In questi giorni studenti e famiglie sono chiamati a fare una scelta che, inutile girarci attorno, inciderà in maniera decisiva sul loro futuro: la scelta scolastica. Questa scelta, non è un mistero, è spesso affrontata senza nessuna informazione di contesto, e, spesso, nasce più dalla cristallizzazione di luoghi comuni che dalla reale capacità di connettere le vocazioni e i talenti degli studenti con i rapidi cambiamenti (soprattutto produttivi) a cui la nostra società è sottoposta. Non sorprende il dato pubblicato qualche mese fa da un sondaggio di Almalaurea che rivela come 42 diplomati su 100 si dicano pentiti della scelta scolastica e cambierebbero l’indirizzo di studio se tornassero ai tempi dell’iscrizione alla scuola superiore.
La mancata connessione tra scuola e lavoro è uno dei fattori principali della disoccupazione giovanile. Lo scorso anno il Rapporto McKinsey “StudioErgoLavoro” aveva rilevato che il 40% della disoccupazione nasce proprio perché i giovani non incontrano il lavoro a scuola e di fatto gli è negato il diritto di imparare lavorando. Il Paese deve rendersi conto che non possiamo più permetterci una scuola che crei disoccupazione.
Eppure resta ancora diffusa la concezione antiquata di una scuola che serve soltanto a creare buoni cittadini ed efficienti lavoratori. Una concezione che non tiene conto di una società della conoscenza che chiede invece persone competenti, pensanti ma capaci di concretezza, in grado di programmare il futuro a lungo termine ma anche di essere elastici e reattivi nel breve periodo.
Non è un problema di scelta tra licei, istituti tecnici e istituti professionali. Bisogna ripudiare questo tentativo di creare contrapposizioni tra diversi percorsi del nostro sistema educativo. Il problema è scegliere tra scuole che sono aperte al lavoro e scuole che sono chiuse al lavoro.
Una scuola aperta al lavoro in concreto è una scuola che organizza stage per gli studenti e per gli insegnanti, collaborazioni didattiche con le imprese, una didattica laboratoriale e personalizzata, un uso efficace degli strumenti informatici che permette agli insegnanti non soltanto di veicolare nozioni, ma di dare agli studenti la capacità di trovarle da soli grazie anche alle nuove tecnologie.
In altre parole, i giovani e le famiglie dovrebbero scegliere una scuola che si apre alle competenze, concetto che unisce insieme mani e ingegno, capacità di risolvere problemi, di trovare le giuste domande prima delle giuste risposte. Meno una scuola è autoreferenziale, più i giovani avranno un ampio ventaglio di opportunità, lavorative e non solo, su cui costruire il loro futuro.
Tutto questo nasce quando non si pone una cortina di ferro tra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica. Anche se, bisogna ammetterlo, la “liceizzazione” del nostro Paese non ha portato grandi giovamenti al nostro tessuto produttivo che si è visto progressivamente depauperare di migliaia di figure tecnico-professionali. Così mentre il Paese e le sue industrie chiedevano tecnici, i nostri studenti preferivano i licei. E questa richiesta, nonostante la crisi, resta ancora insoddisfatta. Non a caso Unioncamere, nel suo ultimo Rapporto Excelsior, rileva che alle imprese italiane non trovano 25mila figure tecniche di cui hanno urgente bisogno.
È il noto fenomeno del mismatch che è la dimostrazione di come la disoccupazione non sia solo un problema legato alla crisi congiunturale, ma una piaga strutturale dovuta al mancato collegamento tra sistema educativo e fabbisogni produttivi del Paese.
Tra i diplomati oggi sono introvabili i disegnatori tecnici, gli sviluppatori di software, i tecnici dell’agro-alimentare ed in particolare gli addetti alla green economy, settore che sta mostrando forti livelli di crescita ormai da qualche anno. Ma mancano all’appello anche lavoratori tipici del mercato interno (è il caso degli edili e dei turistico-alberghieri). L’istruzione tecnica deve dunque poter ritrovare il suo spazio nelle scelte dei giovani perché è maggiormente orientata alla loro occupabilità, così come mostra il recente sondaggio di Almadiploma: 38 diplomati tecnici su 100 lavorano già dopo un anno dal diploma.
Giovani e famiglie devono scegliere percorsi e scuole che più offrono competenze e più aprono la via al lavoro. Queste competenze si possono acquisire in un liceo classico così come in un istituto professionale. Nei nostri territori l’eccellenza di una scuola va commisurata e valutata in base a quante connessioni con l’esterno riesce ad aprire, in particolare alle connessioni con le imprese.
Oggi abbiamo strumenti formativi molto efficaci, su tutti l’apprendistato, che consentono alle scuole di realizzare percorsi di studio-lavoro durante l’orario scolastico: molto interessante in questo senso la sperimentazione dell’Enel in 7 istituti tecnici elettrici del Paese (con i primi 145 studenti-apprendisti coinvolti) che mostra quanto scuole e imprese possano dare opportunità concrete ai giovani.
Bisogna allora orientare i ragazzi verso le scuole che insegnano a lavorare in squadra, ad aprirsi all’Europa e al mondo, a potenziare le loro naturali life-skills e la loro capacità di problem setting e problem solving. Bisogna orientare verso le scuole che insegnano a fare impresa, a diventare imprenditori, a mettersi in gioco e a non temere il futuro.
(*) Direttore Education di Confindustria