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Il danno all’immagine della pubblica amministrazione

Quando si parla di giustizia “civile”, si possono intendere sia i giudizi con cui si decidono le controversie di carattere privato ( quali che siano i soggetti in causa ), sia i giudizi che si contrappongono a quelli penali che, hanno per l’appunto una sanzione di carattere penale.
La giurisdizione della Corte dei conti, cui la costituzione all’art. 103, demanda la giurisdizione su materie di contabilità pubblica e sulle altre materie stabilite dalla legge, non si può far rientrare nella prima categoria, in quanto non decide su controversie fra privati, ma ha un carattere “ civile” in quanto applica sanzioni che non sono di natura penale.

 

La sanzione corrente, quando la procura della stessa Corte dei conti, promuove il giudizio, è quella del risarcimento monetario , nei casi in cui per dolo o colpa grave, il convenuto abbia cagionato un danno alla pubblica amministrazione.

Questa questione è di grande rilievo sotto il profilo della valutazione sull’efficacia della giustizia civile, in quanto interviene sulla “qualità” del comportamento giudicato dalla Corte dei conti. Infatti, se l’ambito dell’intervento fosse sostanzialmente limitato al risarcimento monetario, i trasgressori non sarebbero particolarmente “minacciati” dal compiere l’azione illegale.

In altri termini, la questione che si pone è se la sanzione possa consistere nel risarcimento, oltre che del danno materiale subito dall’amministrazione, anche del danno “morale” causato alla sua immagine presso la comunità dei cittadini (si pensi, ad esempio, al disdoro che deriva all’immagine della stessa amministrazione quando si

accertano e hanno pubblica notorietà episodi di corruzione).

Questo tipo di sanzione non era previsto direttamente dalla legge, ma era stato il frutto dell’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Cassazione fatta poi propria anche dalla Corte dei conti.

Sennonché la Corte dei conti aveva dato un’interpretazione eccessiva del danno all’immagine, attraendo in essa anche comportamenti che non erano classificabili come reato.

Intervenne allora il legislatore stabilendo ( d.l. n 203 del 2009, convertito nella l. n.141 del 2009) che le procure della Corte dei conti potevano esercitare l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi previsti dall’art 7 della legge n. 97 del 2001.

Tale ultima legge fa riferimento ai reati contro la pubblica amministrazione commessi da pubblici funzionari ( capo I, titolo II del libro secondo del codice penale ), ma anche a qualsiasi altro tipo di reato per l’espresso richiamo all’art. 129 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale.

Quindi sia per il riferimento letterale, sia per ragioni di carattere sistematico ( su cui però non è il caso di soffermarsi in questa sede ), doveva dedursi che l’unico limite che era stato posto all’esercizio dell’azione per danno all’immagine, era che si trattasse di comportamento antigiuridico che avesse ad oggetto la commissione di un reato.

Stranamente, fatta eccezione per una decisione della sezione regionale Lazio del 2009 , e poi nello stesso senso della sezione Lombardia e della sezione Toscana, la giurisprudenza della Corte dei conti accolse quasi unanimemente la tesi che era contestabile il danno all’immagine soltanto nel caso di reati commessi da pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.

Ed alcune sezioni, dando per scontato questa (infondata) restrittiva interpretazione, erano ricorse anche alla Corte Costituzionale ritenendo che ciò fosse lesivo delle

prerogative della Corte dei conti.

La Corte Costituzionale non si pose il problema se l’interpretazione riduttiva di chi aveva sollevato la questione fosse errata, ma adottò una decisione di rigetto ( set. n.355 del 2010) stabilendo che era in facoltà del legislatore porre un limite all’azione della Corte dei conti.

Questa decisione diede ulteriore impulso a quasi tutte le sezione della Corte dei conti perinsistere in quella interpretazione ristretta e riduttiva delle norme di cui si è detto.

Ma avverso questo orientamento, che ingiustificatamente poneva un forte limite a perseguire comportamenti illeciti lesivi dell’immagine dell’amministrazione, sono intervenute le sezioni di appello.

Anzitutto la terza sezione d’appello (sent. n. 286 del 2012),ma, poi, soprattutto la prima sezione d’appello con l’ ampia e approfondita sentenza n. 809 del 2012.

In essa si chiarisce preliminarmente che la citata sentenza della Corte Costituzionale essendo di rigetto, determina (a differenza delle sentenze di accoglimento ) un vincolo solo per il giudice che aveva sollevato la questione, mentre negli altri procedimenti il giudice conserva il potere-dovere di interpretare in piena autonomia la norma contestata.

Ebbene, nel merito, la sezione d’appello ha stabilito che la Corte dei conti ben può pronunciare sentenza di condanna al risarcimento di un danno all’immagine, anche dopo l’intervento limitativo del legislatore di cui sopra si è detto, quale che sia il tipo di reato contestato.

La novella introdotta dal legislatore – sottolinea il giudice d’appello – “ non indica direttamente i casi in cui può essere esercitata l’azione contabile per danno all’immagine, ma rinvia ai “casi” e ai “modi” previsti dall’art. 7 della legge n. 97 del 2001; tale riferimento implica, da un lato, la comunicazione al p.m. contabile della sentenza irrevocabile di condanna per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti dal capo I, titolo II, del libro II del codice penale ( i “ casi” indicati dalla norma ) e, dall’altro, l’obbligo per il p.m. penale di comunicare al p.m. contabile, ex art. 129 delle disposizioni di attuazione del c.p.p., l’esercizio dell’azione penale per i reati di qualsiasi natura, che abbiano cagionato un danno all’erario ( i “modi” indicati dal medesimo legislatore “ .

La sentenza conclude pertanto che “ una limitazione del numero o della tipologia di reati suscettibili in astratto di causare danno all’immagine della p.a. non sarebbe né ragionevole, né corretta “

(*) Corte dei Conti

Le carenze strutturali non si risolvono con misure temporanee

di Luciano Silvestri (*)

Sulla Giustizia e sulla drammatica difficoltà ad affrontare e risolvere in tempi “ragionevoli” il contenzioso giudiziario si è parlato molto, ma si è agito poco e male.

Ultimo esempio di ciò è il DL C. 1248, proposto dal Governo senza alcun confronto preventivo con le diverse organizzazioni rappresentative, a vario titolo, del pianeta Giustizia, ne è una chiara dimostrazione.

Le carenze strutturali del settore non sono altro che il frutto di politiche sbagliate che, attraverso la mancanza di investimenti e il blocco delle assunzioni, hanno creato circa 7000 carenze di organico: un vuoto talmente grande, da far escludere il personale dell’ Amministrazione Giudiziaria, dalla spending review del precedente Governo Monti. Se non si parte da questa “banale” ma purtroppo molto pesante situazione,nessuna soluzione potrà essere in alcun modo efficace.

Per l’ennesima volta si ricorrere invece a misure tampone e nella fattispecie a figure temporanee e non strutturali, attraverso le quali si pensa di recuperare persone che sopperiscano al lavoro che gli uffici non riescono a smaltire. Questa previsione degli stagisti è stata più volte ventilata in varie leggi ed oggi torna con una vera istituzionalizzazione di “lavoratori temporanei” all’interno degli uffici. Figure che dovrebbero essere formate dai magistrati, come dice la legge, ma che tutti sappiamo, per precedenti esperienze sul tirocinio e sulle collaborazioni, di fatto vanno a lavorare afianco dei lavoratori interni sui quali ricadrà inevitabilmente il compito di seguire la “formazione”. Abbiamo, infatti, qualche difficoltà ad immaginare che i magistrati, che da queste figure di meritevoli laureati dovrebbero essere supportati, si incarichino, come prevede la legge, dell’attività di formazione. Ed è chiaro che le condizioni di lavoro del personale interno, anziano, stanco ed al limite della sopportazione, non permette altri eventuali incarichi, né intralci all’ attività.

E’ chiaro e questo evidentemente ha preoccupato in qualche misura il legislatore, che vi sono anche gravi motivi di incompatibilità tra queste figure, che possono essere anche praticanti avvocati, e la riservatezza e la sicurezza degli atti giudiziari. E a nostro avviso non sono affatto sufficienti le norme di cui al comma 6 e 7, per non parlare del contenuto di cui al comma 10 che nella parte finale recita ” Il contestuale svolgimento del tirocinio per l’accesso alla professione forense non impedisce all’avvocato presso il quale il tirocinio si svolge di esercitare l’attività professionale innanzi al magistrato formatore”. Noi concordiamo con alcune illustri analisti i quali sostengono che “la giustizia contribuisce al buon funzionamento dell’economia e che influisce sul nostro PIL”. Proprio per questo crediamo che sia il momento, in tempi di crisi economica e per rispondere seriamente alle raccomandazioni di Bruxelles a seguito della chiusura della procedura di infrazione, di mettere mano ad una seria riforma organizzativa della giustizia che non può che passare per la valorizzazione del personale interno e per un piano di assunzioni di giovani laureati qualificati che vengano inseriti in pianta stabile all’interno degli uffici, anche con la nuova figura professionale da noi proposta con l’Ufficio per il Processo.

La CGIL, come sapete, ha predisposto un piano per il lavoro che dice che si deve creare buona occupazione e rendere migliore l’intervento pubblico: la nostra proposta garantendo alta professionalità e lanciando un piano di nuove assunzioni per l’ingresso di giovani qualificati nell’amministrazione della giustizia, contribuirebbe alla crescita del Paese.

Pertanto, a differenza di quanto si dice nel DL in questione, noi pensiamo si debba innanzitutto fare una distinzione netta tra gli aspetti relativi ai tirocini, alla loro funzione formativa e abilitante per l’accesso alle professioni, e la necessità di individuare delle misure efficaci in merito agli aspetti che riguardano la soluzione dei carichi di lavoro e dello smaltimento delle pratiche giacenti; su questo ultimo punto, al contempo, è necessario operare da subito nella direzione da noi indicata, e cioè di una riqualificazione del personale esistente e di una riorganizzazione degli uffici, anche attraverso l’inserimento di nuove e giovani figure professionali. Ricordiamo, inoltre, che la disciplina in merito agli stage e tirocini è in continua evoluzione con l’obiettivo, dichiarato dal legislatore, di limitarne gli abusi e di evitare che tirocinanti e stagisti svolgano lavoro subordinato in sostituzione degli organici necessari per l’organizzazione dei processi produttivi e del lavoro delle amministrazioni.

In relazione agli altri punti dedicati alla giustizia riteniamo che alcuni possano avere ricadute negative sull’organizzazione. In particolare l’art. 80 che tende ad ‘accorpare’ i fori competenti in materia civile per le società con sede all’estero nelle sedi di Milano, Roma e Napoli. Senza entrare nel merito della costituzionalità di tale norma, segnaliamo che si tratta di uffici con gravissime carenze di organico e un carico di lavoro molto elevato: altri carichi aggiuntivi risulterebbero certamente insopportabili per il corretto svolgimento delle attività.

Sulla mediazione civile obbligatoria ribadiamo quanto da noi da tempo sostenuto; ovvero che si tratta di una misura importante per la deflazione delle cause civili, ma che proprio per questo andrebbe adeguatamente normata, in modo da dare al cittadino, attraverso un’ulteriore valorizzazione e qualificazione del personale interno, maggiori garanzie di efficacia e di serietà.

Insomma, se non si interviene in maniera organica, rapida, con investimenti tecnologici e sul personale è difficile pensare di poter fare seri passi avanti nella direzione di un concreto abbattimento dei tempi della giustizia,che è un diritto del cittadino e una garanzia democratica.

*Resp. Legalità e Sicurezza Cgil Nazionale

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