La vicenda dell’ILVA è ingarbugliata, complicata e comunque va risolta, salvandola. Chi parla di chiusura – al netto della comprensibile esasperazione degli abitanti del quartiere Tamburi che hanno visto e speriamo che non ne vedranno molti morti per colpa delle polveri provenienti dallo stabilimento – non sa quel che dice, o per ignoranza o per malafede. Si tratta del più grande stabilimento siderurgico europeo, produce l’1% del PIL, è grande tre volte Taranto, procura lavoro direttamente e nell’indotto a circa 15000 persone.
E’ così ingarbugliata questa lunga storia, che si sta discutendo dell’introduzione di uno “scudo penale”. Dovrebbe distinguere le responsabilità di chi non ha fatto il proprio dovere per salvaguardare lavoro e salute – pur essendosele assunte prendendo quattrini pubblici a questo scopo dedicati – da chi dovrà riparare ai danni prodotti sia a coloro che lavorano che agli abitanti delle zone contigue. C’è una punta di giustizialismo in chi si oppone alla nascita di questo “scudo”; impedisce al buon senso di manipolare la materia giuridica con la delicatezza necessaria. Se a questo si aggiunge la carica di politicizzazione che aleggia intorno a questa discussione – al punto che in Parlamento ci sono state quattro votazioni al riguardo, con un’altalena di voti favorevoli e contrari nella stessa maggioranza, nel giro di pochi mesi – si comprende che qualsiasi imprenditore ma anche qualsiasi lavoratore non muoverebbe dito senza sapere se lo “scudo” c’è o non c’è.
Anche ammesso che Mittal stia strumentalizzando questo aspetto della vicenda, è fuori discussione che il resto della questione e cioè l’attuazione del piano industriale e ambientale, è complicato. C’è un contratto, tra commissari straordinari che gestiscono la proprietà degli impianti e Arcelor Mittal, che dettaglia quel piano. Hanno ragione quelli che dicono che pacta sunt servanda. Ma c’è anche una congiuntura economica che incombe, tanto da far perdere all’azienda una quantità considerevole di euro, ogni giorno. Far finta che il problema non esista è farisaico.
La questione è se va affrontato soltanto in chiave congiunturale o strutturale. In questo secondo caso, pare esserci una strana convergenza di vedute tra gli oltranzisti e l’azienda indiana. C’è la sensazione che i primi stiano ammainando la bandiera della chiusura dell’impianto tout court e la seconda chiedere una revisione del piano. Entrambi punterebbero ad una sostanziale dismissione dell’area a caldo. Gli oltranzisti perché è quella che ancora minaccia la città, anche dopo il completamento della copertura dei parchi minerari. Arcelor Mittal perché vorrebbe acquistare definitivamente lo stabilimento, ma ridimensionato nella sua capacità produttiva. In mezzo c’è il sindacato e quanti pongono la questione sociale in testa alle preoccupazioni. Ridimensionare pesantemente gli organici (5000 ed almeno altrettanti nell’indotto, senza prospettive di reimpiego) non è una chiacchiera da salotto. Non c’è ammortizzatore sociale che consentirebbe la pace sociale in quella città.
Bisogna prendere il toro per le corna. Specie se si vuole veramente salvaguardare i livelli occupazionali e il ciclo integrale dello stabilimento che li giustifica. Il che vuol dire convincere con fatti concreti gli oltranzisti e impegnare seriamente l’azienda che, anche se Mittal resterà alla sua guida, non esce dalla vicenda con una immagine di serietà imprenditoriale. Nascondere dietro la richiesta del ripristino dello “scudo” una ricontrattazione del piano industriale ed ambientale, non le ha giovato più popolarità dentro e fuori Taranto. Ma la priorità è salvare l’ILVA, non fare polemiche.
Occorre reimpostare la questione, definire un assetto strutturale stabile nel tempo. Serve un accordo di alto profilo in cui ciascuna parte coinvolta decida di compiere scelte impegnative. E’ uno dei pochi settori in cui contiamo in Europa come leaders produttivi, al di là della proprietà. E per l’economia mondiale, anche la più green, l’acciaio è necessario.
In particolare, tocca al sindacato elaborare opzioni ambiziose. La principale, farsi “garante” che la tenuta del ciclo integrale e di conseguenza dell’occupazione sia compatibile con le aspettative di tutela della salute da parte della popolazione. Non deve né delegarla allo Stato, né all’azienda. All’uno e all’altra deve chiedere impegni cogenti. Ma deve fare di più: proporre che una parte degli investimenti finalizzati a quella compatibilità sia finanziata direttamente da tutti i lavoratori italiani, attraverso l’istituzione di un Fondo, destinato appunto ad intervenire specificamente sull’investimento ecosostenibile concordato.
Un piccolo prelievo per un grande obiettivo, deciso sulla base di una discussione che coinvolga tutti i lavoratori. Forti di questa “rappresentanza”, il sindacato deve entrare nel Consiglio d’Amministrazione dell’ILVA, dal quale condividere la responsabilità di controllare e cogestire tutte le fasi di attuazione del piano industriale, compresa la destinazione degli utili, fino a quando sarà ultimata la restituzione del prelievo a tutti quelli che hanno contribuito a questo gesto di solidarietà. La Chysler, negli USA di Obama, fu salvata così, con un significativo contributo del Fondo pensioni dei lavoratori dell’auto, oltre che con l’entrata della FIAT nel capitale e nella gestione di quella che divenne la FCA. Al termine del processo di riorganizzazione, tutti soddisfatti. In particolare il Fondo pensioni che ha avuto indietro i soldi con gli interessi.
C’è stato un altro momento storico, all’inizio degli anni 80 del secolo scorso, in cui la CISL di Carniti lanciò la proposta di un prelievo dello 0,5% sul salario dei lavoratori per finanziare interventi produttivi nel Mezzogiorno. La sostanziale opposizione di Confindustria e del PCI dell’epoca alla proposta, la fece abortire. I tempi sono cambiati. Ma la necessità di tutelare il patrimonio industriale italiano, l’esigenza di assicurare una stabile occupazione nel Sud, l’importanza di praticare uno sviluppo sostenibile, richiedono decisioni solidaristiche di grande respiro ed un ruolo propositivo e non solo difensivo del sindacalismo confederale.