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Autonomia regionale differenziata, riforma che fa male al Paese

A pochi mesi dalle elezioni, regionali ed europee del 2024, i tre partiti della maggioranza di governo sentono l’esigenza impellente di qualificarsi individualmente, sulla base delle scelte dell’esecutivo, in modo da trovarsi nella condizione migliore in una competizione che avvertono come decisiva per il loro futuro. 

In seguito a ciò Meloni ha proposto di realizzare, prima delle europee, almeno un passaggio alle Camere della riforma del Premierato; la Lega fin dall’inizio, tramite il pressing permanente del ministro Calderoli, vuole realizzare l’Autonomia regionale differenziata; Forza Italia, oltre a chiedere un rallentamento nella revoca del Superbonus, vuole che la riforma della Giustizia proceda parallelamente alle altre due. Il tutto dando per scontata la bontà di queste riforme, prescindendo dai loro effetti sullo stato del Paese. 

La riforma che appare ad uno stadio più avanzato è quella dell’Autonomia regionale per una serie di motivi.  Innanzitutto, ha ottenuto in questi giorni una prima approvazione dalla commissione Affari Costituzionali del Senato per cui ora sarebbe pronta per il passaggio in Aula. In secondo luogo, trattandosi di una legge ordinaria non richiede un doppio passaggio e anche un referendum abrogativo (art,75 cost.) corre il rischio di inammissibilità trattandosi di un collegato alla finanziaria, e comunque la condizioni generali delle 500 mila firme o cinque consigli regionali rimangono risultati difficili. 

Dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, tramite la Legge costituzionale n.3 del 2001, si sono manifestate iniziative di segno ambiguo che non escludevano la secessione del Nord.  Ad esempio, la Regione Veneto, con la legge regionale 19 giugno 2014, prevedeva una consultazione popolare avente per oggetto il quesito “Vuoi che il Veneto diventi una Repubblica, indipendente e sovrana? Si o No?” bocciata dalla Consulta. E successivamente la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi, di segno opposto è stata bocciata dal referendum popolare. 

Il meccanismo di attuazione dell’autonomia regionale, che dal 2017 ha visto protagoniste le regioni Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, ha coinvolto successivamente, tramite le iniziative dei diversi governi che si sono succeduti, pressoché tutte le forze politiche in direzione di rivendicare ulteriori forme e condizioni di autonomia. Il progetto di legge Calderoli, del governo Meloni, ha cercato di raccogliere buona parte delle scelte maturate in questi ultimi sei anni, ma ha mantenuto il vizio di origine di essere rimasto una rivendicazione pressoché esclusiva della Lega, sostenuta all’insegna dell’alternativa: “O si vara l’Autonomia o cade il governo”. 

Per accelerare i tempi si è proceduto alla nomina di una commissione di esperti, presieduta dal prof. Sabino Cassese, per definire l’entità e l’attuazione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni), cioè dei livelli standard di diritti civili e sociali, da diffondere su tutto il territorio nazionale, considerati come precondizione per realizzare l’autonomia regionale. La Commissione ha individuato circa 250 Lep e ha presentato una relazione conclusiva incompleta perché mancano le relative risorse da assegnare ad ognuno. 

Ora le precondizioni della definizione dei Lep, da garantire su tutto il territorio nazionale, e della relativa precisazione dei fabbisogni e dei costi standard, nelle attuali condizioni del nostro bilancio pubblico, rappresentano un ostacolo difficilmente superabile. Ma ciò che complica ulteriormente il quadro è che, per effetto della rivendicazione pregiudiziale della Lega, il dibattito sull’Autonomia ha largamente trascurato il suo impatto sulle attuali condizioni del Paese, che oggi, dentro le difficoltà economiche sociali nelle quali si trova, non risulta preparato ad assorbire e a gestire questa riforma. 

Finora, al di là degli schieramenti politici, le posizioni di dissenso subissano nettamente i consensi. Dall’insieme dei cittadini (60% contro) ai rappresentanti delle istituzioni locali (Anci e Upi), alle forze sociali (associazioni professionali e sindacati). Le motivazioni vanno da quelle più radicali (spacca l’Italia) alla diffusione delle disuguaglianze, all’accaparramento di ulteriori risorse del Nord alla corrispondente regressione del Sud. Anche negli stessi partiti di governo, a parte la Lega, sia FdI che FI manifestano una evidente contrarietà che si manifesta nel creare difficoltà di vario genere circa i tempi del provvedimento, per cui l’ultima condizione della Lega di varare l’Autonomia entro il 2024 appare ancora del tutto incerta. 

Va ricordato che, il passaggio in commissione del Senato, le funzioni potenzialmente trasferibili alle Regioni sono passate dalle 23, previste dal Ddl Calderoli, a 15, ma ciononostante, dato l’attuale florilegio delle Regioni italiane, accentuato dall’impatto conflittuale del governo Meloni nel Paese, il pericolo che la differenziazione si trasformi in caos che oscura la stessa identità delle Regioni è più che possibile. 

Quindi, se in questo contesto il provvedimento venisse approvato, sarebbe, oltretutto, una grave incrinatura della nostra democrazia, per cui un volgare baratto tra i partiti di questa maggioranza, consentirebbe a circa il 10% degli elettori, che a fatica raggiungono la metà degli aventi diritto, di approvare una legge rifiutata dalla stragrande maggioranza dei cittadini.

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