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A trent’anni dalla fine della Dc: nostalgia della grande politica? 

La DC  è stato un fenomeno politico unico nelle storia italiana. Un partito capace di amalgamare sensibilità diverse in un progetto per l’Italia. A trent’anni dalla sua fine, con Guido Formigoni, Ordinario di Storia Contemporanea all’Università Iulm, ripercorriamo il profilo storico della DC. Formigoni è autore di numerosi saggi, l’ultimo, pubblicato dalla casa editrice il Mulino, tratta proprio la storia della Dc. Un libro scritto con altri due storici importanti: Guido Formigoni – Paolo Pombeni – Giorgio Vecchio, Storia della Democrazia Cristiana (1943 -1993), il Mulino, Bologna, pagg. 720. € 38,00


Professore, ricordiamo la fine del partito della Democrazia Cristiana, avvenuta all’indomani della tragica vicenda di “Tangentopoli “, segnando così la fine della Prima Repubblica. Quell’evento colpì il sistema politico italiano e fu devastante.  Ma forse le cause della fine della DC riguardano non solo la questione morale ma anche l’esaurimento del suo ruolo storico…
Certamente nella crisi finale del partito giocò il peso inatteso e imprevisto di singoli eventi: dal crollo del muro di Berlino che tolse improvvisamente la rendita di posizione dell’anticomunismo, a Tangentopoli che rivelò l’esteso sistema di corruzione, alle battaglie referendarie che mutarono il quadro delle aspettative politiche spiazzando le posizioni centriste. Ma ognuno di questi eventi non avrebbe avuto l’impatto devastante che ebbe se non ci fosse stata prima una parabola di progressiva decadenza strutturale. Colpisce come il partito abbia vissuto una certa curva di successo e decadenza. Ad una prima fase non priva di risultati storici e tutto sommato di indubbia capacità nel gestire l’inserimento italiano nel grande mondo economicamente integrato ispirato alla guida americana, con un sostanziale ruolo dello Stato democratico e sociale che bilanciava la libertà della società, ha fatto riscontro una crisi del modello globale, un profondo mutamento della mentalità e della società, un effetto stesso dell’arricchimento del paese, che si specchiò negli anni Settanta anche in una faticosa crisi della Dc stessa. Il rilancio del nuovo assetto internazionale della cosiddetta globalizzazione, in una società più individualistica e frammentata, si trasformò in una condizione molto più difficile da governare. Simbolicamente, la perdita tragica di Aldo Moro nel 1978 segnò un passaggio decisivo tra la pur faticosa capacità di governo degli avvenimenti e una condizione di incertezza e sbandamento. La Dc perse così progressivamente presa nel paese, venne delegittimata nella cultura diffusa, ancor prima di iniziare a perdere voti, si polarizzarono le sue componenti interne che convissero con sempre maggiore difficoltà: tutto questo preparò il quadro della rapida crisi di fine decennio, esplosa in presenza di alcuni eventi-catalizzatori.

Che tipo di partito è stata la DC? 

È stata senz’altro un grande partito, una grande esperienza sociale e politica che ha messo insieme più generazioni di persone in ogni remoto angolo dell’Italia, conquistandosi per cinquant’anni un consenso che andava da un terzo a quasi la metà degli italiani. Un partito di ispirazione cristiana, ma capace di autonomia rispetto alla Chiesa e alle sue autorità; un partito a lungo identificato con lo Stato, e quindi dotato di un suo sistema di potere, ma anche capace di manovrare in modo competente e responsabile le leve dell’amministrazione e del governo; un partito di mediazione sociale tra le classi, i ceti, i territori, le periferie italiane; un partito plurale, capace di sintesi e di compromessi tra le sue correnti interne, con una flessibilità tale da non subire praticamente scissioni fino all’ultimo giorno della sua vita.

Cinquant’anni di governo, dal secondo dopoguerra fino alla fine della Prima Repubblica, quale potrebbe essere la sua eredità positiva?

Potremmo forse usare per spiegare l’eredità migliore di questa politica la formula degasperiana, da lui coniata già nel 1946 e poi ripetuta alla vigilia delle elezioni del 1948: la Dc era un «partito di centro che si muove verso sinistra». Cioè, potremmo tradurre: un partito rassicurante, moderato, prudente, capace di portarsi dietro quella parte della società italiana che era stata il sostegno conservatore dell’ordine tradizionale e la base di massa della stessa dittatura fascista (una base laica ma anche cattolica). E capace di condurre pacatamente questo elettorato sui binari di una apertura progressiva al cambiamento, sintetizzata nel progetto di attuare via via la prima parte della Costituzione del 1948, quel disegno programmatico di uno Stato democratico-sociale che «rimuove gli ostacoli» per la piena cittadinanza di tutte e tutti. Quel disegno che il democristiano Dossetti e i suoi amici professorini riuscirono a far accettare nel grande incontro costituente, iniziato e sostanzialmente strutturato prima che la guerra fredda e le sue rigidità colpissero il paese. Questa vena riformista nella Dc ebbe momenti felici e momenti più problematici e ambigui (si pensi alla gestione della spesa pubblica), ma alla fine non venne mai del tutto meno, restando il suo contributo migliore alla storia della Repubblica. La capacità di costruire coalizioni (dal centrismo, al centro-sinistra, alla solidarietà nazionale) era l’altra faccia della straordinaria flessibilità interna, che le permetteva di assorbire posizioni, culture e orientamenti anche marcatamente diversi. 


E quella più pesante?
Per certi versi direi proprio che la parte peggiore fu il lato B di quella stessa identità del partito: dovendo prospettarsi questo percorso innovativo nella moderazione e nella prudenza, la Dc fin dal tempo di De Gasperi aveva dovuto introiettare buona parte della destra italiana, intesa non solo come specifici sentimenti politici, ma anche come quella mentalità che avrei provato a sinteticamente definire come il «partito dell’immobilismo»: la convinzione insomma che la democrazia politica non dovesse toccare più di tanto gli equilibri sociali del paese, anzi dovesse confermarli per impedire pericolose derive sovversive, in presenza di un forte partito comunista. In questo senso, nella Dc c’era all’opera un freno permanente alle pulsioni riformatrici sopra descritte: l’unità del partito – intangibile per tutti i leader importanti, da De Gasperi a Moro – doveva essere salvata ascoltando, blandendo, rassicurando tutti i portavoce complessi di queste opinioni e di queste culture conservatrici. Ogni passo avanti implicava un riequilibrio con i suoi oppositori interni. Tale mediazione interna divenne con il tempo sempre più defatigante. E questa dinamica aveva risvolti evidenti anche nell’insediamento sociale del partito, che spesso faceva poco per educare alla democrazia il proprio elettorato, accontentandosi di rassicurarlo. Non so se sia chiaro il dramma che questo atteggiamento portava con sé in quelle regioni del paese dove esisteva una struttura condizionata dalla criminalità organizzata… Ma insomma, il tema è più generale: si pensi alla tolleranza per l’evasione fiscale, il parassitismo, le clientele, il lavoro protetto, l’illegalità banale, l’individualismo e il familismo. Tutti quegli atteggiamenti che hanno tenuto molti italiani in un sentimento sospettoso e lontano dalla statualità, non per caso riemersi in altre forme dopo il 1994.


Quel partito aveva una classe dirigente agguerrita (frutto della formazione selezionante dell’associazionismo cattolico). Davvero sono stati tanti. Ma chi sono stati quelli più strategici?
Beh, sia la generazione dei vecchi popolari sopravvissuti alla dittatura, sia la «seconda generazione» dei giovani affacciatisi alla vita pubblica dopo la guerra erano state cresciute – con le loro diversità – nell’associazionismo cattolico. Che non aveva in generale fornito perspicua cultura politica, ma certo potremmo dire aveva condotto a formare una serie di atteggiamenti spirituali e di metodi interiori che avevano preparato a questa assunzione di responsabilità e realizzato anche strutture morali della personalità non indifferenti. Da De Gasperi e Scelba o Piccioni, a Fanfani, Moro a Rumor e allo stesso Andreotti o a Donat-Cattin, questo fu un tratto comune, che non impediva differenze interne e anche battaglia aspre, ma che faceva in sostanza parte di un retroterra condiviso. Dalla «terza generazione» in poi, i Forlani, i De Mita, i Bisaglia, i Gaspari, sono state invece figure molto più totalmente «partitiche», con approcci molto diversi, magari più esperti nel gioco politico, forse un po’ meno esposti a quella formazione interiore esigente.


La DC era laica, faceva della laicità un perno della sua azione. La sua laicità era un amalgama originale. E questo amalgama, sul piano storico, bisogna riconoscerlo, ha salvato l’Italia da guerre di religione violente. È così?
Forse non parlerei di guerre di religione, ma certo lo scontro possibile tra clericalismo e anticlericalismo nel dopoguerra non era un’ipotesi del tutto irrealistica. Non dimentichiamo che la Chiesa pacelliana aveva dentro di sé una maggioranza di approcci e culture che guardavano ancora al mito della ricostruzione di un «Italia cattolica» che prendesse la rivincita sul Risorgimento e sullo Stato laico e liberale. La dirigenza democristiana doveva muoversi su un terreno complesso. Da una parte aveva bisogno di ottenere l’appoggio della gerarchia alla democrazia, mancato drammaticamente nel primo dopoguerra. Dall’altra, doveva legittimarsi come esperienza politica democratica, costruendo appunto coalizioni che superassero gli «storici steccati». Essendo fedele alla dottrina ma anche alla disciplina ecclesiale, ebbe in generale la capacità di «contenere», controllare, mediare le pressioni gerarchiche e le istanze di un cattolicesimo trionfalista. Ci furono occasioni di nascoste tensioni, non banali, sia all’epoca degasperiana (l’Operazione Sturzo del 1952), sia nel periodo della cosiddetta «apertura a sinistra». L’autonomia però tenne. La cultura della laicità era più spiccata in alcuni dirigenti che in altri, ma aveva nel suo complesso condotto a maturazione l’idea che una democrazia in Italia potesse essere fondata solo nel dialogo tra le ideologie diverse, come avvenne mirabilmente nella costruzione del patto costituzionale. In fondo, nel periodo di maggiore preminenza della Dc al governo del paese – quando Jemolo parlava di «inattesa realizzazione di uno Stato guelfo a cent’anni dal crollo delle speranze neoguelfe» – i contorni del patto costituzionale ressero e ci fu una gestione anche dei rapporti con il mondo laico e soprattutto con l’avversario comunista che realisticamente evitò i toni della guerra civile, che qualche interlocutore Oltreoceano (oltre che Oltretevere) premeva per realizzare.


Anche la politica estera è un lascito prezioso della Dc. È così? 

Direi, almeno in parte, di sì. Anche in questo caso si tratta un po’ di un paradosso. Una classe dirigente tutt’altro che avvezza ai segreti della diplomazia o alle sottigliezze dell’arte di governo, si trovò a gestire la politica estera di un paese annichilito dalla sconfitta dell’illusorio imperialismo fascista, mostrando in fondo la capacità di tenere assieme un sobrio senso nazionale con la collocazione occidentale ed europea che emergeva dallo scenario postbellico. Per certi versi queste ultime non erano nemmeno «scelte», come si usa dire, dal momento che il paese era oggettivamente fin dal 1943 nella sfera d’influenza anglo-americana. Ma il modo di stare dentro a questi contesti e di valorizzare queste alleanze non si ridusse mai alle opzioni generiche o al servilismo verso i potenti. La comunità europea arricchiva il senso dell’Occidente; il neoatlantismo parlava ai popoli emergenti del Mediterraneo. La Dc tentò, per quanto possibile a un paese ancora marginale come l’Italia, di esprimere questi legami in termini creativi, costruendo uno spiccato favore verso scelte di equilibrio, di pacificazione, di interlocuzione con i paesi emergenti del terzo mondo. Non fu un’operazione semplice. Talvolta fu anche condotta in un modo un po’ ingenuo e sovradeterminato rispetto alle possibilità di mediazioni dell’Italia, ma alla fine delineò una sintesi che non merita l’etichetta negativa che le è stata spesso imposta. Soprattutto a confronto con la politica estera della seconda stagione della Repubblica, dopo il 1994.


Il ritmo lungo della storia ci consegna questa eredità, tutta italiana. Oggi nel cattolicesimo impegnato, in alcuni ambienti, pare di cogliere una certa malinconia, e forse non solo nel mondo cattolico. Le chiedo quale sarà il futuro di quello che rimane del cattolicesimo politico?

Dopo la fine della Dc l’impegno cattolico in politica non è finito (ci sono – contrariamente a quello che spesso si dice – molti segni di un influsso che è continuato), ma certo è finita la stagione del «cattolicesimo politico» come impegno di formazioni politiche visibilmente e organizzativamente ispirate da ragioni collegate alla fede cristiana. O meglio, si è esaurito tale modello, dopo alcuni persistenti ma sterili tentativi di costruirne delle versioni «di destra» o «di sinistra» (si pensi al Ppi o al Cdu-Ccd), per accompagnare il bipolarismo politico della seconda fase della Repubblica. Oggi l’ipotesi di un partito definito in termini religiosi è piuttosto difficile da immaginare. Sia per le divaricazioni di una cultura politica cattolica sempre più polarizzata (si pensi alle idee diffuse su temi come la pace, le questioni bioetiche, la giustizia sociale…), sia per il carattere ineluttabilmente ancora più confessionale e minoritario che esso assumerebbe.

Ma la causa più radicale è la debolezza di un mondo cattolico sempre più fragile, introverso, eroso dalla fine del cristianesimo di abitudine, incapace di elaborare cultura, letture della storia, progetti, abilità organizzative: cioè tutti i principali elementi necessari per costruire una buona politica. Occorrerebbe quindi chiedersi dove sono finiti i credenti, forse, prima di chiedersi dove sia finito l’impegno politico. Se ci fosse un soprassalto, sarebbe forse opportuno che i cattolici si interessino alla politica e facciano politica in altro modo, prendendo le proprie responsabilità come singoli o gruppi rispetto alle questioni in gioco nella storia di oggi, non pretendendo di farsi interpreti di una tradizione consegnata al passato. Si pensi agli stimoli enormi per la politica che derivano dal papato di Francesco: egli pone problemi radicati nell’appello evangelico, ma aperti a essere compresi da chiunque abbia a cuore le sorti del bene comune. Naturalmente però quello del papa non è un programma politico, ma costituisce piuttosto una sollecitazione che andrebbe pienamente politicizzata, e per questo tradotta in termini operativi, strutturati e chiari fuori dal contesto ecclesiale. 

DAL SITO: www.rainews.it

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