va rivisto, quando l’applicazione dell’AI interferisce con la privacy delle persone, gli interessi del Paese, la qualità della vita delle lavoratrici e dei lavoratori e dei cittadini. Il ricorso a Comitati etici e strategici nelle strutture dedicate all’AI, partecipati da rappresentanti di pubbliche autorità e organizzazioni sociali, potrebbe essere utile per anticipare valutazioni e soluzioni che se fatte ex post potrebbero essere tardive, nocive, indesiderate.

L’AI non è fantascienza (sebbene i lettori di Isacc Asimov sanno che ce ne ha scodellata tanta e molta, ora è una realtà), anche se per molti continua ad apparire tale e la vivono fatalisticamente. Non è neanche una minaccia per l’umanità, tanto da averne paura e suscitare atteggiamenti addirittura luddisti. A maggior ragione, non può essere neppure un delirio di Onnipotenza. Clinton, commentando il completamento del sequenziamento del nostro patrimonio genetico, il DNA (giugno 2000), disse: “stiamo imparando il linguaggio usato da Dio nel creare la vita”. Un’ammissione di piccolezza piuttosto che di vanto, anche se riferita ad una cosa grandiosa. Ma così è per l’AI: chi ne possiede le conoscenze e le chiavi di lettura e di progresso non deve sentirsi, né far credere al prossimo sprovveduto che è un “padreterno”. Anzi, deve essere consapevole che quel “potere” deve essere sempre condiviso, messo sistematicamente a disposizione della comunità umana e non scomodare paragoni impossibili.

 

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