Con il D.L. n.1 del 16 febbraio il governo è intervenuto bloccando la possibilità prevista dal D.L 34/2020 di cessione o sconto in fattura dei crediti d’imposta edilizi. Non solo, quindi, del 110% introdotto con quel D.L., ma anche degli altri bonus edilizi già esistenti. Le motivazioni addotte dal governo per un provvedimento così drastico sono state due: un ammontare di spesa sensibilmente superiore alle previsioni e fuori controllo (circa 120 mld. di euro) e un possibile e grave effetto contabile dovuto a una nuova interpretazione Eurostat di contabilizzare per competenza la cessione dei crediti fiscali, ovvero tutti come deficit al primo anno (considerandoli payable), senza spalmarli nell’orizzonte dei cinque/dieci anni di credito d’imposta (considerandoli non payable).
Il problema Eurostat non si pone per il 2021/22. E’ vero che il deficit annuo salirebbe e si avvicinerebbe nei due anni al 10% rispetto rispettivamente al 7,2% e al 5,6% ufficiale, ma questo riguarderebbe un passato per il quale tra l’altro non esistevano i vincoli del Patto di stabilità. I problemi si porrebbero nel 2023, nel 2024 e nel 2025 (scadenza ad oggi del D.L. 34) togliendo al governo Meloni qualsiasi spazio di manovra economica anche in previsione del nuovo Patto di stabilità. Con il blocco della cessione dei crediti in parte per il 2023, totalmente per gli anni successivi si liberano risorse, se la maggior parte dell’impatto sui conti pubblici é anticipato al 2021 e 2022.
La domanda che ci si può porre e se entrambi questi problemi non fossero prevedibili al momento del varo del decreto 34/2020. L’Ufficio Parlamentare di Bilancio in realtà sollevò entrambi i problemi nel corso di una audizione parlamentare e in un suo documento (UPB – Rapporto sulla programmazione di bilancio 2020), ma non fu ascoltato. La Ragioneria generale dello stato sempre sollecita a sovrastimare le spese nel caso di misure in campo strettamente sociale, salvo poi utilizzare le somme non spese per altri provvedimenti in anni successivi, nel caso dei bonus si è mostrata molto distratta o incapace di reggere alle pressioni dei partiti. Perché è dai partiti, tutti non solo dai 5stelle, che poi è arrivata la spinta a prolungare l’efficacia della norma. Gualtieri, ministro del Tesoro che firmò il decreto 34, approvando l’intervento del governo Meloni, dichiara in una intervista che l’errore non fu quello di emanare il provvedimento, ma quello di averlo reiterato, mentre inizialmente la norma doveva avere un carattere di eccezionalità e restare in vigore per il solo 2021. Poi vi è stata una gara tra i partiti, di maggioranza e di opposizione, nel sostenere la norma, di chiederne il prolungamento nel tempo, di estenderne, nel caso del 110%, l’efficacia alle villette. Basterebbe andare a vedere le firme in calce alle mozioni e agli emendamenti presentati in Parlamento tutte le volte che la norma in questione stava per scadere. Non solo i 5stelle, ma PD, Lega, FI e FdI si sono sempre opposti alla cessazione della possibilità di cedere i crediti edilizi a partire dal 110, nonostante gli allarmi lanciati da Draghi e da Franco. Non vi sono quindi innocenti, a partire da chi oggi ha emanato il decreto legge che blocca la cessione dei crediti e che fino a ieri ne reclamava, stando all’apposizione, la continuazione.
Sui costi del 110 e delle cessioni dei crediti d’imposta in generale i dati sono certi, sui benefici prodotti in termini di entrate e in termini di apporti alla crescita vi è invece ampia discussione. Da un lato vi sono le ricerche di Censis e Nomisma che attribuiscono al decreto 34/2000 ampi effetti positivi sia in termini di entrate sia di apporto allo sviluppo ma che vengono accusate di essere prodotte in stato di conflitto di interesse perché fatte da soggetti coinvolti nell’utilizzo delle norme del D.L.. Dall’altro le indicazioni Banca d’Italia che riconoscono gli effetti espansivi del decreto ma ne circoscrivono sensibilmente l’entità (metà delle opere ci sarebbe stata anche senza il decreto) e ne rilevano quindi il costo per i conti pubblici.
Un dato certo è quello che proviene dall’ultimo bilancio del bonus 110 tracciato dall’Enea con i dati aggiornati al 31 gennaio.
I dati Enea dicono che ad accedere al bonus, sono stati solo 51.247 condomini e 215.105 “edifici unifamiliari” (le villette), oltre a 105.945 “unità funzionalmente indipendenti” (tipo casa in una villetta bifamiliare). Dunque 372.000 case a fronte dei 12,2 milioni di edifici residenziali censiti dall’Istat, ossia il 3%. La spesa media per singolo intervento ammonta a ben594.891 euro per i condomini e 113.845 euro per le abitazioni unifamiliari. Sono 65,2 miliardi di investimenti ammessi a detrazione, che considerata la maggiorazione del 10% rispetto al prezzo dei lavori equivalgono a 71,7 miliardi di detrazioni previste.
Quanto all’impatto sull’efficienza energetica, stando al rapporto annuale 2022 dell’Enea, i risparmi conseguiti con il superbonus al 30 settembre 2022 ammontavano a9.410 GWh annui a fronte di un consumo nazionale di oltre 300.000 GWh annui di energia elettrica, pari a circa il 3%.
Ora ragioniamo sui numeri prodotti dall’Enea partendo dalle affermazioni di Draghi sulla necessità/utilità del “debito buono” nella situazione di crisi in cui ci trovavamo. Non vi è dubbio che una misura di incentivo forte ad un settore come quello edilizio che costituisce un volano per altri settori può essere non solo utile ma essenziale ai fini di una ripresa economica e che incentivi nel settore potevano costituire un esempio di quel debito buono indicato da Draghi. Incentivare il settore edile anche a debito, possiamo dire soprattutto a debito, non era quindi sbagliato, il problema era come. Normalmente un incentivo si da anche per attirare capitale privato, ora se l’incentivo è pari al 110% capitale privato non se ne attira, anzi si corre il rischio di sostituirlo e quando la Banca d’Italia afferma che il 50% degli interventi si sarebbe comunque realizzato (anche se riferito a tutti i bonus) ci dice che il denaro pubblico ha in parte notevole sostituito quello privato e non si è aggiunto. E questo vale certamente per il 110, ma in buona misura per il bonus facciate con una cessione del credito pari al 90%.
Si disse che la possibilità di trasformare il credito d’imposta in cessione di credito avrebbe permesso agli incapienti di accedere a misure da cui prima erano esclusi e che quindi la misura aveva un aspetto di equità fiscale e contemporaneamente si allargò il 110 alle villette e alle seconde case notoriamente possedute da soggetti con basso reddito reale. E’ uno degli argomenti richiamato oggi per criticare la decisione del governo Meloni, si colpiscono gli incapienti.
C’era e c’è una evidente dissociazione mentale: da un lato si denuncia un’evasione fiscale superiore ai 100 mld annui che porta a una chiara non aderenza alla realtà delle dichiarazioni Irpef, dall’altra si dice che vanno tutelati gli incapienti senza una minima distinzione sulle ragioni dell’incapienza.
Ora se osserviamo i dati dell’Enea vediamo che delle 372.000 case che hanno usufruito del superbonus 215.105 sono villette, oltre 105.945 unità in una villetta bifamiliare. Quanti di questi superbonus sono stati dati a contribuenti fiscalmente incapienti? Ci si è dimenticati che la proprietà immobiliare di un certo tipo è concentrata tra i contribuenti con redditi più elevati?
Una misura poi di totale copertura dei costi da parte dello stato, come ciascuno di noi ha potuto constatare nella vita reale, o addirittura un credito superiore ai costi, elimina qualsiasi interesse al controllo dei costi e spinge questi in alto.
Una spinta all’economia è certamente avvenuta, ma con 71 miliardi di spesa pubblica dovuta al superbonus, in parte recuperati attraverso le entrate fiscali prodotte, si è ristrutturato il 3% degli edifici residenziali del paese, si è prodotto un risparmio nel consumo di energia elettrica pari al 3%, in molti casi si è probabilmente regalata una ristrutturazione a contribuenti che se la potevano permettere e a incapienti che in realtà erano evasori totali o parziali.
Il decreto 34/2000 partiva da due presupposti giusti, la necessità di incentivare un settore fondamentale per far ripartire l’economia e la necessità di incentivare soggetti (condomini) che difficilmente si sarebbero attivati da soli di fronte ai problemi di efficientamento energetico degli edifici. Non ha limitato nel tempo l’incentivo, lo ha fissato ad un valore superiore ai costi, non ha distinto nella tipologia di condomini e nella loro localizzazione, ha esteso gli incentivi alle villette e alle seconde case. Infine non ha posto un tetto di spesa annua come invece i governi hanno spesso fatto per misure di prestazioni sociali.
Sono limiti evidenti che hanno portato alla situazione di crisi attuale e al decreto del 16 febbraio. E’ ovvio che questo decreto produca una situazione di crisi. Vi sono tra i 15 e i 19.000 mld di crediti bloccati che pendono sulle spalle di imprese e di contribuenti e c’é la necessità di passare da un regime di cessione del credito come quello previsto dal decreto 34/2000 a un regime diverso che consenta un controllo degli incentivi e della spesa anche in vista degli obiettivi fissati dalla UE.
La soluzione dal punto di vista fiscale è resa complessa dalla realtà del nostro sistema. Partire dal problema degli incapienti vuol dire ignorare la realtà dell’evasione fiscale e approntare l’ennesimo regalo a chi evade. Semmai la correlazione inversa dovrebbe essere fatta non con il reddito, ma con il valore patrimoniale di mercato dell’immobile. Comunque l’incentivo non può essere uguale per condomini e villette, prime e seconde case, periferia e zone signorili. Deve essere un incentivo, non un regalo, deve aiutare non sostituire, deve fare i conti con un tetto di spesa.
E’ necessario ragionare sugli errori commessi, e creare velocemente una nuova struttura di incentivi stabile nel tempo, non soggetta a continue variazioni, che miri anche ad evitare effetti inflattivi sul mercato dei beni e servizi e effetti di ingolfamento sul mercato dei crediti come avvenuto con il D.L.34.