La disoccupazione giovanile è il problema numero uno di tutti i governi europei, dove politiche sbagliate di austerità nel momento sbagliato (crisi di domanda) hanno prodotto 6 milioni di giovani senza lavoro e 7,5 milioni di inattivi, che non lavorano e non studiano.
Il problema ha dimensioni diverse da paese a paese non tanto per il diverso grado di sviluppo quanto per le diverse politiche di redistribuzione del lavoro.
Tra gli under 25 i tedeschi a spasso sono il 7% eppure il Pil tedesco è quasi stazionario da almeno 10 anni, ma più a sud le percentuali sono molto diverse, 57% in Grecia e in Spagna, 40% in Italia.
Differenze simili si evidenziano nell’altro indice del lavoro, il tasso di occupazione, ancora più indicativo di quello della disoccupazione, perché mostra la vera capacità dei singoli paesi di dar lavoro a tutti.
I paesi che hanno fatto politiche redistributive –straordinari costosi o aboliti, contratti di solidarietà a sostegno di orari ridotti, pensionamento progressivo, etc.- sono quelli con tasso di occupazione più alti: come si vede dalla tabella, Olanda, Germania, Danimarca, Austria, Svezia, Gran Bretagna, paesi con durata annua del lavoro media intorno alle 1500 ore, hanno tutti tassi di occupazione (occupati su popolazione in età da lavoro) superiore al 70%, al contrario dell’Italia che, con una durata annua di 1778 ore, ha un tasso di occupazione del 56%, inferiore di 9 punti alla media europea del 65%.
Dieci punti in meno della media europea (media, con Grecia, Spagna, noi, etc., non primati nordici), significa almeno 4 milioni di lavori in meno, quelli che ci servono per tirare fuori dal buco nero i nostri 3 milioni di disoccupati e qualche milione di scoraggiato.
Esiste una legge semplicissima che tutti conoscono o dovrebbero conoscere.. Il lavoro si crea se la produzione cresce più della produttività. Oggi che la crescita media del Pil nei paesi industriali arriva con difficoltà al 2%, mentre la produttività oraria continua ad aumentare con tassi intorno al 2%, grazie all’elettronica ed ai nativi digitali, l’occupazione si mantiene alta soltanto nei paesi che riducono gli orari di lavoro.
I paesi europei che hanno fatto politiche in favore di orari annui più corti (legge delle 35 ore in Francia con annualisation des oraires, Kurzarbeit (lavoro corto), contratti di solidarietà e banca delle ore in Germania, part time volontario incentivato in Olanda, flexsecurity in Danimarca e paesi scandinavi, pensionamento progressivo) sono quelli a più bassa disoccupazione (5% in Austria e Germania).
In Italia l’orario annuo è del 23% superiore a quello medio di Francia, Germania ed Olanda, che significa 4 milioni di posti lavoro in meno. L’assurdo rifiuto sancito nella legge Fornero di consentire la “progressive pension”, uscita anticipata dal lavoro a scelta del singolo con pensione ridotta, unita all’altra assurda scelta di innalzare l’età pensionabile a livelli record – nel 2015, con 67 anni, l’Italia avrà il record europeo dell’età pensionabile – ha peggiorato la condizione italiana di lavoro per i giovani e gli altri, esodati inclusi.
Nelle attuali condizioni di bassa crescita, anche dopo aver avviato la ripresa o ripresina, si crea lavoro solo se si fanno politiche di flessibilizzazione e riduzione degli orari annui, altrimenti si ha una ripresa jobless, senza occupati come rischia l’Italia se continua nelle politiche anti occupazione, essendo l’unico paese europeo dove l’ora di straordinario, grazie alla fiscalizzazione, costa meno dell’ora ordinaria.
Riduzione di orario, processo storico, da riprendere.
Eppure la storia italiana della durata del lavoro è diversa, simile a quella degli altri paesi europei. Nel secolo tra il 1900 ed il 2000 in Italia la produttività oraria è aumentata del 2,8% annuo, la produzione del 2,6% e gli orari si sono fortemente ridotti. La durata annua del lavoro si è ridotta in 100 anni da 3000 a 1700 ore – sabato libero, settimana di 40 ore, pause, maternità di 15 settimane, 4-5 settimane di ferie, etc. – così che gli occupati, invece di ridursi (produttività oraria cresciuta più della produzione) sono aumentati da 15 a 21 milioni.
Purtroppo, da quasi 30 anni, il processo di riduzione dell’orario si è invertito, avendo, imprenditori e sindacati, realizzato politiche anti occupazione, di cui la più scandalosa e stupida è la defiscalizzazione dello straordinario. Mentre gli altri paesi europei o abolivano lo straordinario come in Germania o lo rendevano molto costoso come la legge delle 35 ore di Marine Aubry (legge che Sarkozy, dopo avere attaccata in campagna elettorale, non è riuscito ad abolire per il successo della legge che ha il gradimento di tutti, imprenditori in testa, che con la legge hanno realizzato un obiettivo molto importante di flessibilità, nel senso che l’orario di legge vale in chiave anno e non settimana) mentre l’Italia resta l’unico paese dove lo straordinario costa addirittura meno dell’ora ordinaria.
L’uso antioccupazione degli orari si è verificato per carenze culturali di tutti, politici, imprenditori e sindacalisti. È scandaloso che, di fronte ai drammatici dati sulla disoccupazione crescente, anche l’ultimo documento di concertazione di Genova tra Confindustria e sindacati non contenga alcun riferimento al problema degli orari. Come è scandaloso che imprenditori e sindacati continuino a preferire la cassa integrazione, anche quella straordinaria pagata dallo Stato, cioè da noi tutti, al posto delle riduzioni di orario assistiti da contratti di solidarietà.
Solo l’Italia non ha ancora scoperto che l’uso indiscriminato e atemporale della Cig è negativo perché costosissimo, lede la dignità dei lavoratori e non dà alcuna garanzia, neanche formativa, per una loro ricollocazione in altro lavoro al posto della cosiddetta mobilità, anticamera della disoccupazione.
Mentre il dott. Marchionne ha preferito affrontare un aumento di domanda della Panda a Pomigliano con lo straordinario del sabato rifiutando la proposta sindacale del contratto di solidarietà attivo (richiamando al lavoro una parte delle migliaia di lavoratori in Cig), i tedeschi si sono comportati in modo opposto, dimostrando un senso di responsabilità diverso.
Allo scoppio della crisi, le industrie dell’auto sono state le prime a imboccare la via dei contratti di solidarietà, ad esempio scambiando alla Daimler la dismissione di 2000 lavoratori con una riduzione di orario per 20mila. VW, Opel e altre fabbriche hanno seguito col risultato che nel 2009, con Pil negativo del 5%, l’occupazione tedesca non calò di una unità.
Anche la sinistra italiana ha un ritardo culturale grave sulla questione tempi di lavoro. La sconfitta più recente risale al primo governo Prodi, quando ad affossare la proposta di legge sulle 35 ore fu Bertinotti con la pretesa, sbagliata, di volere una legge prescrittiva e antisindacale e non di orientamento della contrattazione alla francese, loi d’orientation, come voleva Prodi. In Italia sono maturi i tempi per generalizzare l’uso negoziale dei contratti di solidarietà alla luce della loro superiorità, di costo monetario, economico e sociale.
Faccio un esempio. Se un’azienda di 4 operai deve ridurre il monte ore del 25% ha due vie, o mette in Cig un operaio con un costo pubblico di 1500 euro al mese (1000 di salario e 500 di oneri figurativi) o riduce orario e salario del 25% per tutti. In questo caso, applicando il contratto di solidarietà, lo Stato, che compensa la metà delle perdite salariali da minor orario, oltre agli oneri sociali, spende solo 900 euro, cioè per ciascuno dei 4 operai, 125 euro di salario e 100 di oneri sociali.
Questa solidarietà non solo costa meno a parità di risultati produttivi, ma ha altri due vantaggi, salva la dignità degli operai che non restano inattivi, riduce il mercato del lavoro nero che la Cig alimenta. E, last but not least, consente all’azienda di agganciare subito la ripresa. Un’analisi empirica sulle aziende tessili del comasco-bergamesco, ha mostrato con evidenza che le aziende che prima e con più convinzione applicarono i contratti di solidarietà (30 ore, 5 turni, etc.) sono la maggioranza tra quelle ancora in vita.
Modernizzare i servizi per fare politiche pro labor.
Fare politiche pro labor significa anzitutto puntare alla modernizzazione dei servizi, che nei paesi industriali pesano il 75% di Pil ed occupazione, contro il 68% in Italia.
Purtroppo, l’Italia ha un ritardo storico grave nella politica industriale per i servizi. Anche il recente Patto per la crescita di Confindustria e sindacati di Genova non mostra nessuna attenzione ai servizi, oltre ad ignorare le politiche di redistribuzione del lavoro.
L’indagine Excelsior ci aveva informato che delle 330mila nuove assunzioni previste nel primo semestre di quest’anno (-13,2% in base anno) solo una professione su dieci era riconducibile al manifatturiero. Niente di nuovo, visto che da decenni è in atto un continuo trasferimento di produzioni manifatturiere verso i paesi emergenti, trasferimento più che compensato, a livello occupazionale, da un processo di terziarizzazione.
Oggi il peso del manifatturiero sul Pil e sull’occupazione dei paesi industriali è la metà di trent’anni fa, il 16%, con Germania, Italia e Giappone ai massimi del 19% e gli U.S.A. al minimo, 14%. Ciononostante, l’occupazione in questi paesi non è calata affatto; il tasso di occupazione dei 30 paesi dell’OCSE è oggi del 65% esattamente come quello di venti anni fa. Tra le eccezioni negative al processo di modernizzazione terziaria c’è l’Italia, che ha la più bassa quota di terziario tra tutti i paesi industriali e che ha perso addirittura posizioni in settori a noi congeniali come cultura e turismo.
Senza contare le perdite di competitività in tutti gli altri settori, trasporti aerei, ferroviari, stradali e navali, istruzione e ricerca, assistenza alle imprese, trading internazionale, informatica, cine TV, etc., tutti settori dove oggi paghiamo anche una crescente dipendenza dall’estero, con bilance commerciali negative, che significa anche finanziare lavoro estero.
Le nostre esigenze di lavoro sono immense, se si guarda ai dieci punti che dividono il nostro tasso di occupazione da quello europeo e questi posti non verranno mai dall’industria, possono venire solo dal terziario. Non che non vadano fatti sforzi per ammodernare l’industria, ma questi sforzi potranno al massimo contenere il calo dell’occupazione manifatturiera.
Per quanto riguarda il nostro manifatturiero, le previsioni più ottimistiche al 2020 (Cacace, Equità e sviluppo, F.Angeli) sono un “difficile” mantenimento degli attuali 4,5 milioni di occupati, a patto che si faccia una politica industriale che, lungi dal difendere produzioni energivore indifendibili, predisponga incentivi ed interventi diretti per aiutare ristrutturazioni tecnologiche, riconversioni settoriali ed aziendali.
A queste esigenze ben risponde l’intesa sindacati-Confindustria, con le richieste per sostenere ricerca ed innovazione, ma non basta. È bene sostenere con buone politiche l’industria manifatturiera, ma è completamente fuori da ogni scenario realistico puntare a nuovo lavoro senza un piano industriale per i Servizi, unico settore da cui è possibile aspettarsi nuova occupazione.
L’obiettivo occupazione è vitale per l’Italia ma con la attuali normative e le ridotte previsioni di crescita del Pil, con c’è lavoro per tutti. Con una crescita che difficilmente supererà il 2% annuo, gli spazi occupazionali reali potranno venire solo da politiche di modernizzazione dei servizi e di redistribuzione del lavoro, come hanno da anni capito gli altri paesi industriali.
Tabella Orari annuali di lavoro per lavoratore e Tassi di occupazione . anno 2010
Orari annuali per lavoratore Tassi di occupazione
N. ore (% occupati su popolaz. 15-64 anni)
Olanda 1.377 74,7
Norvegia 1.414 75,4
Germania 1.419 71,2
Belgio 1.551 62,0
Francia 1.554 64,0
Danimarca 1.559 73,4
Austria 1.587 71,7
Svezia 1.624 72,7
Svizzera 1.640 78,6
Gran Bretagna 1.647 70,3
Spagna 1.663 59,4
Finlandia 1.697 68,3
Irlanda 1.664 60,4
Portogallo 1.714 65,6
OCSE 1.749 64,6
Italia 1.778 56,9
Slovacchia 1.786 58,8
Polonia 1.939 59,3
Rep. Ceca 1.947 65,0
Ungheria 1.961 55,4
Grecia 2.109 59,6
Fonte. Ocse, Annual hours worked per work
(*) Presidente della società di business intelligence Onesis di Roma