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Boss in incognito

Il Boss in incognito è l’ennesima variazione della candid-camera, che consiste nell’osservare azioni e reazioni di persone inconsapevoli di quanto sta accadendo. 

L’interesse dello spettatore deriva dal gioco degli equivoci (lui pensa che e invece….) e dall’elemento documentaristico, con gli “inconsapevoli” osservati da una specie di buco della serratura, solitamente ben tappato dalla facciata del quotidiano. 

Così, se parli a un collega che ti han detto di addestrare e giudicare e quello invece è il padrone travestito che ti giudica, se sei sorvegliato mentre pensi di sorvegliare, se ti stai giocando l’osso del collo proprio mentre sei super tranquillo, allora si apre un abisso tra la realtà e (la tua) rappresentazione ed è lì che si infila il pubblico a leggerti nei pensieri. 

Al meccanismo candid, Il Boss in incognito aggiunge quello dell’ ”angelo benefattore”, un altro personaggio uso a ingannare i mortali assumendone le spoglie per rimeritarli secondo valori e bisogni.
Sommando due solidissimi espedienti narrativi gli inventori (inglesi, tanto per cambiare) del format pensavano ai canali e ai formati brevi di Discovery. Su Rai 2 il brodo s’allunga, ma piace ancora, tant’è che attira una paio di milioni di spettatori.

Resta da dire sul “contenuto”, che è ad alta intensità politico-culturale perché riguarda nientepopodimeno che il rapporto fra lavoro salariato e capitale da cui si estrae il plusvalore che tiene in piedi la baracca del capitalismo. 

E qui capiamo le recriminazioni per il fatto che i lavoratori spiati dal boss somiglino ai collaboratori domestici di Downton Abbey e molto meno alle figure maestose del Quarto Stato incamminate verso la emancipazione a colpi di sindacati e Statuti dei Lavoratori. 

In compenso sembrano di carne e ossa anziché di marmo e dunque diventano membri a tutto titolo della “civitas narrationis”, fatto rarissimo tra noi (Fantozzi, Olmi e poco altro) mentre nel cinema e nella tv americana strabordano gli “eroi della mansione e del mestiere”. Subordinati, di sicuro, ma alle prese con imprevisti e avventure. 

La via narrativa alla “dignità del lavoro”, al passare da rimossi a promossi, da numeri a persone, da ideologicamente sconfitti a comunicativamente vittoriosi. Nel pubblico donne e uomini stan li a godersela in pari misura (evento statisticamente raro), ma le prime appartengono alle classi più giovani mentre i secondi li troviamo dai 45 anni fino ai 65. In breve: chi è in età di lavoro si identifica. 

Tant’è che il massimo viene raggiunto al Nord e, forse perché i lavori messi in video sono per lo più esecutivi, i livelli di istruzione sono medio-bassi. In controtendenza, rispetto a quanto solitamente si rileva, lo share è pressoché identico fra gli italiani e gli stranieri, forse perché questi ancora stazionano nei ranghi non dirigenti delle gerarchie aziendali. Insomma, sono e si sentono più fragili ed esposti e, lingua o non lingua, colgono che in quello schermo è di loro che si parla.

  (*) Produttore e autore televisivo

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