“Negli anni 80 gli operai rappresentavano il 70% dei lavoratori e gli impiegati il 30%, ma in poco meno di 40 anni questo rapporto si è modificato e nel 2018 si è verificato un vero e proprio sorpasso. Nel 2019 la composizione dei lavoratori delle principali aziende metalmeccaniche vedeva la percentuale operaia attestarsi al 46,8% (con uno scostamento pari a -25,3% rispetto agli anni ’80) e quella impiegatizia salire al 52,6%.” Questa è una delle tante significative affermazioni contenute nella relazione introduttiva di Giovanna Petrasso, all’Assemblea organizzativa della FIM CISL, svoltasi il 25 e 26 ottobre di quest’anno a Roma. Mi ha fatto piacere parteciparvi, perché oltre a procurarmi suggestioni che qui sintetizzo, mi ha fatto verificare che la passione e l’impegno attraversano in particolar modo, la nuova generazione delle sindacaliste e dei sindacalisti. Di questo, bisogna dare merito al grande sforzo che Roberto Benaglia e la sua Segreteria sta mettendo, senza crogiolarsi negli allori del passato.
Nella tradizione della CISL, l’Assemblea organizzativa è una sorta di check up a metà percorso tra un congresso e l’altro per tarare l’attività delle strutture del sindacato a tutti i livelli e per capire le tendenze (generazionali, di genere, professionali, settoriali, territoriali e così via) di chi si rappresenta e fare le scelte conseguenti. Generalmente, non è un momento di confronto compromettente le sorti dei gruppi dirigenti, ma quella frase della relazione la dice lunga su quello che un sindacato storico, divenuto importante sull’onda della prima grande industrializzazione del Paese, è chiamato ad affrontare, ora che finanche il postindustriale declina, lasciando spazio all’economia della conoscenza.
L’industria metalmeccanica è da tempo attestata su circa due milioni di dipendenti, a dimostrazione della sua robusta consistenza (nonostante la perdita di quota delle grandi fabbriche a vantaggio delle medie e piccole) e della sua capacità di riadattamento produttivo. E’ sul piano qualitativo che sta vivendo una lunga trasformazione occupazionale. I white collars – soprattutto tecnici, specialisti, sviluppatori di mercato piuttosto che amministrativi – stanno surclassando i blue collars (al cui interno prevalgono i professionali sugli operai comuni).
E’ evidente che le categorie culturali, gestionali, contrattuali e organizzative che hanno caratterizzato il sindacato nel 900 non sono più sufficienti per affrontare questo inizio di secolo. Vale per i metalmeccanici, ma riguarda l’insieme del sindacalismo confederale. La discussione è aperta, la consapevolezza è palpabile, le soluzioni sono in divenire. Potranno essere quelle giuste se si abbandonano vecchie parole d’ordine e se ne trovano di nuove, se prevale lo sforzo di una ricerca collettiva prima ancora di un movimentismo quasi nostalgico.
Su almeno tre fronti. Quello di essere autorità salariale. Alla luce di questa premessa, la questione del salario minimo diventa parte e non tutto della problematica salariale di questo Paese. Complessivamente, i salari sono bassi e una tornata salarialista negli imminenti rinnovi contrattuali è prevedibile. Ma nessun successo quantitativo risolve la questione, se non è accompagnato da una valorizzazione e flessibilità del salario professionale. Esso va strettamente connesso ad uno sviluppo consistente e ben congegnato delle possibilità di formazione dei lavoratori per riqualificarsi e alle possibilità per il sindacato di contrattarlo e controllarlo soprattutto a livello aziendale.
L’altra problematica che si apre è quella della eccessiva frantumazione delle forme contrattuali che caratterizza il ciclo produttivo delle aziende più innovative. In esse, sempre più, intorno ad un nucleo “forte” di professionalità e ruoli normalmente a tempo indeterminato, si compongono e si scompongono arcipelaghi di aziende o singoli lavoratori che svolgono attività complementari ma non meno importanti ai fini del risultato di impresa. In questi, si ritrovano diversità di forme contrattuali, prevalentemente a tempo determinato, ma anche trattamenti normativi ed economici diversi e spesso peggiori rispetto a quelli dell’area “forte”. Alla lunga, questa flessibilità organizzativa non migliora la produttività complessiva e mina la credibilità del sindacato, specie se tende ad arroccarsi tra la gente della casa madre.
La terza esigenza che propone il nuovo assetto delle professioni nelle imprese è di natura organizzativa. Era facile rimanere sindacato di massa quando la maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici iniziava e finiva il proprio ciclo lavorativo nella stessa azienda. In un’altra parte della relazione che ho citato all’inizio si dice testualmente: “Ad ogni inizio d’anno, dobbiamo risalire la china di più di 30.000 iscritti, circa il 21% del dato associativo, concentrato soprattutto nelle piccole e medie aziende”.
Non è pensabile che la FIM (ma questo turnover vale anche per quasi tutte le categorie di CGIL, CISL e UIL) perda un quinto dei propri associati per insoddisfazione verso sé stessa. Più verosimile è l’ipotesi che, al netto di una piccola parte che va in pensione, c’è una forte mobilità individuale da posto a posto di lavoro che è incontrollata dal sindacato. Se non si trovano modalità contrattuali e di servizi alla persona che consentano al lavoratore di non perdere il contatto con il sindacato, la sindacalizzazione diventa proprio una fatica di Sisifo.
In definitiva, c’è da aspettarsi la creazione di una nuova cassetta degli attrezzi per un sindacalismo che voglia continuare nel solco delle conquiste del passato ma con la consapevolezza di dover proporre visioni, linguaggi, obiettivi e strumenti corrispondenti alle caratteristiche che va assumendo il lavoro del terzo millennio.