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Deludente relazione, lontana dalla ”disputa intorno alla verità”

La relazione annuale del Governatore di Bankitalia è stata particolarmente deludente. La disillusione deriva, non tanto dalla mancanza di indicazioni circa le possibili terapie con le quali tentare ragionevolmente di fuoriuscire dalla crisi, anche per la buona ragione che ciò non rientra tra i compiti del governatore, quanto piuttosto per l’elusività dell’analisi svolta.

In effetti, quando il Governatore sostiene che: “l’azione di riforma ha perso vigore nel corso dell’anno passato, anche per il progressivo deterioramento del clima politico”.

O che: “i rappresentanti politici stentano a mediare tra interesse generale ed interesse particolare”. Oppure, che bisogna riprendere le riforme “con decisione”; che: “molte occupazioni stanno scomparendo: negli anni a venire i giovani non potranno semplicemente contare di rimpiazzare gli anziani nel loro posto di lavoro” e chiede perciò di creare “sin d’ora” nuove chance di impiego e rafforzare i “sistemi di protezione pubblici e privati, nei periodi di inattività”. O anche che: “Non bisogna avere timore del futuro, del cambiamento: Non si costruisce niente sulla difesa delle rendite e del proprio particolare, si arretra tutti. Occorre consapevolezza, solidarietà, lungimiranza. Interventi e stimoli ben disegnati”. In pratica non dice nulla. Resta infatti nel recinto delle esortazioni, delle prediche inutili. Quelle cioè che, indipendentemente dalle buone intenzioni, non spostano di una virgola i termini dei problemi.

Né cambia alcunché nemmeno la frase ad effetto, formulata a beneficio dei media (che infatti è stata ripresa da tutti), secondo la quale “Non siamo stati capaci di rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici degli ultimi 25 anni”. In sostanza saremmo rimasti fermi a 25 anni fa. Purtroppo però sui motivi di questa “incapacità” il Governatore non da alcuna spiegazione, che non sia il riferimento implicito al tradizionale elenco di recriminazioni e lamentele (deficit infrastrutturale, cattivo funzionamento della giustizia civile, scarsi investimenti in istruzione e ricerca, capitalismo familiare più incline dalla rendita che dal rischio di impresa, burocrazia sconclusionata, e così via), sul quale quasi tutti a parole concordano, ma in concreto non sono disposti a fare nulla. Confermando l’opinione di chi ritiene che la politica consista nell’arte di procrastinare le decisioni finché esse non siano più pertinenti.

Ma da cosa deriva una simile infingardaggine? A mio giudizio è il risultato di una distorta “cultura” politica, economica e sociale. Che nei fatti viene intesa come chiacchiera degli addetti ai lavori, o ridotta ad una sorta di ricettario della mutua con cui far fronte ai problemi della quotidianità. Al contrario essa deve invece essere ricondotta alla sua “ragion d’essere”. Che sarebbe (secondo la definizione di Nicola Chiaromonte) la “verità vissuta e partecipata”. Nel senso che “La cultura non è il terreno della verità, ma della disputa intorno alla verità”. Ora, l’aspetto che non dovrebbe essere ignorato nemmeno dal dottor Visco, è che il paese della videocrazia non ne ha viste molte negli ultimi 25 -30 anni, di dispute di questo genere. Eppure, per dirla con Roberta De Monticelli, “ciascuno di noi ha ‘vissuto e partecipato’ convinzioni di valore, opinioni di fatto, la cui verità (la credesse o no certa) sentiva stargli molto a cuore. Tanto più quanto più gli si risvegliava dentro – di fronte alla piena maleodorante dell’impunità, della corruzione e della malversazione, della distruzione di beni e di talenti, della rapina di futuro e di speranza – il desiderio di un po’ di giustizia. Ma quasi sempre un moto spontaneo, un’azione, una domanda, sono ricadute nel nulla di una rassegnazione all’impotenza”.

A peggiorare le cose ha concorso il desolante panorama dell’informazione che, secondo classifiche recenti, situa il nostro Paese per quanto riguarda la libertà, il rifiuto del conformismo e della subalternità al potere e perciò l’indipendenza della stampa e dei media, al settantaquattresimo posto nella graduatoria mondiale. Fra Macedonia e Panama. In questo contesto, non è facile che si faccia strada la cultura necessaria (intesa appunto come “disputa intorno alla verità”) per gestire il cambiamento politico, economico e sociale. Purtroppo, anche la relazione del Governatore è da considerare un contributo mancato nella “disputa intorno alla verità” della crisi. Tant’è vero che non vi si ritrova alcun accenno ad almeno tre punti di riflessione, ormai largamente presenti nel dibattito economico ed accademico, che costituiscono altrettanti colpi inferti agli assunti della teoria economica dominante ed alle politiche che ne sono derivate negli ultimi trent’anni.

Il primo è quello che ha messo in crisi il “dogma” dell’austerità. Il Fondo Monetario Internazionale ha infatti calcolato che il taglio del deficit di un punto può ridurre di due punti il Pil e non, come credevano e sostenevano i “devoti” dell’austerità e del pareggio di bilancio, solo di mezzo punto. Il disastro della Grecia è, del resto, una conferma tragica. I termini della situazione greca sono così chiari che in un suo recente rapporto lo stesso Fmi non ha esitato a formulare una esplicita autocritica. In particolare, a riconoscere di avere “pesantemente sottovalutato i danni dell’austerità collegati al piano di aiuti alla Grecia”. Poiché però nella sua autocritica il Fmi ha chiamato in causa, come corresponsabili del disastro, gli altri membri della Troika, questi hanno ovviamente cercato di difendersi. Nella risposta piccata della Commissione Europea colpisce la rivendicazione ed il ribadimento di un metodo. Vale a dire la “capacità di individuare le riforme strutturali necessarie”. Capacità che si risolve in sostanza in una litania (pensioni, produttività, semplificazione burocratica, riduzione della spesa corrente, eccetera). Tiritera che abbiamo nelle orecchie da almeno dieci anni, ma che è servita solo ad aggravare i problemi invece di avviarli a soluzione. Anche perché la Ue non si è mai schiodata dallo schema dei due tempi. Prima il rigore, con i tagli della spesa pubblica, poi le misure per la crescita. Le ragioni di tanta cocciutaggine dipendono dal fatto che su questa formula Angela Merkel ha costruito il suo capitale politico. Mario Draghi la sua credibilità come regista del salvataggio dell’Euro. Mario Monti la sua agenda di governo, con un bilancio tutt’altro che esaltante.

L’esperienza dolorosa, drammatica della Grecia costituisce, dunque, una sorta di paradigma di che cosa manca al gruppo dirigente europeo (Commissione ed i principali leader nazionali) per essere davvero in grado di tirarci fuori dai guai. Manca il rifiuto del dogmatismo e la capacità di contestualizzare, di graduare, di adattare le riforme necessarie alle condizioni concrete di una società. D’altra parte, per rimanere sempre all’esempio greco, se si sa (e la troika lo sapeva) che i dipendenti pubblici erano 750 mila (quasi un quinto della popolazione attiva), come si poteva pensare di lasciarne a casa 150 mila (provvedimento adottato nel settembre 2011) senza aspettarsi poi che il Paese cadesse in una recessione grave? O ancora, quando si decide di ridurre il salario minimo da 780 euro lordi a 580 (sempre settembre 2011) come ci si può poi sorprendere se i greci cadono nella povertà e nella disperazione? Ben venga, dunque, l’autocritica dell’Fmi. Tuttavia, non servirà a granché se ad essa non dovesse far seguito anche una parallela coerente modifica di rotta nelle politiche europee.

Il secondo è la conferma, venuta dal premio Nobel Stigliz, che la diseguaglianza è il principale killer della crescita. La sintesi degli studi che ormai Stigliz sta conducendo da anni, l’ha portato alla formulazione di un vero e proprio teorema su: distribuzione e moltiplicatore. La sua formula si basa sui seguenti elementi: se la distribuzione del reddito diviene ineguale allora la propensione marginale al consumo si abbassa e l’indice Gini (l’indicatore di diseguaglianza, inventato dall’Italiano Corrado Gini) aumenta, così il valore del moltiplicatore della ricchezza (investimenti, reddito) diminuisce. E’ successo con la Grande Crisi degli anni Trenta, succede ora con la Grande Recessione di questo secolo. E comunque tutti i dati confermano che nei paesi dove i ricchi sono sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri il Prodotto interno lordo segna il passo, quando va bene, altrimenti regredisce. Per scongiurare questo rischio occorre attivare politiche redistributive, non solo più eque, ma anche più efficaci. Cosa che, per quanto riguarda l’Italia, fin’ora non è stata neanche considerata tema di discussione. Ed i risultati purtroppo si vedono.

Il terzo è costituito dagli studi, ormai largamente concordi, che hanno smontato e smascherato gli errori della teoria del debito di Rogoff e Reinhard, secondo la quale quando il debito raggiunge oltre il 90 per cento nel rapporto con il Pil porta inevitabilmente alla recessione. Teoria considerata un assioma dai fautori delle politiche neo-liberiste. Comprese le sue varianti moralistico puritane. Tanto care ad alcuni settori della politica tedesca. C’è da dire purtroppo che, malgrado l’ accertata assenza di un effettivo fondamento scientifico, la teoria del debito continua a costituire un vincolo delle politiche europee. Con il risultato che esse ci hanno indotto a ripetere errori pre-keynesiani. Errori che ha invece evitato l’America di Obama. Non a caso la ripresa Usa dura da tre anni, genera posti di lavoro ad un ritmo medio di duecentomila nuove assunzioni al mese (mentre solo in Italia, da gennaio 2013, si perdono 100 mila posti al mese). Le cose al di qua ed al di là dell’Atlantico vanno diversamente appunto perché Obama, per riparare l’enorme disastro sociale, ha ripreso ed aggiornato la lezione di Keynes, secondo la quale per superare la crisi, bisogna prima rilanciare la crescita ad ogni costo. Il costo di Obama è stato un deficit-Pil oltre il 10 per cento durante il 2009/2010. Il periodo più buio della recessione. Scelta compiuta confidando però nel fatto che quando l’economia fosse tornata a generare lavoro, il risanamento dei conti pubblici sarebbe diventato più facile. Lo conferma, del resto, il calo del debito pubblico Usa, in atto per la prima volta dal 2007. Diminuzione trainata appunto dall’aumento del gettito fiscale generato dalla crescita. L’Europa continua invece ad illudersi che le politiche restrittive possano generare la crescita. Errore che viene pagato con un aggravamento della recessione e dei suoi costi umani e sociali.

Si potrebbero aggiungere altre considerazioni. Ma penso che le questioni qui solo accennate siano più che sufficienti a motivare le ragioni di delusione nei confronti della relazione del Governatore. Insoddisfazione tanto più motivata, perché se dalla relazione non ci si doveva aspettare l’indicazione di specifiche misure politiche, era però lecito attendersi almeno elementi concreti di analisi. Tali da aiutare tutti a capire come mai, dopo anni di crisi, siamo ancora nel pantano. Offrendo, in tal modo, un contributo utile alla “disputa intorno alla verità”. Purtroppo questo non è successo. 

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