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TFR: volontarietà e allargamento delle possibilità d’anticipo

Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan afferma che “qualunque cosa si fa sul Tfr ha delle conseguenze da valutare bene”. Filippo Taddei, della segreteria del PD, conferma, possiamo dire, le cautele del ministro affermando a sua volta che il governo punta a garantire tre principi inderogabili: libertà di scelta, mantenimento del regime agevolato per la tassazione e assenza di costo per le aziende. Insomma Renzi, come spesso gli accade, ha gettato troppo presto il cuore oltre l’ostacolo annunciando il Tfr in busta paga, ignorando i problemi concreti da affrontare se si vuole effettuare l’operazione.

Lo scopo del Tfr in busta paga è evidentemente quello di aumentare il reddito disponibile per i lavoratori dipendenti e questo, nella situazione attuale di carenza di domanda ha un senso, anche se appare una misura un po’ da ultima spiaggia e quanto meno dubbia negli effetti macroeconomici se isolata da altri interventi volti nella stessa direzione.

Potrebbe invece agevolare dal punto di vista microeconomico molti lavoratori, non solo dal punto di vista di un aumento del reddito disponibile, ma anche dal punto di vista dell’indebitamento. E’, infatti, sempre più diffuso il ricorso al credito dando come garanzia il Tfr in azienda o il Tfr (se non il montante complessivo) inviato (maturato) nei fondi pensione. Su questo indebitamento il lavoratore paga interessi elevati, se il Tfr in busta paga può evitare/ridurre queste situazioni, l’operazione avrebbe comunque un effetto positivo per i lavoratori interessati.

Lo scoglio principale della proposta è quello che riguarda i “costi” per le imprese sotto i 50 addetti e, in secondo ordine, possibili problemi di finanziamento della spesa statale. Con la legge finanziaria (Prodi-Padoa Schioppa) per il 2007 si stabilì che il Tfr maturato nell’anno, nelle imprese con più di 50 addetti e non destinato su scelta del lavoratore alla previdenza integrativa, sarebbe confluito nel costituendo “Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato del Tfr”, gestito, per conto dello Stato, dall’INPS. Non si tratta, quindi, di entrate dell’Inps, ma dello Stato. L’Inps ha una funzione di gestione amministrativa.

La proposta iniziale prevedeva che a questo fondo fosse destinato il Tfr di tutte le imprese, ma in seguito alla sollevazione delle PMI, il governo limitò il provvedimento alle imprese maggiori. La misura era stata proposta al governo dalla Cgil e avrebbe dovuto servire a favorire la previdenza complementare (se comunque le imprese perdono il Tfr cessa la convenienza a ostacolare i lavoratori nell’iscrizione ai fondi pensione), ma anche al finanziamento d’infrastrutture come espressamente indicato nella legge.

Il primo obiettivo venne meno con l’esclusione delle PMI dall’obbligo di conferire il Tfr al Fondo (ancora oggi nelle PMI pochi sono i lavoratori iscritti ai fondi). Il secondo invece è stato ampiamente realizzato, non solo, ma dal 2010 con Tremonti e i governi successivi, le risorse affluite al Fondo sono state utilizzate per finanziare anche la spesa corrente. In pratica i lavoratori che non hanno aderito alla previdenza complementare hanno finanziato dal 2007, senza alcun corrispettivo, una parte degli investimenti pubblici e della spesa corrente. La Corte dei Conti nel 2011 in una relazione dedicata a questa misura l’ha definita “un’operazione di natura espropriativa senza indennizzo o comunque di prelievo fiscale indiretto nei confronti di categorie interessate a versamenti finalizzati a scopi ben diversi dal sostegno alla finanza pubblica”.

Dare la possibilità al lavoratore “espropriato”, secondo la Corte dei Conti, di utilizzare secondo i suoi bisogni il Tfr parrebbe quindi un’opera quanto meno riparatoria.

Per lo Stato si aprirebbe indubbiamente il problema del venir meno della fonte di finanziamento costituita dal Fondo, ma non si tratta dei 5/6 mld indicati da molti osservatori. Le risorse effettivamente a disposizione del Conto di Tesoreria sono date dalla differenza tra l’ammontare delle risorse teoricamente dovute dalle imprese e l’ammontare delle prestazioni di Tfr erogate nell’anno. In pratica le imprese detraggono dai versamenti al Fondo le somme erogate per Tfr e, nel caso che non abbiano capienza nell’accumulato in impresa, sarà il Fondo Inps a erogare la parte restante. Non ho i dati attuali, ma nelle previsioni contenute nella Relazione tecnica della legge finanziaria per il 2007, la Rgs prevedeva un ammontare di risorse effettivamente disponibili annualmente progressivamente decrescente e pari nel 2015 al 25% del flusso teorico di Tfr. Se le previsioni sono confermate, il buco teorico nei conti dello stato non sarebbe di 5/6 mld, ma di 1,2/1,5mld. Quello effettivo dipenderebbe invece dalla volontarietà/obbligatorietà del provvedimento e dal numero di lavoratori optanti.

Per le imprese sopra i 50 addetti non cambierebbe nulla, diversa invece la situazione per le PMI che oggi non inviano il Tfr al Fondo Tfr. Per queste imprese si tratterebbe di una perdita netta di liquidità valutabile in circa11/12 mld, ma anche in questo caso la perdita effettiva dipenderebbe dalla volontarietà/obbligatorietà del trasferimento in busta paga.

E’ questo, in ogni caso, il problema principale che il governo deve risolvere: come evitare che l’operazione costituisca un costo per le PMI. Da qui il coinvolgimento dell’ABI nelle discussioni, nel tentativo di aggirare/risolvere tramite le banche il problema.

Se questo è il punto nodale da affrontare, ci sono tuttavia altri problemi e alcune considerazioni da fare. La proposta di mettere il Tfr in busta paga non è nuova. E’ una vecchia proposta Cgil (non per nulla tra i sostenitori odierni del provvedimento vi è Stefano Patriarca che la propose quando era all’interno della Cgil), ripresa in almeno due occasioni da Tremonti, ma mai attuata. Per Tremonti vi era anche, almeno nella versione hard del provvedimento, l’obiettivo di utilizzare la misura come entrata fiscale, assoggettando ad aliquota marginale il Tfr posto in busta paga in luogo della tassazione più bassa del Tfr.

Non è chiaro se anche in questo caso qualcuno in ambito governativo sia stato sfiorato dalla tentazione. Questo pare oggi escluso, per cui la tassazione delle quote di Tfr in busta paga sarebbero comunque tassate come il Tfr senza alcuna penalità per i lavoratori. Per lo stato resterebbe comunque il vantaggio di riscuotere subito imposte che sarebbero arrivate solo successivamente.

Il Tfr nasce come un’indennità di licenziamento e ancora oggi ha sovente una funzione di ammortizzatore sociale. La Rgs nella Rt del 2007 stima che la durata media di continuità nello stesso lavoro nel settore privato sia di 7 anni. Questo vuol dire che in molti casi il Tfr non è una somma percepita al momento del pensionamento, ma un’indennità frazionata nel tempo che molti lavoratori percepiscono ogni volta che cambiano datore di lavoro. E’ solo nel pubblico impiego, stante la pratica sicurezza del posto di lavoro, che il Trattamento di fine servizio ha un legame con l’intera vita lavorativa. Se in molti casi il Tfr ha quindi la funzione di sostegno al reddito in caso di perdita del lavoro, la sua anticipazione diminuisce questa funzione.

Una parte dei lavoratori ha oggi rinunciato a questa finalità utilizzando il Tfr (o parte di esso) per finanziare la previdenza integrativa. Se anche per questi lavoratori valesse il provvedimento del Tfr in busta paga è chiaro che l’anticipazione del Tfr confliggerebbe con la funzione previdenziale.

E’ chiaro che si tratta di esigenze/obiettivi diversi: aumentare subito la disponibilità di reddito, preservare la funzione di ammortizzatore sociale, preservare la funzione previdenziale. Verrebbe spontaneo dire, facciamo decidere ai diretti interessati, ma c’è chi si oppone a questa autonomia in nome del pericolo di azzardo sociale da parte dei lavoratori, notoriamente inclini alla dissipazione delle loro risorse.

In realtà già oggi la legge e gli statuti dei fondi pensione prevedono possibilità di derogare parzialmente e momentaneamente alla funzione di ammortizzatore sociale e a quella previdenziale. La legge sul Tfr prevede, infatti, che il lavoratore con almeno 8 anni di servizio presso la stessa azienda possa richiedere l’anticipo del 70% del Tfr accumulato per spese sanitarie, acquisto prima casa e per spese sostenute durante i periodi di congedo facoltativo per maternità e congedi per la formazione. L’impresa può limitare il numero dei beneficiari dell’anticipo entro il 10% degli aventi titolo (8 anni di anzianità) e comunque entro il 4% del totale dei dipendenti.

I fondi pensione vanno anche oltre. Fermo restando l’anzianità richiesta di 8 anni, oltre all’anticipo, con le stesse motivazioni, del 70% del montante maturato (non solo quindi del Tfr), possono chiedere, senza alcuna motivazione, l’anticipo del 30% del montante maturato. Da notare che questo allargamento della possibilità di anticipo rispetto al Tfr lasciato in azienda, è stato abbondantemente “usato” nella campagna per l’adesione ai fondi allo scattare della norma sul silenzio/assenso. 

A mio avviso è da qui che si deve partire per affrontare il problema: allargare le possibilità di anticipazione del Tfr in azienda o nei fondi pensione. La gravità della situazione economica, i problemi reddituali dei lavoratori possono giustificare un all’allargamento delle motivazioni per l’anticipo e un ridimensionamento dei requisiti per richiederlo.

Un “momentaneo” allargamento delle possibilità di anticipo non metterebbe in discussione, come non lo fanno gli anticipi già esistenti, le funzioni cui oggi il Tfr assolve. Inoltre questa soluzione risolverebbe all’origine ogni dubbio sulla tassazione. Gli anticipi sono tassati come il Tfr.

E’ ovvio che una scelta di questo tipo depotenzi di molto la proposta originaria di Renzi chiaramente rivolta a tutti i lavoratori. Ma un Tfr in busta paga per tutti, sia pure temporaneo, porrebbe le premesse per scardinare questo tipo di prestazione e conseguentemente anche la struttura attuale della previdenza complementare. Se ne può legittimamente discuterne, ma certo se si vuole fare questo occorre una riflessione e una discussione ben maggiore di quella affrettata che traspare dalle prime indicazioni di Renzi.

In assenza di questa riflessione meglio ripiegare su di un provvedimento che si basa sulla volontarietà e sull’allargamento della possibilità di anticipo, eliminando in primo luogo il limite degli otto anni di anzianità e le cause necessarie oggi richieste, dando così a tutti i lavoratori la possibilità di chiedere un’anticipazione del Tfr in azienda o nel fondo pensione per un periodi di tempo limitato. 

Se si parte da qui si potrebbe anche ampliare l’ammontare della quota del Tfr anticipato. Si possono fare diverse ipotesi: 

– Il Tfr maturando nell’anno, ma in questo caso, se erogato nei primi mesi dell’anno, si avrebbe un’anticipazione rispetto al 31/12.

– Il Tfr maturato nell’anno precedente (anche solo come riferimento quantitativo).

– L’anticipo potrebbe riguardare una parte del Tfr accumulato in azienda e una parte del montante accumulato nel Fondo pensione come già previsto oggi.

L’ultima ipotesi avrebbe il vantaggio di aumentare sensibilmente le risorse a disposizione dell’anticipo. Per tutte le ipotesi, in particolare ovviamente per l’ultima, resta da risolvere il problema dei costi per le imprese. Senza questa soluzione non si va da nessuna parte.

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