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La crisi della giustizia civile, una minaccia per la ripresa

Immaginate di essere un industriale straniero che voglia investire in Italia. Ovviamente, soppesate molti fattori: costo della manodopera, livello delle infrastrutture, possibilità di usufruire di incentivi, dinamiche della tassazione. Ma se siete veramente accorti, vi ponete un ulteriore problema: in caso di problemi con i clienti, quali sono i tempi per il recupero dei crediti?
Da tempo, gli studiosi di economia e di diritto dell’economia stanno studiando in maniera analitica il livello di efficienza della giustizia come fattore che direttamente influenza il benessere.

Ed il motivo è, in realtà, assai semplice: una giustizia rapida ed efficace scoraggia gli inadempimenti e di conseguenza estromette con rapidità dal mercato gli operatori inefficienti, avvantaggiando contemporaneamente quelli più onesti e capaci. Al contempo – e qui ritorno all’esempio dal quale sono partito – la possibilità di rapida risoluzione delle controversie incoraggia gli investimenti dall’estero.

Come sin troppo noto, l’Italia da questo punto di vista è il fanalino di coda dei paesi occidentali. L’ultimo studio, al riguardo, è quello dell’OCSE (What makes civil justice effective?, in OECD Policy Notes, no. 18, Giugno 2013). I dati sono spietati: per il primo grado, sono necessari meno di 200 giorni in Giappone, circa 600 in Italia. Per il secondo grado, a fronte dei virtuosi 50 giorni circa della Polonia, non bastano 1100 giorni in Italia, che poi diventano 1200 per il giudizio di Cassazione (contro i 100 circa del Portogallo). In totale, un processo in Italia dura dunque circa 2900 giorni o, se si preferisce, poco meno di 8 anni, a fronte dell’anno e tre mesi della Svizzera.

Sono cifre che non esito a definire drammatiche, tanto più ove si consideri che queste non tengono poi conto delle ulteriori inefficienze in alcune aree del Paese. L’agenda di chi scrive, ad esempio, ha già “inaugurata” la pagina dedicata all’anno 2017, quando, nel mese di ottobre, verrà discussa una causa in Corte d’Appello la cui prima udienza si è celebrata lo scorso mese (mentre il giudizio è stato introdotto addirittura a gennaio).

Al di là del cahier des doléances, penso sia di interesse interrogarsi anzitutto sul perché di questo stato di inefficienza. Ebbene, a mio modesto avviso, tre sono i fattori principali che ne sono causa: la carenza di organico del sistema di giustizia, la struttura del codice di procedura civile e, infine (ma non da ultimo per importanza) l’elevatissimo tasso di litigiosità degli Italiani.

Cominciamo allora ad analizzare questi fattori.

Il primo è quello che più intuitivamente influisce sulla durata dei processi: a fronte di una spesa per abitante destinata al finanziamento delle Corti relativamente alta (50,3 €, quasi il doppio dell’Inghilterra, in base al rapporto 2012 del CEPEJ (Commissione Europea per l’Efficacia della Giustizia)) il numero degli addetti alla giustizia è basso: 56,8 per 100.000 abitanti, contro una media UE di 103,7 (fonte: CEPEJ, The functioning of judicial systems and the situation of the economy in the European Union Member States, 15.1.2013).

Spesa alta, ma poco personale: sintomo estremo di inefficienza del sistema. Il risultato è un altissimo numero di procedimenti che ciascun giudice deve decidere, con conseguente, comprensibile allungamento dei tempi dei procedimenti e/o scadimento della qualità delle decisioni.

Il secondo fattore, quello, ossia relativo all’impianto del codice di rito, è stato più volte affrontato dal legislatore, a volte con esiti solo parzialmente favorevoli, altre con esiti disastrosi.

Bisogna partire dalla considerazione iniziale che il codice di procedura civile è stato emanato nel 1940, in un epoca infinitamente diversa da quella attuale, quando le strutture della giustizia erano più snelle ma soprattutto, per motivi anagrafici, economici e culturali, il numero di procedimenti era di parecchi ordini di grandezza inferiore a quello attuale. Nel corso degli anni, a partire dal dopoguerra, si è reso dunque più volte necessario rivedere alcune norme, via via stravolgendo l’impianto iniziale, spesso senza preoccuparsi troppo della coerenza del risultato finale.

In particolare, a partire soprattutto dagli anni ’90, si è agito cercando di ridurre il numero di udienze necessarie a definire il procedimento, senza però avere il coraggio di spingere alle conseguenze estreme (ma logiche) tale intervento. Il risultato è che, in primo grado, non è in pratica possibile, salvo casi estremi, che un procedimento civile ordinario venga deciso in meno di tre udienze.

Né, come accennavo, altre riforme intervenute (a partire da quella, disgraziata e presto abrogata, del c.d. rito societario) hanno migliorato la situazione. L’ultima strada tentata, quella dell’introduzione della mediazione obbligatoria, che propone in pratica un filtro conciliativo precontenzioso ai procedimenti civili, non mi sembra potrà avere successo, per i motivi che spiegherò in seguito.

Rimane l’ultimo nodo da sciogliere: quello culturale. Che è quello, comprensibilmente, al tempo stesso più determinante ma anche più difficile da affrontare. In Italia vi sono quasi 4.000 procedimenti per abitante, il doppio rispetto alla Germania e ben più della media europea di circa 2.700. Chi frequenti il Tribunale di Roma sa che ben due sezioni sulle tredici ordinarie debbono in gran parte occuparsi solo della materia dei sinistri stradali, mentre una si dedica quasi esclusivamente alle cause tra condomini. I motivi di questa litigiosità sono stati spesso oggetto di studi sociologici: tanto per fare un esempio, lastessa struttura tipica delle abitazioni, ove il modello del condominio è di gran lunga prevalente rispetto a quello della casa unifamiliare, favorisce l’insorgere di liti. Ma al di là di questo, nel più classico dei circoli viziosi, è proprio la lentezza della giustizia ad alimentare le liti: si subiscono le cause, perché questo è un modo per procrastinare per mesi se non per anni il momento in cui si sarà costretti ad adempiere ad una obbligazione. Questa insolvenza consapevole e per certi aspetti volontaria aumenta il numero delle cause, e dunque il contenzioso pendente, rallentando ancor più i tempi di definizione dei processi, e così via.

Da questo punto di vista, è evidente che introdurre forme di mediazione obbligatoria non può risolvere il problema, ma rischia anzi di aggravarlo. La scarsa propensione conciliativa degli Italiani, infatti, viene a sovrapporsi con la tendenza a cercare proprio la lite come mezzo improprio di posticipazione dell’adempimento dell’obbligazione; ed allora, introdurre una fase precontenziosa obbligatoria non fa altro che allungare ulteriormente i tempo per arrivare alla sentenza, ed alimenta dunque il contenzioso, anziché deflazionarlo.

In un quadro che è dunque tutt’altro che confortante, provo a delineare alcune possibili vie d’uscita.

Anzitutto, occorre a mio avviso investire sulla giustizia. Purtroppo, la gestione recente dell’economia italiana è stata improntata a prospettive di breve periodo, in grado di alimentare nell’immediato flussi positivi di cassa, ma si è poco concentrata su quelle voci (istruzione, ricerca e, per l’appunto, giustizia) che producono effetti benefici sul PIL, ma nel medio-lungo periodo. Bisogna dunque ribaltare totalmente questa prospettiva, come altri Paesi europei hanno fatto.

Ma investire in giustizia non significa ricorrere a provvedimenti tampone, come quello del reclutamento di giudici temporanei o straordinari per smaltire l’arretrato. Occorre viceversa ampliare l’organico stabile dei magistrati e del personale ausiliario, che possa in maniera definitiva far fronte non solo alle cause già pendenti, ma anche a quelle che verranno introdotte in futuro.

Secondariamente, bisogna mettere mano ad una riforma radicale del codice di procedura civile, che consenta, pur nel rispetto del principio del contraddittorio, di abbreviare i termini processuali.

Un esempio? Eliminare l’udienza di prima comparizione nel primo grado, che attualmente è dedicata quasi esclusivamente alla semplice assegnazione dei termini per la precisazione delle domande e per l’articolazione dei mezzi istruttori. Anticipare dunque tali termini, in modo che già alla prima udienza il giudice sia in grado di decidere sull’ammissione dei mezzi di prova e, se ritiene che non vi sia necessità di ammetterli, trattenere immediatamente la causa in decisione. Un altro esempio? In grado di appello, ove la prima udienza normalmente serve solo a fissare l’udienza di precisazione definitiva delle conclusioni, stabilire che alla prima udienza la causa venga direttamente trattenuta in decisione, salvo si ritenga necessaria una istruttoria.

Un altro fronte su cui si può intervenire è quello della liquidazione delle spese di lite, che deve essere (ma su questo punto qualche timido tentativo il legislatore lo sta facendo) giustamente penalizzante per la parte che abbia resistito in giudizio al solo scopo, più o meno palese, di ritardare l’adempimento delle proprie obbligazioni.

Resta allora da affrontare il profilo culturale. Su questo i margini di azione sono assai più ridotti, ma a mio avviso un’azione efficace – e comunque in generale essenziale anche per altri motivi – è rafforzare l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole, trasformandolo, anche nel nome, in “Educazione alla legalità”. Forse non sarà sufficiente a risolvere un problema che ha radici profonde, ma rappresenterà comunque un significativo passo nella giusta direzione.

(*) Partner, Lemme Avvocati associati – Professore straordinario di Diritto Bancario nell’Università di Modena e Reggio Emilia

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