Colloquio tra Marcello Messori (M.M.) e Raffaele Morese (R.M.) sugli snodi politici, economici e sociali più importanti ma anche più difficili della proposta di Mario Draghi per il futuro dell’Europa anche con qualche suggerimento di merito.
R.M.
Dico subito che il Rapporto Draghi è fatto molto bene, anche se è carente sotto il profilo sociale. Sarebbe un errore farlo cadere nel dimenticatoio. Qual è la tua opinione?
M.M.
Uno dei punti forti di questo rapporto Draghi, è che sottolinea come l’Unione Europea, in prospettiva futura, non possa mantenere un livello di forza economica, di ricchezza, tale da consentirsi quel modello sociale che – con tutti i problemi che ha – comunque resta un unicum al mondo. Il modello di welfare europeo, nonostante l’indubbio decadimento che ha avuto in questi ultimi anni, per esempio il decadimento della sanità in Italia, resta comunque ineguagliabile.
Il Rapporto Draghi mette in evidenza che soltanto recuperando il divario tecnologico, aumentando la coesione interna dell’Unione Europea, potremo mantenere un livello di inclusione che non ha paragoni al mondo. Questo mi sembra il messaggio più rilevante, dopodichè è discutibile se la ricetta che viene delineata, e a mio avviso per molti versi è condivisibile, sia politicamente e istituzionalmente attuabile.
R.M.
Infatti, Orban, nella conferenza stampa che ha fatto come Presidente di turno del Consiglio dei Ministri, ha detto che condivide al 100% Draghi nell’analisi, non nelle politiche conseguenti; c’è da aspettarsi una forte controffensiva di marca sovranista.
M.M.
Devo dire che mi sento molto in sintonia con la diagnosi di Draghi. La ricerca che abbiamo cercato di sviluppare in questi anni, insieme a Marco Buti, va esattamente in questo senso. L’idea è che, non soltanto a seguito della pandemia, ma soprattutto dopo l’aggressione russa dell’Ucraina, siano venuti meno quelli che erano i fondamentali fattori di vantaggio comparato dell’Unione Europea a livelli internazionali. Cioè, avere accesso a un’energia a basso costo, poter operare su mercati internazionali che, al di là di tutte le contraddizioni, comunque si espandevano e quindi consentivano un modello di crescita orientato alle esportazioni, una disponibilità molto ampia di quei fattori produttivi che servono alle produzioni moderne.
Draghi parte da questa rassegna e la concretizza in un dato incontrovertibile, cioè la dinamica della produttività nelle sue varie forme: la produttività del lavoro, la produttività degli investimenti e così via, tutte più basse che negli Stati Uniti, in Cina e in altre aree economicamente concorrenti a quelle europee. Dice inoltre, che, se continuiamo così, avendo una dinamica demografica che è negativa, perché insieme al Giappone siamo l’area sociale a più forte invecchiamento, è evidente che non riusciremo a crescere. Per un po’, non ce ne accorgeremo perché abbiamo molta ricchezza concentrata nelle famiglie e nelle imprese, però, a un certo punto, ci renderemo conto che ci stiamo mangiando il patrimonio e quindi non potremo continuare nel nostro modello non soltanto economico ma anche sociale. Da qui la necessità di cambiare modello, cioè di adeguarsi con l’innovazione.
R.M.
Così veniamo alle proposte di Draghi. Cosa ti convince o non ti convince dell’insieme delle direttrici di intervento che sono indicate?
M.M.
Uno degli aspetti interessanti di questo rapporto è che collega la transizione verde alla innovazione digitale; si dice che non tutte le innovazioni digitali sono compatibili con un basso impatto ambientale, anzi, noi sappiamo che sono energivore, allora qual è il piccolo grande elemento di vantaggio comparato che l’Europa potrebbe avere? Quello di favorire le energie rinnovabili, l’economia circolare. Resto convinto che noi non dobbiamo fare quello che gli economisti chiamiamo il “catching up”, cioè la rincorsa tecnologica rispetto a Stati Uniti e Cina, ma, per dirla con Schumpeter, fare un’innovazione incrementale, cioè trovare una traiettoria un po’ diversa. La via potrebbe essere proprio quella di combinare transizione verde e innovazione digitale e l’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Il che porta in campo una terza componente, sottolineata anche dai recenti premi Nobel per la Fisica 2024, e cioè che l’Europa non deve pensare che la regolamentazione sia solo un costo, ma può anche essere un vantaggio. Per poter combinare innovazione sulla frontiera tecnologica a basso impatto ambientale, noi abbiamo bisogno di una regolamentazione efficace.
R.M.
Questo significa abituare l’Europa a pensarsi come un mercato totalmente unico, dentro il quale non è che ogni nazione si può fare la sua automobile, la propria politica degli incentivi fiscali e normativi ma piuttosto specializzare i territori. Negli Stati Uniti dire Detroit è dire auto, ma la California è più ricca del Michigan.
M.M.
Tu arrivi al problema politico istituzionale perché, a differenza di Orban, credo, e contro Orban, noi non ci accontentiamo di dire che la diagnosi va bene, siamo anche convinti che ci possa essere una traduzione di politica economica lungo le linee dette; poi c’è un terzo passaggio: come poter concretizzare, praticare, realizzare davvero questa politica economica.
Per realizzare la ripresa della dinamica della produttività, riducendo il divario tecnologico rispetto alle altre aree economicamente avanzate e seguendo una traiettoria tecnologica, che è compatibile all’ambiente ed è ben regolamentata, non possiamo illuderci di farlo a livello di singoli Stati membri. Dobbiamo avere una capacità fiscale europea centralizzata, quindi una capacità di politica industriale europea e non di politiche industriali nazionali. Come realizzare questo passaggio cruciale? Per poter costruire una capacità fiscale centrale e per poter mobilizzare la ricchezza finanziaria in mano alle famiglie e alle imprese verso finanziamenti e all’innovazione, è inevitabile spostare sovranità. E’ inutile nascondersi dietro a un dito, dobbiamo spostare sovranità dal livello nazionale al livello europeo e questo non è facile.
R.M.
Ammesso che ci sia il convincimento per un trasferimento strutturale di sovranità, pensi che 800 miliardi l’anno per un decennio debbano essere incrementali o sostitutivi degli investimenti dei singoli Stati e in ogni caso, sono una cifra così enorme da spaventare governi e investitori?
M.M.
800 miliardi l’anno, per un decennio, sono tanti; sono complessivamente 8 trilioni. Anche perché solo in minima parte sono già nelle casse della UE. Sono disponibilità finanziarie aggiuntive di quelle dei singoli Stati e vanno cercati sul mercato finanziario mondiale. La ricchezza finanziaria dei Paesi dell’ Unione Europea è molto consistente, ma qual è il problema? Questa ricchezza finanziaria è soprattutto nelle mani delle famiglie e delle imprese, che la utilizzano per investimenti o di breve periodo o prudenziali. Viceversa finanziare innovazioni del tipo indicato da Draghi, significa finanziare attività rischiose, allora tu devi avere degli intermediari finanziari, degli investitori professionali, degli investitori istituzionali che siano forti e pronti ad assumersi il rischio di offrire ai detentori di ricchezza delle allocazioni ragionevolmente prudenti, ma, una volta che hanno raccolto questa ricchezza, essere disponibili a investirla in attività “pazienti” e questo pone problemi istituzionali e sociali non banali. Per esempio, c’è un piccolo Paese nell’Unione Europea che è molto vicino alla frontiera tecnologica, che è la Svezia. Lì i fondi pensione fanno investimenti anche molto rischiosi. Naturalmente hanno un portafoglio ben diversificato, il che significa però che, pur con una mediazione, c’è un trasferimento di rischio anche su una collettività a reddito medio, quindi, lungi da me pensare che sia un’operazione banale questa.
Ma è risolubile, quindi per prima cosa occorre avere un mercato finanziario unico europeo in cui, con atteggiamenti molto articolati, poi devi assicurare una diversificazione che assorba il rischio. Questo significa che devono essere coinvolti sia il sistema bancario che quello degli investitori professionali.
R.M.
La complessità è evidente. Tutto si tiene. Come si costruisce il consenso intorno ad un’architettura così complessa per essere forte? E’ tutto concentrato negli spazi istituzionali o si devono coinvolgere i corpi vitali della società europea, perché la consapevolezza non riguardi soltanto le élites ma anche le persone e tra questi le imprese e i lavoratori? Responsabilizzarli potrebbe anche sopperire alle debolezze e le contraddizioni che circolano nel Parlamento europeo, tra i partiti europei, nella stessa nuova Commissione.
M.M.
Stai ponendo la questione della leadership europea. Seppure su una scala più ridotta e una tantum, questa si è vista durante la pandemia. Von Der Leyen, Merkel e Macron dettero forza ad un intervento rapido e determinante per un’azione efficace di sostegno a tutti i Paesi dell’Unione. Però si era in emergenza ed era un’emergenza, come dire, obbligata, perché nessuno era responsabile. Non potevi dire “…questi spendaccioni!”. Adesso questa leadership non c’è più, non c’è più un asse franco tedesco, la Commissione è debole e quindi…
R.M.
Però gli industriali ci sono! I sindacati anche. La Commissione potrebbe fare una scelta che finora non è stata fatta: coinvolgere come interlocutore stabile anche il sociale, chiamando gli industriali, i sindacati, il terzo settore e costruendo con essi un consenso robusto. Che potrebbero fare i governi nazionali e lo stesso Parlamento europeo se si costruisse una cosa così?
M.M.
Stai ponendo un problema di governance. Questa attitudine allo stato, non mi sembra che ci sia. Certo, in linea di principio le organizzazioni sociali hanno un sacco di risorse per poter dare un contributo positivo. Bisogna creare un clima che ancora non c’è. Ma se questo accadesse, dipanare le difficoltà e spianare la strada ad una strategia tanto innovativa sarebbe una fatica non impossibile.