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Il futuro dell’industria, in Italia

Nella Relazione Annuale della Banca d’Italia – emblematico esempio di come la nostra Banca Centrale interpreta la sua missione – c’è da sempre un’ampia analisi dell’evoluzione e delle prospettive dell’economia reale. Perché la moneta e la finanza saranno pur importanti, ma senza lavoro, industria e innovazione, è chiaro che ci consolerebbe poco avere una moneta stabile e una finanza utile!

In questi anni, il tema risulta ancora più importante: l’inflazione è ai minimi storici; peccato che la disoccupazione (soprattutto quella dei giovani!) sia ai massimi storici. Proprio per questo, merita esaminare l’analisi della Banca d’Italia, con particolare riferimento al cap. 10 sulla struttura produttiva ed al (nuovo) cap. 11 sull’innovazione. 

Ciò che impariamo leggendo quelle 20 pagine fitte di dati e di figure, conferma una diagnosi che la Banca d’Italia porta avanti da molti anni e pur variamente criticata per alcuni aspetti resta la principale analisi dei nostri problemi e quindi dei necessari rimedi. Ne indico i punti più importanti:

  1. Il 2012-2013 è un periodo difficilissimo, di caduta dell’attività economica, del reddito e dell’occupazione, che ha pochi precedenti nell’ultimo secolo.

    D’altra parte è da anni che l’economia italiana non cresce, declina, arretra, cade, ma a quelle analisi non hanno fatto seguito i necessari rimedi, anzi.

  2. Le colpe (se ha senso parlare di “colpe”) sono da attribuire principalmente a ciò che sappiamo da sempre, perché è il mancato adeguamento a quanto richiesto dal mutato contesto internazionale che impedisce alle nostre imprese di crescere in Italia, e quindi all’Italia di crescere.
  3. Di qui la definizione di un sistema produttivo “fragile”, come somma di: a) imprese di ridotta dimensione; b) un contesto istituzionale poco favorevole all’attività di impresa; c) riforme strutturali avviate, ma non ancora completate (e quindi inutili, o peggio).

Si noti che molte delle cose qui indicate sono vere da tanto tempo, e quindi merita riflettere sull’ulteriore dilemma: stiamo peggiorando, e quindi se non cresciamo, o peggio ancora, andiamo indietro, è perché non siamo bravi come invece sapevano esserlo i nostri padri?

Oppure, le nostre difficoltà dipendono solo dal fatto che il mondo è cambiato e noi no, essendo rimasti quelli di prima?

E’ questa una domanda cui è difficile rispondere. Anzitutto, perché l’elevata varianza che pure osserviamo tra le tante nostre realtà industriali, significa che è più difficile che in passato decidere cosa stia succedendo, in media, e soprattutto che significato attribuire a quel dato medio.

Ma poi è difficile dire se la spiegazione giusta sia il nostro arretramento o il mutato quadro generale (anzi globale) in cui ci inseriamo, perché in realtà ambedue le cose sono vere almeno in parte.

Basta confrontare i dati pubblicati dall’ISTAT e le analisi di Banca d’Italia con i temi di cui invece ormai da anni più si discute sui media e nel cosiddetto “dibattito politico”. Mi limito a citare tre esempi che sono in un certo senso illuminanti del declino del Paese, nel pensiero prima ancora che nella quantità di produzione industriale.

  1. Primo esempio = referendum abrogativo del giugno 2011 sul cosiddetto 23-bis cioè su una norma di legge che intendeva impedire, o comunque limitare molto, la possibilità che i “Servizi Pubblici Locali” (acqua, bus, rifiuti) non fossero attribuiti con gara europea alla miglior impresa (pubblica, privata o mista) possibile; ma rimanessero in gestione diretta (si usa dire in house) all’ente pubblico concedente. Il 23-bis era norma opinabile, ma con quali argomenti il referendum del 2011 l’ha abrogata? Sostenendo che l’acqua è un bene pubblico (sic!) e che come a Parigi, bisognava che l’acqua tale tornasse ad essere. Ovviamente, la realtà è ben diversa: cosa sia l’acqua, lo sanno anche i bambini, e in tutto il mondo gli acquedotti sono in concessione ai privati o a gestione pubblica, a seconda di quale sia la soluzione più efficiente (per qualità e costo). E’ quanto ha fatto il Comune di Parigi, al termine di una Concessione a due aziende private fatta dal Sindaco Chirac (con relative indagini penali!). 

    Quanti sono i Comuni italiani pronti ad imitare Parigi; cioè a dimostrare ai loro cittadini che il Comune è più efficiente (nella gestione e negli investimenti) delle imprese in concessione esistenti

  2. Secondo esempio = il declino industriale del Paese (i volumi di produzione sono oggi del 25% inferiori al massimo del 2008) dipende dalla cattiva specializzazione delle nostre imprese (è la concorrenza cinese che le fa fuori); oppure dalla mancata innovazione realizzata in questi anni; o ancora dalla struttura familiare del controllo e/o del management delle imprese stesse? 

    E’ questo un dibattito che dura da molti anni, ma è facile dimostrare che quei tre fattori non spiegano molto il vero divario che si è manifestato negli ultimi anni e che è invece quello tra le imprese che crescono solo o soprattutto in Italia (spesso nei confronti di una domanda interna molto condizionata dalla spesa pubblica, nei suoi pregi ma anche nei suoi molti difetti) e quelle che invece vanno bene e crescono perché crescono altrove e anche di ciò che producono qui è elevata la quota di export.

  3. Terzo esempio = le polemiche, a tratti astiose, sul grado di austerità (o di rigore) che in questi anni ci è stato imposto (dai mercati finanziari, sobillati da Bruxelles, provocata dai paesi creditori del nord Europa, a guida tedesca…).

Sarebbe l’austerità degli ultimi due anni – e contro la quale non abbiamo avuto il coraggio di ribellarci – la vera colpevole dei guai in cui ci troviamo! Peccato che analoga austerità, l’abbiano subìta altri Paesi, dove l’industria cresce più che da noi; e non l’abbiano invece subìta Paesi dove l’industria arretra come da noi.

Basta che il solito noioso confronto con le virtù (e i difetti) della Germania lo estendiamo a un po’ di altri Paesi (che come noi sono nell’Euro, o che ne sono fuori), per vedere che non è l’austerità degli ultimi due anni la causa principale del declino della nostra industria-solo-italiana (con le dovute eccezioni: la Ferrari è costruita a Maranello, e non sta costruendo sue fabbriche in Cina o in Brasile!).

Cosa vuol significare questa sintesi esemplificativa delle carenze del nostro sedicente dibattito politico? Almeno due cose.

Anzitutto che, come ricordava Carlo M. Cipolla a proposito del nostro declino di 4 secoli fa, ancor oggi il difetto nazionale per eccellenza è immutato: “gli italiani tradizionalmente riversano la colpa delle loro sventure sugli altri”. Non c’è speranza allora?

Si, una speranza c’è, se prima o poi incominceremo a studiare cosa fanno gli altri paesi sviluppati per continuare a meritarsi la crescita: come adeguano al mondo nuovo in cui

ci troviamo a operare le loro politiche economiche, a cominciare da quelle che servono per favorire la localizzazione in Italia delle imprese innovative (nostre o altrui: perché chi non attira, non trattiene). E quindi come investono nel loro sistema educativo (consiglio di esaminare da vicino la cosiddetta “iniziativa eccellenza” che ha portato la Germania – ma non è solo lei a farlo – a concentrare miliardi di euro in undici sue Università come tali scelte). Come favoriscono la ricerca pubblica (confrontare le risorse impiegate in borse di studio per avere i migliori giovani ricercatori del mondo, da un lato dal nostro CNR e dall’altro dagli 82 Max Planck Institutes: anche solo una visita dei rispettivi siti è illuminante). E così via. Gli esempi possono essere ripetuti per tutti i campi in cui si realizza una moderna politica industriale: non è per regalare soldi all’industria, ma servirebbe a meritarci un futuro, come Paese. Ed è lo stesso problema che si presenta quando limitiamo il dibattito sui nostri guai ai soli temi macroeconomici: tra deficit e debito pubblico; tra austerità e recessione; se non riusciamo ad allungare la vista al lungo periodo (quello in cui noi siamo tutti morti, ma non lo sono i nostri nipoti; come giustamente diceva Keynes) ci limitiamo a discutere solo di ciò che si deve fare per avere un po’ di ripresa a fine anno.

Dopo di che scopriremo che la ripresa non sarà servita a far riaprire nessuna delle fabbriche che stanno chiudendo. Quando qualcuno costruirà le nuove fabbriche che ci servono per tornare a crescere?

(*) Economista e professore all’università Cattolica di Milano 

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