Il governo Letta è un governo più dovuto che voluto. Le forze politiche che lo sostengono non si amano di certo. Forse non si rispettano neanche. Ma sono obbligate a fare un percorso di questa legislatura, insieme. Le ragioni sono note ed è inutile elencarle. Ma non è detto che sia un governo che debba vivere “alla giornata”. Appare esposto agli umori e alle convenienze politiche, ma i partiti della maggioranza non godono di una salute di ferro. Il Pd ha un problema enorme di leadership e di visione politica; il Pdl è appeso al destino giudiziario del proprio Presidente. Il tempo dirà se il governo è più o meno fragile rispetto ai partiti che lo sostengono, ma ora è quanto meno pretestuoso considerarlo come canna al vento.
E’ questa indeterminatezza di “pesantezze” che – se non consente di guardare (ottimisticamente) oltre i 18 mesi previsti da Letta – gli consente di presentare un programma decisamente keynesiano sul piano economico e fortemente innovativo in fatto di riforme istituzionali e del costume politico. Un programma segnato dal significativo ancoraggio all’Europa e dall’accortezza verso la tenuta della coesione sociale. Infatti, ciò che vuole è stato espresso in modo molto esplicito e ben carico di valore prospettico. Soltanto l’idea di arginare la decrescita e di mobilitare tutte le risorse possibili per creare occupazione, ci fa uscire dalla morta gora della litania sul rigore e dal depressivo refrain “ l’Europa lo vuole ” .
Il problema è se può farcela. Non basta la volontà. Non a caso, la relazione svolta davanti alle due Camere praticamente non dice molto sull’equilibrio tra intenzioni di spesa pubblica e capacità di stanziamenti statali disponibili. C’è stato un tacito accordo a non precipitare indicazioni e soluzioni sul fronte del reperimento delle risorse necessarie per dare, nel breve tempo, almeno le risposte più urgenti alle aspettative di superare l’impantanamento dell’economia. Non è stato soltanto un modo gattopardesco per chiudere una fase complicata e in alcuni momenti decisamente brutta, dell’avvio di questa legislatura. Tutti sanno che queste risposte coinvolgono altri soggetti e presuppongono forti volontà politiche nostrane. Infatti, quel programma ambizioso dipende molto dall’Europa, dalle banche ma soprattutto dalle priorità che effettivamente verranno affrontate.
Innanzitutto l’Europa. Il governo Letta nasce decisamente europeista; ma godendo il vantaggio, rispetto a Monti, di avere alle spalle conti in ordine, può e deve esprimere una capacità negoziale risoluta per ottenere un allentamento di fatto del fiscal compact. Di più non si può sperare. Ormai ogni discorso di rilancio dell’Europa politica, della sua funzione di volano per invertire la rotta recessiva europea (Germania compresa) va calendarizzato a dopo le elezioni politiche tedesche. Rientrando dal rapido giro nelle principali capitali europee, Letta ha espresso un moderato ottimismo circa le risposte ottenute. Sarebbe la prima volta, in questi anni turbolenti, che l’Europa riesca a mostrare una faccia collaboratrice.
Dipende molto dalle banche, che non possono trasformare l’aiuto che arriva dalla Bce in un ulteriore aiuto al benessere dei propri bilanci, mantenendo a stecchetto le imprese. Il credito langue, oltre ogni ragionevole giustificazione. Non languono, invece, né i conti delle principali banche, né i benefits dei loro amministratori. E’ questa situazione che aggrava la stretta che ossessiona le imprese, che fa scendere in piazza, assieme, imprenditori e lavoratori, che fa chiudere aziende che hanno ordini in portafoglio. Alla lunga, è tutto ingiustificabile, specie se produce un effetto di crescente e visibile ineguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Ora che come Ministro dell’economia c’è uno che di banche se ne intende, non può bere nessuna favoletta ma deve sottoporre il sistema bancario ad un controllo finalizzato allo sviluppo dell’economia. E ciò anche nel loro interesse, se non vogliono che si allunghi a dismisura la lista dei fallimenti e degli insoluti, con conseguenze negative anche sui loro bilanci.
Ed infine, dipende dalla lista di priorità degli interventi pubblici che il governo riuscirà a definire. La penosa scena di un 1° maggio durante il quale, nel Palazzo, si litigava sull’Imu, mentre la gente nelle piazze chiedeva lavoro, la dice lunga sulle difficoltà incombenti. Il lavoro non è una priorità tra le altre; se appena lo si considerasse tale, scivolerebbe inevitabilmente in seconda, terza fila e perderebbe di urgenza, di essenzialità. C’è un solo modo per dimostrarlo: trovando soldi per rifinanziare la CIG in deroga, per dare una risposta agli esodati e per fare un programma per il lavoro giovanile. Snodata positivamente questa matassa, si possono affrontare altre esigenze, come quella dell’Imu. Non viceversa. Questa è la prova più ardua che dovrà affrontare il governo Letta: far prevalere gli interessi della maggior parte dei cittadini italiani, su quelli che hanno caratterizzato la campagna elettorale.
Sempre di più, diventa chiaro che c’è un intreccio tra dimensione europea e quella nazionale per trovare soluzioni soddisfacenti per la crisi economica e sociale. Ma spesso questo intreccio è stato assunto o per criminalizzare Bruxelles, o per giustificare l’immobilismo nazionale. I tempi sono così tiranni da pretendere che non si prosegua in questo gioco allo scaricabarile. Questo è un punto di forza per il governo Letta, quello che potrà fargli dire “voglio e posso”. Glielo auguriamo, anche per depotenziare l’originario vulnus che lo caratterizza: quello di essere il governo che nessuno ha veramente votato nelle elezioni politiche, ma che la forza delle urgenze e dei bisogni ha imposto come unica, temporanea soluzione.