TIM ha circa 42.000 dipendenti. Una delle poche grandi aziende rimaste in Italia dopo il salasso degli ultimi venti anni di mancata politica industriale dello Stato, di liquefazione delle Partecipazioni Statali e di vendite dei gioielli di famiglia da parte dei tradizionali capitalisti italiani. Ora pare che sia arrivato il suo turno. Confidenza con gli investitori esteri l’ha già avuta. Si trattava di partecipazioni significative ma mai maggioritarie. Ingombranti ma non prevaricanti. E’ di questi giorni, invece, un’offerta “amichevole” del Fondo KKR – uno dei più grandi e autorevoli investitori privati statunitensi – per l’acquisto di tutto il pacchetto azionario.
Gli indizi che si tratti di cosa grossa e inedita sono tre: il valore di Borsa del titolo TIM ha avuto un immediato balzo del 32%, partendo da una posizione bassa; il Governo ha costituito un gruppo di Ministri per monitorare l’andamento della vicenda e per esprimere a tempo debito il consenso o dissenso; la lista degli eventuali advisor che vorrebbero assistere TIM in questo negoziato, se parte, è lunga: ben 18 sono le banche e gli istituti finanziari italiani ed esteri che stanno a bordo campo, sperando di avere un ruolo in questa partita.
Come dicono i pokeristi, il piatto è ricco. Non solo per la consistenza patrimoniale, tecnologica, commerciale dell’azienda. KKR la valuta circa 11 miliardi di euro ed è pronta a versarli agli attuali azionisti sull’unghia. Ma per le implicazioni geo-politiche che questo asset ha nello scenario europeo che prima o poi dovrà darsi una aggregazione adeguata alla sfida cinese e statunitense in questo ambito. E anche per le sempre più strette connessioni con il potenziale controllo dell’intelligenza artificiale che sta già dimostrando inquietanti invasioni di campo finanche negli assetti dei regimi democratici.
Lasciamo questo complesso groviglio di argomenti a prossime valutazioni, anche in considerazione dell’evolversi della situazione – allo stato ancora fluida e informale – ma anticipiamo che non basta dire “c’è la golden share” in mano al Governo per non correre rischi. Anche su un tema come quello dell’occupazione. Quasi tutti quelli che hanno detto la propria sulla TIM, hanno messo l’accento sulla tutela dell’occupazione, a partire dal Presidente del Consiglio.
Dal sindacato questo punto fermo è stato accompagnato dalla preoccupazione circa l’unitarietà dell’azienda. Lo “spezzatino”, in genere, è l’anticamera della riduzione degli organici e questo innervosisce giustamente il sindacato. Ritengo che KKR non farà fatica a dichiararsi favorevolmente a garantire i dipendenti della TIM. Non comprometterà un’operazione così strategica per qualche centinaio o qualche migliaio di esuberi. Se lo pensa, non lo dirà. Se gli necessita, lo farà dopo l’acquisizione, cogliendo l’occasione buona per giustificare il voltafaccia.
Né basta che a farsi garante di questo punto fermo ci sia il Governo in carica. Questi passano, KKR resterebbe. C’è solo una golden share che potrebbe contrastare il rischio di un malgoverno dell’occupazione. E’ la candidatura da parte del sindacato di voler rappresentare i lavoratori nel Consiglio di Amministrazione della società. E se questa dichiarazione di volontà fosse accompagnata dalla disponibilità di far comprare quote di partecipazione al capitale della TIM ai fondi pensionistici cogestiti dal sindacato con le controparti datoriali, la loro forza negoziale sarebbe moltiplicata.
La dimensione e la rilevanza industriale di tale operazione rappresenterebbe anche un salto di qualità nell’azione sindacale, traghettando le rappresentanze dei lavoratori su moderne forme di tutela, anticipatorie delle problematiche, una vigilanza proattiva e non ordinariamente reattiva. Se passano i Governi, passano anche i pacchetti azionari. I veri portatori di interesse di lungo periodo sono i lavoratori. Consentire loro di assumere una responsabilità d’indirizzo e gestione rappresenterebbe un asset strategico per aumentare la solidità dell’intera operazione.
In fondo, l’investimento in una azienda così strategica è di per sé catalogabile come “paziente”, a redditività ragionevole ma sicura, non esposto a usura dei servizi primari e secondari offerti ai clienti. D’altra parte, non è necessario concentrare quote strabilianti in TIM. I fondi negoziali hanno 63 miliardi di euro patrimonializzati, il 30% di tutti i fondi pensionistici e sanitari esistenti in Italia (quelli preesistenti, i PIP, i fondi aperti). Basterebbe che i sindacati confederali, in accordo con le controparti, chiedessero al Governo che fosse autorizzata la destinazione in investimenti pazienti e strategici di un 4% della massa finanziaria accumulata, per poter sedere nella stanza dei bottoni a pieno titolo, a tutela del finanziamento accordato e dell’occupazione rappresentata.
Anche per il capitalismo, dopo la pandemia – malattia figliata direttamente da una Terra ferita gravemente dallo sfruttamento dell’uomo – nulla dovrà essere come prima. Dovrà accettare di rigenerarsi, democratizzarsi, idealizzarsi se vorrà sopravvivere alla sua autodistruzione. Il perseverare nella logica del massimo profitto, del perenne sfruttamento della natura, della sottrazione da ogni forma di controllo e confronto ha solo quello sbocco. Le disuguaglianze e le distorsioni che si sono accumulate sono campane a morte per un vecchio modo di intendere il capitalismo. Nuove strade vanno battute, dopo che la crescita infelice ha dimostrato di non poter essere infinita e la decrescita felice – sperimentata concretamente in questi due durissimi anni di pandemia – non riesce a mantenere la promessa. E queste strade nuove vanno cercate ora, per non arrivare troppo tardi.