Uno spettro si aggira per l’Italia, si chiama “residuo fiscale” e minaccia di minare le basi dell’unità nazionale. Ha cominciato a evocarlo Luca Ricolfi (oggi peraltro semi pentito) nel 2010 in un saggio intitolato “Il sacco del Nord”, seguito poi dalla CGIA di Mestre, da Eupolis, istituto della regione Lombardia, e da alcuni studiosi. A livello regionale il residuo fiscale è la differenza tra quanto residenti e imprese situate nel territorio versano allo stato (sotto forme di imposte, contributi e altro) e quanto ricevono sotto forma di servizi e trasferimenti.
La tesi, supportata dalle varie stime che mostrano un’eccedenza delle entrate pubbliche rispetto alle spese in molte regioni del Nord e un risultato opposto per la totalità delle regioni del Sud, è quella che il Nord “mantiene” il Sud, che il Nord “paga” le inefficienze del Sud e via discorrendo. Da queste considerazioni parte la richiesta di un maggior decentramento e, soprattutto, la richiesta di una diversa redistribuzione delle entrate pubbliche con riferimento alla capacità impositiva nelle singole regioni in modo da ridurre, se non annullare, il residuo fiscale delle singole regioni.
Il paradosso è che il termine “residuo fiscale” usato oggi per eliminare/ridurre i residui fiscali regionali nasce per il motivo esattamente opposto. Il termine è coniato nel 1950 dall’economista americano James M. Buchanan (premio Nobel 1986) che nel suo lavoro Federalism and fiscal equity lo usa per giustificare eticamente i trasferimenti di risorse dagli stati più ricchi a quelli meno ricchi degli USA. Buchanan parte dal principio di equità orizzontale in base al quale ogni cittadino a parità di reddito deve avere lo stesso trattamento dall’amministrazione pubblica, stessa tassazione e stessi benefici e quindi lo stesso residuo fiscale, a prescindere dallo stato di residenza. Se questo principio è realizzato, ne discenda giocoforza che gli stati con una concentrazione maggiore di cittadini ricchi rispetto ad altri, hanno necessariamente un residuo fiscale maggiore rispetto a questi ultimi. Fondamentale per Buchanan è che a parità di reddito i cittadini usufruiscano dello stesso trattamento ovunque risiedano.
Nella nostra Costituzione non troviamo il termine residuo fiscale ma c’è lo stesso concetto di equità orizzontale affermato da Buchanan. L’art. 53 prevede che “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”, mentre gli art. 117 e 120 tutelano i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, “prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”. L’insieme dei tre articoli stabilisce un principio di redistribuzione tra i redditi più elevati e quelli più bassi che non è legato all’area di residenza del singolo cittadino ma alla sua condizione reddituale da un lato e ai vari programmi di spesa dall’altro di cui può essere beneficiario (secondo età, stato di salute, condizione lavorativa, reddito, ecc.). I residui fiscali regionali non derivano quindi da caratteristiche particolari del territorio (con l’eccezione in parte delle regioni a statuto speciale) ma dalla somma dei residui fiscali in capo ai residenti nelle diverse regioni.
Affermare che vanno ridotti/eliminati i residui fiscali regionali, significa mettere in discussione questi tre articoli della Costituzione, significa mettere in discussione il patto sociale che lega il paese, significa mettere in discussione altri residui fiscali. Perché nella stessa regione la provincia più ricca deve sostenere quella più povera? Perché se la “ricca” Lombardia non vuole sostenere la “povera” Calabria il “ricco” lombardo deve sostenere il “povero” lombardo?
I dati Banca d’Italia
Ma quali sono i numeri dei residui fiscali? Nel 2009 la Banca d’Italia pubblicò uno studio sui flussi redistributivi interregionali che ricostruiva e analizzava i residui fiscali nelle regioni. E’ uno studio valido ancora oggi per quello che riguarda la metodologia di ricostruzione dei dati e anche per alcune osservazioni sui dati ricostruiti, sulla loro validità e sui loro limiti. Banca d’Italia continua a produrre dati sui residui fiscali e possiamo rifarci agli ultimi pubblicati e riportati nella tabella seguente.
L’economia delle regioni italiane
Banca d’Italia – Ripartizione territoriale del Conto delle Amministrazioni pubbliche (1) |
|||
(valori medi del periodo 2013-15; euro pro capite reali) |
|||
REGIONI |
Spesa primaria |
Entrate |
Residuo fiscale |
Piemonte |
11.837 |
12.964 |
1.127 |
Valle d’Aosta |
18.648 |
16.590 |
-2.058 |
Lombardia |
11.218 |
16.640 |
5.422 |
Provincia autonoma di Bolzano |
16.377 |
16.689 |
312 |
Provincia autonoma di Trento |
16.903 |
14.529 |
-2.374 |
Veneto |
10.992 |
13.028 |
2.036 |
Friuli Venezia Giulia |
13.680 |
13.015 |
-665 |
Liguria |
13.282 |
12.866 |
-416 |
Emilia-Romagna |
11.634 |
15.047 |
3.412 |
Toscana |
11.790 |
12.675 |
885 |
Umbria |
12.265 |
11.118 |
-1.147 |
Marche |
11.310 |
11.309 |
0 |
Lazio |
12.124 |
15.483 |
3.359 |
Abruzzo |
12.062 |
9.823 |
-2.239 |
Molise |
12.403 |
8.629 |
-3.774 |
Campania |
9.789 |
7.703 |
-2.086 |
Puglia |
10.424 |
7.913 |
-2.511 |
Basilicata |
12.812 |
8.400 |
-4.412 |
Calabria |
12.525 |
7.005 |
-5.519 |
Sicilia |
10.967 |
7.352 |
-3.615 |
Sardegna |
13.014 |
8.465 |
-4.549 |
Italia |
11.539 |
12.163 |
625 |
RSO |
11.377 |
12.653 |
1.276 |
RSS |
12.448 |
9.392 |
-3.056 |
Centro Nord |
11.819 |
14.407 |
2.589 |
Sud e Isole |
10.953 |
7.801 |
-3.152 |
Fonte: elaborazioni su Conti economici territoriali dell’Istat, Conti pubblici territoriali (CPT) del Ministero dello Sviluppo economico, dati del Ministero dell’Istruzione e del Ministero della Salute. Anno base_2010. |
I dati elaborati da Banca d’Italia mettono in evidenza che per quanto riguarda la spesa primaria pro-capite (cioè al netto degli interessi sul debito pubblico) le differenze tra le regioni, in particolare quelle a statuto ordinario, sono contenute. Spiccano i livelli elevati di spese di alcune regioni a statuto straordinario, in particolare le Province autonome di Bolzano e Trento e la Val d’Aosta, per effetto delle consistenti risorse finanziarie di cui queste regioni beneficiano. Tra Centro-nord e Mezzogiorno la differenza è invece contenuta con un livello di spesa pro-capite nelle regioni centro-settentrionali (11.819 euro) superiore a quello delle regioni meridionali (10.953).
La differenza di spesa primaria pro-capite a favore del Centro-nord è dovuta essenzialmente alla spesa per prestazioni sociali (secondo Banca d’Italia pari a 5.700 euro nelle regioni centro-settentrionali contro i 4.440 in quelle meridionali) sulla quale influisce la struttura per età della popolazione (nella sanità una popolazione più anziana produce una maggiore spesa pro-capite) e l’importo medio delle pensioni più elevato nel Centro-nord per la diversa struttura economica e per la diversa storia contributiva dei residenti.
A differenza delle spese, invece, le entrate nelle singole regioni sono molto diverse. I dati Banca d’Italia indicano che le entrate pro-capite nel Centro-nord sono quasi il doppio rispetto a quelle delle regioni meridionali (14.407 euro rispetto a 7.801) con una variazione molto accentuata tra regione e regione. Il divario regionale è tutto riconducibile al diverso sviluppo economico delle regioni e al diverso grado di ricchezza/reddito dei residenti nelle singole regioni. C’è una correlazione molto stretta tra le entrate pro-capite e il Pil pro-capite nelle singole regioni. E’ soprattutto questa differenza nelle entrate che produce la forte divaricazione nei residui fiscale delle singole regioni.
I dati dei Conti pubblici territoriali
Una conferma di quanto detto deriva anche dall’analisi di entrate e uscite fatta dall’UPB (Ufficio parlamentare di bilancio) sulla base dei dati dei Conti Pubblici Territoriali riportati in tabella.
Spese, entrate e residui fiscali per regione e macro-aree
2013-15 (valori medi in euro pro capite prezzi costanti 2010)
|
Conti pubblici territoriali |
||
|
Spesa |
Entrate |
Residuo fiscale |
Piemonte |
13.597 |
13.818 |
221 |
Valle d’Aosta |
18.265 |
18.332 |
68 |
Lombardia |
13.175 |
16.869 |
3.695 |
Trentino – Alto Adige |
16.149 |
16.478 |
329 |
Veneto |
11.359 |
13.970 |
2.611 |
Friuli Venezia Giulia |
15.975 |
14.331 |
-1.644 |
Liguria |
14.119 |
14.111 |
-9 |
Emilia-Romagna |
12.836 |
15.864 |
3.028 |
Toscana |
12.446 |
13.911 |
1.465 |
Umbria |
12.517 |
12.256 |
-261 |
Marche |
11.675 |
12.567 |
892 |
Lazio |
17.530 |
16.713 |
-817 |
Abruzzo |
13.094 |
11.736 |
-1.358 |
Molise |
12.391 |
9.764 |
-2.627 |
Campania |
10.081 |
8.624 |
-1.456 |
Puglia |
10.561 |
9.370 |
-1.192 |
Basilicata |
11.764 |
9.777 |
-1.987 |
Calabria |
11.548 |
8.536 |
-3.012 |
Sicilia |
10.676 |
8.704 |
-1.972 |
Sardegna |
12.352 |
9.711 |
-2.641 |
Italia |
12.717 |
13.168 |
451 |
RSO |
12.155 |
13.195 |
1.040 |
RSS |
12.427 |
10.671 |
-1.756 |
Centro Nord |
13.680 |
15.295 |
1.615 |
Sud e Isole |
10.912 |
9.115 |
-1.797 |
Fonte UPB da dati Open CPT
I diversi valori riferiti alle singole regioni rispetto all’analisi Banca d’Italia, derivano in buona misura dalle diverse metodologie usate per la regionalizzazione di spese ed entrate. In particolare per quello che concerne le spese due sono le differenze maggiori: l’inclusione o meno degli interessi passivi sul debito pubblico (esclusi da Banca d’Italia) e l’imputazione di alcune spese generali (come ad esempio servizi generali della PA, Difesa, Ordine pubblico e sicurezza) secondo il criterio del beneficio (spesa ripartita pro-capite per i residenti regionali) o secondo quello dell’erogazione territoriale. Secondo i criteri usati le entrate e, quindi, i residui regionali possono essere anche sensibilmente diversi.
Nel caso della Lombardia a esempio, secondo le stime di Banca d’Italia (e anche di EuPolis e Cnr-Issirfa che usano lo stesso criterio del beneficio) il residuo fiscale si aggira attorno ai 5.500 euro pro-capite. Secondo le elaborazioni fatte dall’UPB in base ai dati open CPT, che adottano il criterio dell’erogazione territoriale, il residuo fiscale della Lombardia scende invece a 3.700 euro. Nel caso del Lazio il residuo fiscale positivo superiore ai 3.000 euro pro-capite secondo i dati Banca d’Italia, si tramuta con i dati Open CPT in un residuo negativo di 817 euro pro-capite. In questo caso la motivazione della differenza è dovuta principalmente al fatto che il Lazio sconta la collocazione nel suo territorio di molti servizi generali della PA.
Anche i dati CPT confermano, comunque, una contenuta differenza nei livelli di spesa pro-capite nelle singole regioni e una differenza sensibilmente più elevata nei livelli di entrate pro-capite. Sono queste ultime a determinare in misura preponderante l’ammontare del residuo fiscale.
La ragione sta nel fatto che le spese riflettono in larga misura benefici goduti dai residenti in quanto tali (spese generali della PA, Pubblica sicurezza, Difesa) ripartiti in base al numero dei residenti nelle varie regioni e spese derivanti da benefici goduti dai singoli residenti sulla base delle loro caratteristiche di bisogno e indipendentemente dalla loro allocazione geografica. Le entrate invece sono correlate ai redditi e alla ricchezza dei singoli contribuenti e alle capacità produttive esistenti nei vari territori.
Il ruolo della spesa sociale
Un’analisi più in profondità della spesa a livello regionale è resa possibile grazie ai dati contenuti nel Rapporto CPT 2018. Nel 2016 la spesa corrente del Settore Pubblico Allargato misurata in valori pro-capite costanti, è pari nel Centro-Nord a 13.868 euro, nelle regioni meridionali a 10.945. Scorporando la spesa corrente per settori, risulta che in tutti la spesa pro-capite nel Centro-Nord è superiore a quella del Mezzogiorno e che le differenze più rilevanti sono nella spesa sociale. Nella Sanità le regioni centro-settentrionali hanno una spesa di 1.898 euro pro-capite rispetto a 1.575 delle regioni meridionali; nella previdenza una spesa di 5.432 euro pro-capite nel Centro-Nord e una di 3.737 euro nelle regioni meridionali. Una differenza, come detto in precedenza, dovuta alla diversa struttura per età della popolazione e alla diversa storia contributiva dei residenti.
Certo, se si confronta il livello di spesa corrente, e di spesa sociale in particolare, con il Pil pro-capite regionale il rapporto è molto più alto nelle regioni meridionali che in quelle settentrionali e indica una redistribuzione di risorse tra Nord e Sud operata dall’intervento pubblico mediante imposte e contributi da un lato e programmi di spesa, in primis quella sociale, dall’altro. Ma è primariamente una redistribuzione tra cittadini, tra individui come ha sottolineato il presidente dell’UPB Pisauro nell’audizione alla Camera sopra citata. E’ una redistribuzione frutto della nostra Costituzione, come ricordato all’inizio, con gli art. 53, 117 e 120.
Come redistribuire le risorse
Se i principi costituzionali richiamati sono l’elemento predominante nel determinare i residui fiscali regionali vi possono certamente essere dei flussi nella ripartizione delle risorse legati alla spesa storica e questa può essere a sua volta determinata anche da una minore efficienza della spesa pubblica nel Mezzogiorno. E’ questo certamente un tema da non trascurare, non dimenticando, tuttavia, che le conseguenze di una minore efficienza nella spesa non si riflettono tanto sui residenti nel Centro-nord, ma principalmente, se non esclusivamente, sui residenti nelle regioni meridionali cui sono dati, a parità di risorse, meno servizi o servizi peggiori. Ancora non va dimenticato che nel calcolo dei residui fiscali non entra il peso che il sostegno al reddito delle regioni meridionali attraverso la spesa pubblico ha nel sostenere un elevato livello di flussi di beni e servizi dal Nord al Sud dell’Italia.
Il problema sul tappeto nell’attuale discussione sul federalismo differenziato non deriva dalla minore efficienza delle amministrazioni meridionali. Questo problema si può affrontare con una migliore e più puntuale definizione dei benefici e dei costi standard, con misure che consentano allo stato centrale di intervenire al posto delle amministrazioni locali in caso di palesi inefficienze. Il punto sollevato è quello di una diversa distribuzione delle entrate, problema accentuato dal progressivo taglio negli ultimi anni dei trasferimenti dallo stato agli enti locali in seguito alle note difficoltà del bilancio pubblico.
Che questo sia il vero nodo della discussione attuale lo testimoniano le dichiarazioni dei Governatori di Lombardia e Veneto, i contenuti iniziali dei referendum consultivi del 2017, il contenuto di una proposta di legge da trasmettere al Parlamento nazionale approvata dal Consiglio regionale veneto. Solo la bocciatura da parte della Corte Costituzionale ha eliminato dai referendum consultivi i quesiti sulla percentuale di imposte e tributi da trattenere nel territorio regionale, mantenendo solo il quesito su ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia previste dall’art. 117. Nella proposta di legge approvata dal Consiglio regionale veneto si afferma che debbono restare in regione i nove decimi di Irpef, Ires, Iva riscossi sul territorio.
Affermazioni e richieste di questo tipo, ma anche parametrare i fabbisogni standard, come scritto purtroppo, nelle pre-intese firmate dal governo Gentiloni, alle entrate territoriali, significa mettere in discussione la solidarietà nazionale introducendo un elemento, il luogo di residenza, fino ad oggi non considerato. La conseguenza diretta sarebbe la messa in discussione o dell’art. 53 della Costituzione (imposizione progressiva in base alla propria capacità contributiva) o degli art. 117 e 120 (garanzia di prestazioni uguali per tutti), se non di entrambi.
A fronte dell’importanza fondamentale di questa discussione per il futuro del paese va infine sottolineata la totale mancanza di trasparenza della discussione in atto. Non si conoscono i contenuti delle tre intese con le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. L’iter di approvazione sembra quello previsto per le intese con le confessioni religiose: un accordo tra governo e regioni che il Parlamento può solo approvare o respingere ma non modificare. In sostanza una modifica costituzionale sulla quale il parlamento non può intervenire, demandata a una trattativa, che potremo definire privata, tra governo e regioni e a commissioni tecniche che decideranno in autonomia dal parlamento la redistribuzione di risorse e competenze. L’impossibilità per il parlamento di intervenire per almeno dieci anni, durata prevista delle intese, sulla materia.
Parafrasando un celebre detto di Clemenceau, si può dire che governatori e governo ritengono l’autonomia differenziata una cosa troppo seria per farla fare al Parlamento.