I temi in discussione sono di certo complessi, ma hanno il pregio di comprendere tutto il ventaglio di questioni che oggi si muovono attorno al mondo del welfare.
E mi sembra molto giusto che si parta dalla questione del bilancio e della sua trasparenza. Perché si è fatto in questi mesi un gran parlare del bilancio dell’Inps non avendo sempre chiari i termini del dibattito.
Per essere comprensibile: cos’è il bilancio dell’Inps? È un bilancio che ha una massa finanziaria amministrata di circa 700 miliardi di euro, secondo per volume soltanto allo stesso bilancio dello Stato, la cui voce dei trattamenti pensionistici è pari a circa il 24% del Pil.
È chiaro che un tale impegno finanziario dello Stato debba prevedere assolutamente chiarezza e trasparenza a partire dalla sua redazione.
Nei mesi scorsi c’è stata una polemica sui giornali, su quali erano le reali conseguenze sul risultato di bilancio dell’Inps, a seguito dell’acquisizione della gestione dei trattamenti dei lavoratori attivi e dei pensionati del settore pubblico, con
l’incorporazione dell’Inpdap e dell’Enpals.
In questo caso si è verificata una straordinaria confusione, ed in effetti non si è potuto affermare che “il bilancio dell’Inpdap è un bilancio in deficit perché venivano sperperati i soldi” perché non è vero, perché l’Inpdap aveva una sua storia del tutto particolare.
Nel momento in cui nasce, all’inizio degli anni Novanta, non ha potuto ereditare contributi dai vari fondi perché i contributi si cominciano ad accantonare in quel momento e, in alcuni casi vengono effettivamente versati, in altri casi sono dei contributi del tutto virtuali.
Quindi è chiaro che il debito di cui è portatore l’Inpdap è un debito assolutamente strutturale, dovuto alla storia del nostro Paese.
E per questo occorre elaborare un bilancio il più trasparente e completo possibile, che tenga conto delle specificità e della storia dei diversi fondi che lo compongono.
Oggi dove sono i problemi? I problemi sono sicuramente in questo dato strutturale e storico degli accantonamenti e dei relativi trattamenti previdenziali delle lavoratrici e dei lavoratori del pubblico impiego.
Non c’è un problema che riguarda il fondo dei lavoratori dipendenti se non nella sezione che riguarda l’ex Inpdai, cioè i dirigenti d’azienda, con tutte le vicende che si sono accavallate (le superpensioni etc.).
C’è una parte che riguarda i lavoratori autonomi, commercianti e artigiani, che dopo anni di attivo (ma l’attivo era dovuto al fatto che i lavoratori e le lavoratrici non andavano in pensione) cominciano ad avere una fase di rosso (ma, ribadisco, quando parliamo di queste cose dobbiamo parlarne sempre in chiave storica).
Il bilancio del fondo dei lavoratori dell’agricoltura e dei coltivatori diretti è invece assolutamente sbilanciato. E anche in questo caso bisogna valutare questo aspetto in chiave storica.
Negli anni Cinquanta e nel decennio successivo al miracolo economico ha tratto ricchezza da quanto proveniva dalle campagne italiane. Non c’è dubbio, però, che c’è un problema – ad esempio – di contribuzione per quanto riguarda le lavoratrici e i lavoratori autonomi: siano essi commercianti, siano essi artigiani, siano essi coltivatori diretti. Infatti, essendo così bassa la percentuale di contribuzione, si delinea chiaramente una situazione che vedrà a breve un Paese con una sempre più alta percentuale di pensionati poveri.
Vicenda assolutamente diversa è quella dei lavoratori dipendenti: se immaginiamo un lavoratore dipendente che dai 18 anni in avanti ha un rapporto di lavoro continuativo, con il nuovo meccanismo che noi abbiamo, ci collocheremmo nei livelli medio-alti dell’Europa.
Allora il problema non è il sistema pensionistico per il lavoratore dipendente, il problema è il mercato del lavoro, l’enorme quantità di anni di precariato che un giovane ha inquesto Paese.
Quindi dovremmo fare in modo di avere un bilancio dell’Inps che sempre più si deve caratterizzare sulla base delle specificità. Credo che, a tal fine, bisognerebbe far sempre più riferimento alla legislazione che c’è e che dispone: “ebbene i fondi hanno l’obbligo, nel momento in cui sono in sbilancio, di avanzare delle proposte di come sanare questo sbilancio”. Perché i fondi non possono essere solo i notai della situazione. Quindi, in quest’ottica, sarebbe opportuno che sia il fondo commercianti sia il fondo artigiani avanzassero delle proposte in tal senso e se ne assumessero la responsabilità.
Credo che debbano essere previsti dei nuovi fondi, che riguardano le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo e della cultura, le lavoratrici e i lavoratori dello sport. Parlo di due fondi che devono essere istituiti e che saranno fondi in attivo e che forse, alla luce dei dati attuali, ci porterà a rivedere anche certe decisioni legislative.
Ad esempio, i lavoratori dello spettacolo hanno gradito l’abolizione del Regio Decreto che non concedeva loro l’indennità di disoccupazione. È anche vero però che mi sembra molto difficile individuare una figura di lavoratrice o di lavoratore dello spettacolo il cui rapporto di lavoro rientri nei termini per potere avere il trattamento di disoccupazione. In altre parole, quanti operatori dello spettacolo posseggono 54 settimane di versamento in due anni? Non credo ce ne siano molti.
Allora forse bisognerà guardare con molta attenzione alcune tipologie di lavori, alcune nuove realtà e vedere come intervenire.
Nello sport, la maggior parte dei contribuenti è composta da coloro che fanno una vita da mediano, e che quindi quando andranno in pensione godranno di un trattamento molto basso.
Va poi introdotto un sistema che ci permetta di essere molto più attenti sul piano delle entrate. Ora se il calcio ha risolto i problemi con meccanismi che possono ricordare il Durc, il ciclismo queste cose non le ha fatte: piccoli o grandi campioni in Italia, sono tutti assunti attraverso società estere, quindi evadono i contributi previdenziali. Quindi anche per sport ricchi come il ciclismo, il motociclismo, la formula 1 etc., bisogna prevedere delle modalità di registrazione ai campionati ed alle gare che si tengono sul territorio nazionale per garantire il versamento dei contributi.
Per ultimo, sul bilancio, va fatto un ripensamento su una questione che ha stimolato molto la fantasia di tanti che è la Centrale Unica degli Acquisti, vista come un elemento di semplificazione: io credo, sulla base di una esperienza, di una lettura laica della cosa, che tale scelta non rappresenti una semplificazione, e comunque allontani i dirigenti dalla responsabilità delle scelte e dei controlli.
Per essere più precisi, si rischia di creare una dicotomia tra dirigenti che hanno – per contratto – responsabilità dirette, da dirigenti che non ne hanno. Ecco, questi aspetti io credo che vadano rivisti con maggiore attenzione, perché non stiamo parlando di dettagli; solo nel settore informatico – ad esempio – annualmente il bilancio dell’Inps è
di oltre 400 milioni di euro.
Alla fine riprenderò la questione del bilancio, perché metto il problema del bilancio in stretta relazione al nuovo modello di governance.
Ora questa grande Inps e questa nuova Inps a che punto è?
Io credo che siamo in straordinario ritardo. Diciamocelo molto francamente, non si è fatto nulla. Si è fatto qualcosa, ma si è trattato di piccolissimi interventi di facciata. Gli obiettivi di risparmio assegnati dalla stessa legge di unificazione non sono stati raggiunti. In fondo, 20 milioni di risparmio in un bilancio di quelle dimensioni è facilissimo trovarli.
Ma quali sono gli elementi di novità? E come possiamo rendere più omogenea la situazione?
Non c’è dubbio che bisogna intervenire sulle questioni pensionistiche, e lì interviene il collegio.
Poi c’è il quotidiano: quindi l’utente. Se oggi un impiegato pubblico, un pensionato pubblico va in un ufficio Inps, difficilmente riceverà una risposta ai suoi problemi. Ed inoltre, l’Istituto così com’è ha una dimensione che non è costruita sulla distribuzione della popolazione “dipendente pubblico”. E sono diverse anche le aspettative che ha un utente che viene dal settore privato e un utente che viene dal settore pubblico.
In questo quadro, a fronte di questo genere di problematiche, ciò che abbiamo rivendicato con molta forza lo abbiamo affrontato nella nostra attività sindacale.
E come lo abbiamo affrontato? Costruendo un piano industriale, al cui interno si teneva tutto ciò che doveva essere offerto, dove si teneva il lavoro e dove ci si sforzava di introdurre elementi di novità.
Allora, a un anno di distanza, è possibile che questo piano industriale non esista? Partiamo quindi dalla consapevolezza che si è perso un anno.
E come lo si costruisce un piano industriale? E’ certamente più complicato delle cose con cui in passato ci siamo misurati; perché noi ci misuravamo con una serie di parametri e di elementi.
L’Inps, ente previdenziale, distribuisce diritti di cittadinanza, e quindi lo stesso know how per riallocarsi nel territorio non è facile a trovarsi, anche dal più grande ufficio studi del mondo. Perché i parametri sono diversi.
Ho poc’anzi sostenuto la differenza tra una richiesta di un utente del settore pubblico e la richiesta di un utente che viene dal settore privato: la domanda non è solo consulenziale.
Il dipendente pubblico si autofinanzia una parte di welfare che è fondamentale; con lo 0,35% il dipendente pubblico ha alimentato fondi che gli permettono di accedere ai piccoli prestiti al mutuo ecc., perché il dipendente pubblico non può far ricorso al Tfr, ad esempio nell’acquisto della casa, perché il Tfr in questo contesto è virtuale.
E quindi la domanda per i 3 milioni di dipendenti pubblici spesso riguarda cose di questo genere.
Anche i meccanismi pensionistici sono assolutamente diversi: ad esempio, per i militari si distingue ulteriormente se si appartiene alla marina, in cui contano diversamente i periodi d’imbarco, i periodi di scuola militare etc.
E la stessa distribuzione dell’utenza sul territorio è diversa. Non sempre il meccanismo utilissimo dell’agenzia Inps sul territorio corrisponde a una concentrazione sufficiente di dipendenti pubblici in quel territorio. E allora cosa fare, la si ridisegna? No. Si deve valutare la vocazione del territorio: cioè se è una vocazione di piccola e piccolissima impresa, di impresa artigiana ecc., di ausilio a una grande azienda.
Forse per il mondo del pubblico ci si deve dimensionare in maniera diversa nelle grandi aree metropolitane. Perché è lì, ovvero è a Milano, è a Roma, è a Torino, è a Napoli che si trova una grande concentrazione di lavoratrici e lavoratori pubblici, dell’università, della scuola, dello Stato. E quindi è prima di tutto lì che si deve ridisegnare un modello diverso.
Tenendo presente un dato, a questo proposito, che è molto positivo nel nostro Paese ma che non viene abbastanza valorizzato: il nuovo ente ha, senza applicare la spending review, che riguarda circa 3.200 dipendenti, una forza lavoro di circa 32.000 dipendenti rispetto ai 90.000 della Germania (che è centrale e periferica perché gli operai sono nei Lander) e gli analoghi quasi 90.000 che ci sono in Francia.
Questi sono i dati. Se poi all’interno dell’Italia vogliamo fare una serie di rapporti dirigenti/impiegati etc., vediamo che il sistema previdenziale è il primo in assoluto avendo un rapporto di un dirigente ogni 54 impiegati rispetto a quello che è il top, inquesto caso in negativo, della Presidenza del Consiglio dove c’è un dirigente ogni sei impiegati.
Per arrivare alle conclusioni.
Immagino che sia il legislatore che debba intervenire per coniugare ammortizzatori sociali, nuova formazione, nuova proposta di lavoro ecc.
Ma qui c’è un limite dello stesso Inps, che è chiamato ad affrontare una mutazione culturale. È assolutamente necessaria una nuova governance. L’idea dell’uomo solo al comando, che può governare questa complessità, collide con i principi fondamentali di democrazia in un paese. Ora sinceramente non mi entusiasma molto la formula «Consiglio di Amministrazione, non Consiglio di Amministrazione», vado oltre: io credo che in un sistema previdenziale l’esperienza del sistema duale vada ribadito, deve essere guardato con attenzione il modello tedesco. E il problema del ruolo delle parti sociali è fondamentale. Allora sicuramente si tratta di prevedere più poteri al Consiglio di Indirizzo e Vigilanza. Ma poteri esigibili. Non perché il Consiglio di Indirizzo e Vigilanza non abbia poteri, anzi; ha poteri così grandi che sono poteri inesigibili, perché il fatto che non approvi un bilancio, è un peso abbastanza dirimente.
Allora io penso forse che, fermo restando quel potere, si dovrebbe riflettere su aspetti connessi al rendere più trasparente il tutto.
Ad esempio: il regolamento di contabilità non lo deve predisporre il controllato perchè così diventa controllore, ma deve essere di competenza dell’organo che approva il bilancio e quindi il Consiglio di Indirizzo e Vigilanza.
Perché in un bilancio come quello dell’Inps, i numeri esplodono o si contraggo in relazione alla natura del regolamento, e siccome i numeri del bilancio dell’Inps influenzano le decisioni legislative devono essere numeri più trasparenti che sia possibile.
La vicenda degli esodati è una vicenda in cui si misura non la poca trasparenza, ma l’uso proprietario del dato, a seconda di qual’ è la stagione politica e le simpatie personali di questo o quell’altro Ministro. Questo collide con la democrazia.
Seconda questione: il regolamento di organizzazione, cioè come mi strutturo sul territorio, è interesse della parti sociali. Come funziona un’agenzia, come funzione una provincia, i poteri, il front office e il back office, è un problema che riguarda tutte le parti sociali.
Due ultime questioni.
Innanzitutto, immagino una governance in cui il Direttore Generale sia l’apice della carriera burocratica. E quindi è un organo che non può dipendere da altri, perché altrimenti tutta la struttura burocratica verrebbe nominata dalla politica.
Inoltre, il Collegio dei Sindaci. Io credo che il Collegio dei Sindaci debba essere più assimilato al Collegio dei Revisori, che ragionano quindi sulla legittimità dei numeri non sulla legittimità rispetto alla legge.
Perché non dimentichiamo che negli enti previdenziali c’anche un magistrato della Corte dei Conti, e non si può moltiplicare un sistema dei controlli che si possono rivelare inefficaci perché possono generare uno scaricabarile tra i controllori.
Ecco io penso ad un Collegio dei Sindaci che sia sempre espressione del pubblico: un Collegio dei Sindaci formato da dirigenti della Pubblica Amministrazione.
Concluso con un’ultima battuta.
Io credo che la banca dati dell’Inps, proprio per le cose che ho ricordato prima, debba prevedere una figura che controlla la distribuzione dei dati. Ritengo che essa debba coincidere con la Commissione bicamerale sugli enti previdenziali.
Però ora pongo il problema: la banca dati dell’Inps deve essere sottratta all’uso proprietario che c’è stato in questi anni. Occorre un terzo: sicuramente anche le parti sociali devono dire la loro.
Video dell’Intervento di Guido Abbadessa, Presidente del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza Inps >>>
(*) Presidente del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza Inps