Come dicevo all’inizio quella per il Sud appare ormai una battaglia persa, persino noiosa. Infatti, salvo qualche appello accorato ed autorevole, non se ne parla nemmeno più.
Fanno notizia singoli episodi di solito collegati alla criminalità organizzata e, in casi assai più rari, si racconta qualche vicenda “eccezionalmente” positiva.
Un fenomeno di vera e propria rimozione. Anche le polemiche anti-meridionali sembrano aver perso la virulenza degli anni scorsi.
In realtà questo atteggiamento esprime una convinzione di fondo, alimentata da lunghi anni di delusioni ed obiettivi mancati: la questione è irrisolvibile; non c’è niente da fare.
Quando si avvia un confronto sul tema, vengono fuori argomenti tradizionali, tesi stereotipate, che nulla aggiungono alle tante cose dette, alle mille analisi compiute, alle ricette di volta in volta proposte e puntualmente rivelatesi inefficaci.
Un importante “non argomento” è quello relativo alle profonde differenze interne al Sud: è naturalmente una grande verità, spesso anche sottovalutata; ma questa analisi non determina alcuna proposta innovativa se non la generica e confusa indicazione di cambiare le politiche e renderle meno indiscriminate.
Oppure ci si abbandona ad una feroce critica ai politici ed alla politica, disperatamente cercando di individuare un unico capro espiatorio e di risparmiarsi la fatica di ricostruire una mappa più realistica e complessa delle responsabilità. E’ ancora molto diffuso l’atteggiamento di quanti lamentano una scarsa spinta solidaristica del Paese nei confronti del Sud da misurare ovviamente in termini di risorse economiche, cui fa da contrappeso la denunzia dei soldi sprecati al Sud in tanti anni di intervento pubblico.
Davvero si colgono scarsi segnali di novità, mentre si percepisce , tra i meridionali, un impressionante scetticismo in molti casi accompagnato da una buona dose di cinismo.
Questa dimensione psicologica non è accettabile. Non è tollerabile che interi territori, importanti città, come Napoli, Palermo, Catania, Bari, Reggio Calabria con le straordinarie tradizioni che ne hanno segnato la storia, con i segni provocatoriamente visibili di un passato nobile, potente e prestigioso, con le enormi potenzialità che nascondono, vivano in una dimensione collettiva di disperazione. Disperazione nel senso tecnico del termine: a chiunque si chieda che cosa bisognerebbe fare, quali sono le priorità, i possibili progetti, le leve per un riscatto collettivo, la risposta è sempre la stessa: non c’è niente da fare, è tutto inutile; oppure risposte ovvie, banali, irritanti, ripetute senza convinzione: bisogna cambiare mentalità; la colpa è dei politici, non contiamo niente a livello nazionale. Molti raccontano progetti e programmi della loro impresa, della loro associazione, del loro centro di ricerca, del loro circolo culturale, ma sempre in una dimensione di separatezza; il territorio è spesso vissuto come luogo in cui nulla si può fare, in cui tutto è destinato a dissolversi nell’indistinto. Intanto la situazione di degrado avanza: povertà, scarsa qualità dei servizi sociali, disoccupazione a livelli impensabili, crescente aggressività della criminalità organizzata. Il limite tra diritti e favori diventa sempre più labile. Si accentua un clima di rassegnazione e ciascuno si difende come può, sempre più da solo; sempre più frequentemente prende corpo la soluzione finale: andarsene o programmare per “altrove” il futuro dei propri figli. Una dimensione di speranza, in realtà grottesca ed improduttiva, perché basata sulla sola attesa, è data dalla previsione – auspicio “che peggio di così non può andare”. Invece gli ultimi anni confermano che la spirale si avvita sempre più verso il basso. In un diabolico meccanismo di causa-effetto questo diffuso convincimento attenua progressivamente il senso di responsabilità dei cittadini rispetto alla dimensione collettiva: il bene comune, l’interesse generale, la dimensione pubblica, anche il solo rispetto delle norme, sono categorie che vengono richiamate in astratto: qualche volta in modo rituale, qualche volta in modo rabbioso. Ma alla fine ciascuno prova ad “arrangiarsi” da solo.
Si può spezzare questa spirale? Si può almeno tentare di invertire questa tendenza? Ci si deve accontentare di aggrapparsi a tante, numerose ed importanti esperienze positive in campo culturale, sociale, imprenditoriale, ma spesso totalmente isolate dal contesto in cui sono inserite? O è possibile abbozzare una strategia di sviluppo che delinei un plausibile percorso collettivo, che possa rimettere in moto, anche se lentamente, la responsabilità e il protagonismo dei meridionali?
Un dato è ormai acquisito: che una prospettiva credibile in tal senso non può essere affidata ad una generale, forte, ribadita denuncia dello stato di disagio e dell’attesa di interventi risolutivi dall’esterno. Una linea come questa, da troppi anni sperimentata, non ha funzionato, perché non poteva funzionare; ed oggi riproporla avrebbe come conseguenza quella di aumentare i rancori verso il Sud e la frustrazione nel Sud.
La strada da percorrere , è quella di una forte, esplicita, dichiarata discontinuità rispetto al passato. Bisogna dire che si è sbagliato nelle politiche per il Sud: che abbiamo sbagliato tutti, anche noi meridionali.
E soprattutto non bisogna cadere nella trappola psicologica che tutto riduce al trasferimento delle risorse: non è questo il tema principale, anche se è quello di cui si occupa prevalentemente la politica. Non è questa la discontinuità di cui c’è bisogno, né nel senso di un forte aumento delle risorse da destinare al Sud, né del loro azzeramento.
La discontinuità di cui c’è bisogno non è neanche quella del “come”. Non si tratta di innovare politiche, strumenti, modalità di intervento. Abbiamo visto, ricostruendo brevemente la storia degli ultimi 30 anni che vi sono state violente – ed anche coraggiose – discontinuità di questo tipo: la chiusura brusca e traumatica dell’intervento straordinario nel ’92, e la “Nuova Programmazione” che puntava tutte le sue carte su una modalità più efficiente e trasparente di intervento. Anzi queste scelte sono state fortemente condizionate dall’esigenza, tutta politica, di dare il segno della discontinuità, capace di rompere vecchi equilibri e di “liberare” il Mezzogiorno. Quella discontinuità non ha prodotto gli effetti sperati.
La vera discontinuità, quella capace finalmente di cambiare le carte in tavola e di dare una prospettiva credibile, è quella di ridefinire l’obiettivo dell’impegno per il Sud.
Il nostro obiettivo, dei meridionali e di tutto il Paese, deve essere quello di assicurare a venti milioni di meridionali pari diritti rispetto a quelli di tutti i cittadini italiani, puntando ad innescare modelli di sviluppo auto propulsivo. Ed i diritti non si rivendicano in astratto; non si “aspetta” che lo Stato li riconosca: vanno conquistati con la responsabilità, l’impegno e, in determinate fasi, con la lotta.
Non più quindi l’obiettivo di “superare” il divario in termini di PIL; non più il paragone con il reddito di una delle aree più ricche d’Europa, come il nostro Nord; non più la misurazione ossessiva del distacco come base psicologica, culturale, politica di un permanente complesso di inferiorità e di dipendenza; non più l’invocazione di interventi rapidi e risolutivi, improbabili, ma pervicacemente attesi, nel deserto di una credibile prospettiva di sviluppo. Dobbiamo lavorare per un Mezzogiorno possibile e consapevole, non per un Mezzogiorno immaginario ed irresponsabile. In occasione della presentazione dell’ultimo rapporto Svimez, si è calcolato che, con i peggioramenti determinati dalla crisi, il Sud avrebbe bisogno di 400 anni per annullare il divario con il Centro-Nord. E’ stata naturalmente una provocazione, ma con un effetto disastroso perché capace di trasferire sensazione di assoluta impotenza e, quindi, di piena deresponsabilizzazione. L’obiettivo di un “Mezzogiorno possibile” potrà sembrare rinunciatario: visto che non si riesce a raggiungere il “vero” traguardo, ci si inventa un traguardo più a portata di mano. Una critica del genere è facilmente rintuzzabile con la constatazione di quanto è successo negli ultimi 60 anni: obiettivo impossibile e danni causati dall’insistenza ad assumere quel modello come base dell’intervento .
Si tratta di puntare a costruire un meccanismo di sviluppo auto propulsivo e quindi più duraturo, in cui i soggetti locali siano motore dello sviluppo capaci di trovare la migliore combinazione dei fattori produttivi ed i sostegni esterni, quando necessari, non siano chiamati a trasferire sviluppo ma a concorrere a realizzare positivamente quella combinazione.
In questa prospettiva acquistano concreta rilevanza e maggiore capacità di “propulsione” le esperienze positive, i soggetti già forti. In un bellissimo articolo su “Il Riformista” (18 marzo 2005) Marco Vitale mette bene in luce questa circostanza: non è vero che le iniziative dal basso non abbiano risultati. Forse ne hanno dati meno di quello che si sperava ma ne hanno dati molti e significativi. Anche se queste iniziative sono statequasi semprecombattute ed ostacolate da chi doveva istituzionalmente favorirle. Ed in questa chiave di lettura, nella percezione cioè di grandi potenzialità imprenditoriali e produttive, che la “politica” non sa accompagnare in una logica di espansione e di qualificazione,segnalo il lavoro, puntuale ed approfondito che lo stesso Vitale ha compiuto con un importante indagine in Campania ( 2008)
In una prospettiva del genere in cui lo sviluppo parte da una dimensione locale il Sud riscopre la propria dignità, per certi versi il proprio orgoglio. “Significa non pensare più il Sud o i sud come periferia sperduta e anonima dell’impero, luoghi dove si replica tardi emale ciò che celebra le sue prime altrove” (F. Cassano, 1996).
Al fine di fugare possibili equivoci ribadisco che enfatizzare una logica di tipo auto propulsivo dello sviluppo non significa affatto scivolare in una dimensione autarchica e neppure di concorrenza antagonistica rispetto alle altre aree del Paese. Il sostegno esterno è necessario ed anzi probabilmente va incrementato, ma con logiche di accompagnamento, di partenariato, anche finanziario, e di condivisione.
La responsabilità prevalente deve essere nelle mani dei soggetti locali. Senza cadere nella retorica delle risorse locali, senza assecondare pericolose tendenze secondo le quali il localismo diventa una sorta di bizzarra ideologia che spinge a considerare tutti i territori vocati a qualsivoglia percorso di sviluppo, occorre individuare con chiarezza e con rigore le risorse, le potenzialità, le dimensioni ottimali per i diversi interventi, senza sottovalutarne i limiti ed i vincoli.
E’ naturalmente un lavoro difficile ed anche lento, spesso incompatibile con i tempi, sempre urgenti, della politica: ma è una strada che non ha alternative, soprattutto nell’era della globalizzazione in cui i territori, nella competizione internazionale, sono chiamati ad attivare le loro dotazioni in termini di saperi, beni culturali, ambientali, specificità produttive.
Per avviare, consolidare e qualificare percorsi di sviluppo auto propulsivo è necessario che le comunità locali abbiano un sufficiente livello di coesione sociale. Ne ho fatto cenno ripetutamente nelle pagine precedenti, richiamando il tema da diversi punti di vista. La debolezza del capitale sociale condiziona negativamente la vita dei cittadini a disagio in un sistema di relazioni sociali con basso tasso di fiducia, con scarso rispetto dei beni collettivi e quindi con minore possibilità di fruirne in modo equilibrato e duraturo.
Nel suo bel libro – con un titolo particolarmente efficace – “La modernità squilibrata del Mezzogiorno d’Italia ( 2002) Francesco Barbagallo sottolinea questo dato citando tra l’altro l’economista svedese G. Myrdal, “Un altro illustre studioso, aveva insistito molto opportunamente sugli aspetti qualitativi dello sviluppo che, coinvolgendo insieme società, culture e civiltà, copriva uno spettro ben più ampio della mera crescita economica intesa nei ristretti ambiti quantitativi. Modernizzazione e sviluppo comportavano invece “il moto ascensionale dell’intero sistema sociale. In altre parole, coinvolti non soltanto la produzione, la distribuzione del prodotto , i modi di produzione, ma anche i livelli di vita, le istituzioni, gli atteggiamenti e le politiche.”
Quando si sottolinea che il contesto istituzionale, nel senso del funzionamento della Pubblica Amministrazione, è condizione essenziale per lo sviluppo, si torna al capitale sociale. Il basso capitale sociale condiziona inoltre lo sviluppo indirettamente, perché influisce sulla efficienza della pubblica amministrazione, sulla capacità di produrre beni collettivi e servizi, e quindi sulle economie esterne per le imprese locali e sulla qualità sociale per icittadini. (Trigilia, 2011).
E come ho sottolineato nelle pagine precedenti l’ambizioso obiettivo perseguito dalla Nuova programmazione di qualificare il sistema delle autonomie locali meridionali con un intervento dal centro, è fallito.
E’ la crescita della società civile, che fa evolvere positivamente le istituzioni che la rappresentano: naturalmente si innesca poi un circolo virtuoso che spinge le istituzioni a fare leva sulla società civile e a qualificarla ulteriormente. Ma è dalla forza del capitale sociale, dalla comunità che si parte.
E la stessa riflessione vale per la questione delle regole: sappiamo tutti che, al Sud, soprattutto in alcune aree urbane, ma non solo, il rispetto delle regole non è un valore riconosciuto. In alcune situazioni, più gravi e socialmente più fragili, il concetto di regola è completamente saltato: anzi il disprezzo della regola, anche quando non dà vantaggi immediati, acquista il senso di un atto di autorevolezza, di legittimazione personale: chi non osserva le regole è forte, chi le osserva è debole.
Che cosa bisogna fare per affermare la cultura della legalità, il rispetto delle regole? Penso che abbiamo tutti impresse nella mente quelle terribili scene in cui le forze dell’ordine vengono minacciate dalla popolazione di quartieri difficili in cui sono andate a ripristinare le regole. La risposta deve certamente contemplare un maggior rigore, un’ indisponibilità a “chiudere un occhio” per le infrazioni meno gravi; forse anche l’ adozione di sanzioni e misure repressive più dure. Ma la vera risposta è sul versante del capitale sociale: la regola è rispettata se una comunità si riconosce in essa, se ne coglie l’utilità per il buon funzionamento delle relazioni sociali. Ce l’hanno insegnato i Romani, inventori del diritto: ubi societas ibi ius. Non sono le regole e le norme che costituiscono una comunità. E’ una comunità che si da delle regole: e se le sente sue, le rispetta. Questa è una vera e propria battaglia culturale da combattere quotidianamente, a partire da un impegno straordinario per la scuola.
Il rafforzamento del capitale sociale è anche la condizione indispensabile per combattere le mafie. Forse vale la pena di ricordarsi della famosa frase di Giovanni Falcone che spingeva a considerare la mafia come tutti i fenomeni umani, una patologia che si puòvincere. Una frase apparentemente banale, ma in realtà potente. Falcone avvertiva il pericolo di un giudizio e di un atteggiamento, nella opinione pubblica e nelle istituzioni, di ineluttabilità delle mafie.
Infatti, mentre non possiamo che esprimere apprezzamento per lo straordinario lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura che hanno ottenuto ed ottengono grandi risultati sul versante della repressione ed in qualche caso della prevenzione; mentre sottolineiamo l’importanza di alcune conquiste come la legge Rognoni – La Torre nata su impulso del milione di firme raccolte da Libera di Don Ciotti, per la utilizzazione sociale dei beni confiscati alle mafie, mentre ci aggreghiamo a movimenti di opinione sempre più vasti che si mobilitano contro le mafie; tuttavia percepiamo che è ancora diffusa, nella coscienzadella gente comune ed anche degli opinion leaders, la sensazione di essere di fronte ad un nemico invincibile, ad un fenomeno che può essere al massimo contenuto, ma non estirpato.
Questa percezione è pericolosissima; ancorchè non dichiarata può condizionare pesantemente l’iniziativa contro le mafie introducendo, da una parte una sorta di rassegnazione e, dall’altra, soprattutto nel campo delle relazioni economiche ed imprenditoriali, una disponibilità a convivere con il fenomeno. Da questo punto di vista è particolarmente apprezzabile l’iniziativa assunta da alcune associazioni industriali del Mezzogiorno che hanno negato l’iscrizione ad alcune imprese. In questa battaglia difficile, complicata e certamente di non breve periodo, ma tuttavia indispensabile bisognerebbe aver presente, con maggiore chiarezza, e soprattutto con maggiore coerenza nei comportamenti, due circostanze.
La prima è quella della connessione esistente tra corruzione e criminalità organizzata. E’ indubbio che corruzione non è sinonimo di mafie: pur se le mafie utilizzano pratiche corruttive con grande efficacia e determinazione, non si può affermare che tutti i fenomeni di corruzione siano inquadrabili nella criminalità organizzata. E tuttavia sarebbe un errore considerare queste patologie della nostra società e del nostro sviluppo come separate e del tutto indipendenti. Le patologie criminali rispetto allo sviluppo possono essere così descritte, in una sorta di micidiale crescendo: vi sono ampie zone di economia informale (lavoro nero, imprese sommerse) che nel nostro Paese, e specie nel Sud, come abbiamo visto, raggiungono valori percentuali altissimi. Al secondo step di questo percorso vi è la corruzione che non coincide con l’economia sommersa, ma neppure è ad essa del tutto estranea. La alimenta e ne è alimentata con consuetudini ed episodi grandi e piccoli, fino a consolidare veri e propri sistemi; le regole del gioco vengono ignorate o aggirate: la legalità subisce colpi più duri e la mancanza di legalità determina effetti negativi più consistenti frenando le possibilità di sviluppo, come in precedenza abbiamo visto. Infine le mafie: ancora una volta non c’è coincidenza tra i fenomeni, ma è indubbio che vi sono importanti relazioni dirette tra mafia e corruzione. Se condividiamo questo giudizio, se pensiamo che vi sia un continuum tra i diversi fenomeni, una sorta di filiera dell’ illegalità che parte dall’evasione minuta delle regole ed arriva agli orrori ed alla devastazione delle mafie, allora dobbiamo concludere che vi è qualche contraddizione nella reazione dello Stato. E’ indubbio, ad esempio, che magistratura e forze di polizia stanno raggiungendo importanti traguardi nella lotta alle mafie: lo dimostrano gli arresti di grandi latitanti, ma anche l’attacco ai patrimoni delle famiglie mafiose, mediante norme sulla gestione dei beni sequestrati e confiscati, peraltro da perfezionare. Non si vede, però, nel contempo, uguale determinazione nel combattere la corruzione, come si deduce dalle difficoltà registrate nell’autunno del 2012 a legiferare in materia. Sembra quasi che una certa dose di corruzione sia ritenuta tollerabile, se non addirittura inevitabile. Ed anche le forze sociali, forse, possono fare di più: le già citate iniziative assunte dalle organizzazioni imprenditoriali contro la mafia, quali il rifiuto all’iscrizione delle imprese che soggiacciono alle estorsioni, hanno avuto un effetto importante. Analoghe iniziative andrebbero prese nei confronti delle imprese coinvolte in fenomeni di corruzione, che, come abbiamo visto, indeboliscono il tessuto imprenditoriale e gli interessi delle imprese sane.
La seconda circostanza è che va ribadito, con maggior forza e per certi versi anche con maggiore coerenza, che le mafie si battono non solo con legislazioni appropriate e con una forte azione repressiva, ma anche sul piano del consenso e della loro capacità di insediamento e di controllo dei territori. Anche se diventano multinazionali, anche se hanno quadri e strumenti sofisticatissimi, anche se muovono miliardi di euro, le mafie si alimentano delle loro radici territoriali. E lì può batterle solo un sistema di relazioni sociali positivo, una comunità basata sulla fiducia, reti orizzontali di condivisione ed attenzione ai beni comuni. In quelle situazioni parlare di comunità non è vuota retorica, ma è una dichiarazione di guerra. Significa gestire bene ed in modo sostenibile i terreni confiscati, significa sottrarre i giovani (uno ad uno) alle proposte di reclutamento delle organizzazioni criminali; significa promuovere un ruolo diverso della donna nella famiglia; significa occuparsi in una chiave non tradizionalmente caritativa delle famiglie dei detenuti; significa insomma fare sviluppo sociale e diffondere cultura della legalità, anche minuta. In una parola trasformare il capitale sociale negativo, in capitale sociale positivo.
Da qualunque punto di vista si affronti il tema dello sviluppo, mi pare venga confermata l’idea che bisogna ri-partire dal sociale mettendo questo tema al centro della riflessione e della proposta politica.
Ma che significa assumere il sociale come dimensione prioritaria nella promozione dello sviluppo? In che cosa deve consistere la discontinuità cui facevo prima riferimento?
Come è naturale la risposta va articolata a più livelli: vi è il livello degli intellettuali, degli opinion leaders, degli uomini dell’informazione, particolarmente importanti nell’orientare la pubblica opinione; c’è il ruolo dei meridionali, istituzioni, classi dirigenti, popolazione tutta; c’è una chance per la politica che potrebbe mettere in campo un’offerta innovativa, più credibile e più motivante.
Intanto il dibattito e la riflessione sul Mezzogiorno dovrebbero riprendere, in generale, “più fiato”. E’ desolante constatare come ancora si discuta dell’intervento aggiuntivo, in termini di risorse finanziarie, come se fosse la vera questione. Abbiamo visto che ormai questo flusso di risorse rappresenta circa il 5% dei trasferimenti della Pubblica Amministrazione verso il Sud; e mi chiedo di che parleremo tra sette anni, quando non ci saranno più interventi della UE, quando, cioè sarà sancito che il Sud non è nella fascia dei Paesi più poveri dell’Unione. Se continua così, ci ritroveremo tra qualche anno concentrati sull’obiettivo, non proprio esaltante, di dimostrare che quelle risorse saranno ancora indispensabili, decisive, irrinunciabili; e lo faremo, molto probabilmente condizionati da una scarsa credibilità collegata ad una confermata incapacità di spendere e di spendere bene.
Bisogna augurarsi che la riflessione sia insieme più realistica e più “alta”. Per esempio sarebbe bene e sarebbe assai utile, se in una chiave non difensiva e rancorosa, riflettessimo sul tema del federalismo, casomai studiandoci un po’ meglio Carlo Cattaneo e un po’ meno la proposta di Calderoli.
Si potrebbe rinforzare e qualificare la riflessione già in atto sul ruolo del Mezzogiorno rispetto al Mediterraneo, ricordandosi che questi processi non si consolidano partendo da relazioni di affari, ma sviluppando poderosi processi di confronto culturale, di partenariato nella ricerca. In questa chiave basterebbe un po’ di memoria meno corta per liberare il potenziale di integrazione culturale legato a città come Palermo e come Napoli.
Ma soprattutto, se si assumesse davvero quella del Mediterraneo come una dimensione strategica, di un Sud che non “insegue” con affanno e con crescente frustrazione modelli mitteleuropei, si dovrebbe modificare radicalmente il rapporto con le centinaia di migliaia di extra-comunitari che arrivano nel nostro Paese. Il nostro schema di riferimento istituzionale al riguardo è inconcludente: da una parte una gestione difensiva, timorosa e di sostanziale resistenza e spesso perfino condizionata dall’esigenza di “mediare” intollerabili spinte xenofobe, dall’altra una grande capacità di accoglienza espressa da molte associazioni, ma anche figlia di un’ antica e saggia tradizione.
Andrebbe affrontato in modo adeguato il tema delle città, che possono costituire, anche nell’era della globalizzazione un’importante materia di sviluppo per il Mezzogiorno, a condizione che si innovino, profondamente, le politiche di sostegno. Ma soprattutto è necessario rendere più forti, più ricche ed articolate, più “visibili” le riflessioni e le proposte per rafforzare la coesione sociale, la cultura dei beni comuni, il senso civico, al Sud.
Ormai la responsabilità è, ovviamente, nelle mani di noi meridionali. Non perché dobbiamo riparare ad errori compiuti solo da noi; non perché la situazione attuale è solo colpa nostra. Semplicemente perché, con ogni evidenza, se non c’è una più forte assunzione di responsabilità da parte dei meridionali, non se ne esce.
Quando si parla di Sud, in mancanza di argomentazioni più solide, le discussioni nei salotti o al bar, si concludono con la fatidica frase: “è questione di mentalità”.
Invece è questione di responsabilità. Qui naturalmente c’è un ruolo importante degli uomini di cultura, dei leader del mondo associativo, delle parti sociali, delle istituzioni, degli organi di informazione.
Bisogna scoraggiare un approccio al tema dello sviluppo che faccia sempre e solo parlare della responsabilità altrui, bisogna evitare che tutti siano orientati ad “aspettare” soluzioni costruite altrove; bisogna non consentire mai più a classi dirigenti locali, quando palesemente inadempienti, di trovare alibi e di scaricare altrove le proprie responsabilità.
Non è affatto facile, anzi è difficilissimo: perché quando si affronta a viso aperto il tema delle responsabilità non vi sono “zone franche” ed il positivo, ma faticoso e doloroso, contagio delle responsabilità coinvolge tutti e tutto può cambiare.
Potrei citare un numero infinito di grandi personaggi, di meridionalisti e non, che con espressioni più o meno note, o più o meno efficaci richiamano i meridionali alle loro responsabilità, li invitano a prendere atto che il loro destino è nelle loro mani. “Lo sviluppo non scende dal cielo: la Puglia cambia solo se la cambiano i Pugliesi; la Puglia cambia solo se anche i Pugliesi cambiano”. ( Viesti 2005).
Naturalmente questa linea che insiste sulla necessità di una maggiore assunzione di responsabilità da parte dei meridionali suscita una critica prevedibile e scontata: si tenderebbe in tal modo a ridimensionare o a cancellare del tutto le responsabilità della politica nazionale e, soprattutto, di “quelli del Nord”.
Io sono invece certo che una nuova, aperta assunzione delle proprie responsabilità da parte della classe dirigente meridionale, “riaprirebbe” la partita del Mezzogiorno a livello dell’opinione pubblica, prima, e quindi della politica nazionale: darebbe spazio alle posizioni più attente, responsabili ed interessate ad una prospettiva innovativa e credibile di solidarietà verso il Mezzogiorno e isolerebbe le posizioni più rancorose e retrive.
Per evitare che l’obiettivo di una maggiore coesione sociale appaia astratto e relegato in una dimensione etico-solidaristica, vale la pena ricordare che cosa significa concretamente promuovere la coesione sociale, anche nel senso di una più coerente offerta politica.
Il primo ambito è quello del capitale umano e quindi dell’educazione: asili nido, lotta alla dispersione scolastica, tempo pieno nelle scuole, insegnanti di sostegno, fine dei doppi turni; progetti e programmi per l’inclusione dei giovani in particolari situazioni di rischio, ricordando che da qualche tempo appaiono più urgenti interventi nei confronti delle adolescenti. In quest’ ambito rientrano i programmi di orientamento al lavoro dei giovani nei territori in cui è più forte la criminalità organizzata e più allettanti le sue proposte di reclutamento che trovano terreno fertile in diffuse situazioni di disagio giovanile.
Il secondo ambito riguarda gli investimenti nella ricerca e nell’università, temi ampiamente analizzati e per i quali non mancano proposte concrete ed intelligenti e sui quali, pertanto, non penso valga la pena di soffermarsi.
Il terzo ambito è quello dei servizi sociali propriamente detti che stanno subendo, in questa fase, i tagli più gravi e che abbiamo visto, nelle pagine precedenti, essere al Sud relativamente assai carenti: assistenza domiciliare agli anziani non autosufficienti, case famiglia,assistenza ed interventi per l’inclusione sociale dei diversamente abili; in questo ambito un rilievo particolare andrebbe riconosciuto all’area dei servizi ai detenuti ed alle loro famiglie.
Un altro settore di intervento molto importante è quello riferito alla cura, alla manutenzione, alla valorizzazione dei beni comuni. Quello dei beni comuni è uno dei fattori chiave per la costruzione di solide reti comunitarie. Non conta la definizione delle tipologie; conta l’ individuazione di beni, anche immateriali, in cui una comunità si riconosca.
Naturalmente grande rilievo hanno i beni culturali, i beni ambientali e grande valore simbolico hanno i beni confiscati alle mafie. Ma di uguale interesse è la valorizzazione dei beni comuni come le tradizioni culturali, enogastronomiche, dialettali, musicali.
Una linea di azione particolarmente significativa, cui ho già fatto cenno nelle pagine precedenti, è quella della mediazione culturale e della integrazione degli extra-comunitari. Qui va fatta una precisazione molto importante: chi ha esperienza di territori nei quali è più forte l’impatto con flussi di immigrazione di extra-comunitari, sa bene che, dopo una prima fase ovviamente caratterizzata da grandi difficoltà, se scatta una logica di accoglienza e di integrazione, gli extra-comunitari, lungi dal rappresentare una minaccia per l’ identità comunitaria dei territori, ne costituiscono un importante punto di aggregazione e di consolidamento. Se a qualcuno quest’affermazione può apparire strana o provocatoria sarà utile ricordare che in molte aree metropolitane le iniziative e le attività di associazioni che hanno ad oggetto l’assistenza ai bambini in età scolare, trovano nelle famiglie degli immigrati il punto di appoggio più solido e convinto.
Per inciso ricordo che molte delle attività che ho richiamato, ed in particolare quelle riferite ai servizi sociali, rappresentano, come dimostrano numerosi e qualificati indicatori, un bacino non marginale di nuova occupazione. In queste aree infatti oltre a importanti e positive iniziative di volontariato si sviluppano molte esperienze affidate alla cooperazione sociale, che grazie ad una più intelligente e razionale combinazione dei fattori, riesce ad erogare servizi con minori costi e con maggiore efficacia.
Di grande rilievo le innumerevoli iniziative direttamente dedicate alle fasce più povere delle popolazioni: penso in particolare all’esperienza del banco alimentare ed alle strutture di accoglienza per i senza fissa dimora.
Contestualmente si moltiplicano i percorsi in cui il “sociale” si intreccia positivamente con altri settori ed anche con attività produttive tradizionali.
Cresce il numero di fattorie sociali in cui esperienze l’inclusione sociale si concretizza in lavori agricoli, di esperienze di utilizzazione delle attività teatrali per il recupero di persone a rischio, di attività artigianali e turistiche svolte da cooperative che associano soggetti diversamente abili. Naturalmente nel momento in cui si sottolinea l’importanza di sviluppare una serie di attività che rafforzino i legami comunitari sui diversi territori, appare importante anche che vi siano adeguate iniziative per aumentare le opportunità per la popolazione di partecipare a processi decisionali. Non si tratta di invocare in astratto meccanismi e percorsi di democrazia diretta, quanto piuttosto di assumere un dato significativo: se diventa un obiettivo quello della maggiore coesione sociale, quella della promozione di identità e reti comunitarie, allora acquista grande momento tutto quanto concerne la partecipazione e la condivisione dei cittadini rispetto alle iniziative assunte, alla loro valutazione, alla loro qualificazione.
Provando a declinare le mie riflessioni sul terreno più concreto delle scelte e delle politiche da attuare, senza alcuna pretesa di tracciare un quadro esaustivo, individuo tre linee fondamentali.
a) Un primo gruppo di questioni riguarda le politiche generali, quelle che una volta si definivano le politiche ordinarie per distinguerle da quelle straordinarie dedicate al Sud. Come abbiamo visto è su questo versante che si gioca la partita più importante: occorre, al di là di qualsiasi discussione sull’ aggiuntività e specialità degli interventi, semplicemente affermare il principio che i cittadini di uno stesso Paese hanno diritti e doveri uguali rispetto allo Stato, incominciando dai servizi essenziali in capo alla Pubblica Amministrazione centrale. Al primo posto la giustizia, poi la scuola, la sicurezza, la sanità. Se parlando di cose da fare al Sud, partissimo da queste questioni, faremmo un formidabile passo in avanti. Pari dotazioni infrastrutturali, pari dotazioni di personale, uguale sforzo nella ricerca della efficienza e della efficacia dei servizi. Non sono questioni marginali o, peggio, irrilevanti rispetto allo sviluppo. Ne sono la condizione primordiale. Ma c’è una questione ancora più rilevante, da questo punto di vista, che è quella di valutare il ruolo delle diverse politiche nazionali rispetto al del Mezzogiorno. Quest’affermazione, alla luce delle dichiarazioni, dei documenti, dei Convegni , insomma della politica ufficiale, appare ovvia fino alla banalità. Ma a ben vedere si tratta invece di un tema che vale la pena riproporre. Non è forse vero che l’oggettiva sottovalutazione delle enormi potenzialità del settore agricolo, di fatto perpetrata per decenni e decenni, ha danneggiato il Sud? Con particolare efficacia la Coldiretti negli ultimi anni è impegnata in una grande operazione culturale e politica per ricordare al Paese la centralità e, soprattutto le prospettive del settore, che in una concezione più moderna ed equilibrata dello sviluppo e nel quadro della competizione internazionale, potrebbe dare molto di più al Paese in termini di reddito, di qualità della vita, di occupazione. Anche nella fase acuta della crisi il settore ha raggiunto risultati importanti in termini di occupazione, nuove imprese, bilancia commerciale. Ma è una lotta titanica, perché abbiamo inchiodato nella nostra testa un modello di sviluppo che faceva dell’agricoltura un settore residuale, luogo del vecchio, dell’assistenza, dell’incompatibile con le leggi dello sviluppo “vero”: tanto condizionante è stato lo schema che quando volevamo sostenere la necessità, sacrosanta, di aumentare il tasso di imprenditorialità in agricoltura dicevamo che bisognava “industrializzarla”. Abbiamo sottovalutato il peso insopportabile dell’intermediazione che ha strappato valore aggiunto ai contadini, indebolendoli nelle loro prospettive di reddito e di espansione produttiva. Con danni enormi soprattutto al Sud. Qualcuno potrebbe obiettare che questo ragionamento è indebolito dalla verifica degli enormi trasferimenti destinati al settore nel corso degli anni. Ma questo è un argomento a favore, non contro, la mia tesi. Un settore da assistere, non un settore strategico. E per capire che significa assumere come strategico il settore agricolo, basterebbe dare un’occhiata alla Francia, anche nei rapporti di quel Paese con la UE. Ed in Francia l’agricoltura ha potenzialità nettamente inferiori alla nostre e gode di trasferimenti certamente non meno consistenti.
Ragionamento analogo si può fare per le politiche industriali: ho tentato di dimostrare nelle pagine precedenti che la politica di sostegno alle imprese è stata sbagliata e penso che sarebbe ora di rivederla radicalmente . Ma la revisione della materia o la conclamata necessità di abolire gli incentivi (al Sud come al Nord) sarebbe più credibile se fosse accompagnata da uno straccio di politica industriale; e soprattutto se si mettesse fine ad un antico, colossale equivoco delle nostre politiche: si parla continuamente delle piccole e medie imprese, si ricorda che in esse è concentrato oltre il 90% degli occupati e via rivendicando un’ auspicata centralità. In realtà siamo figli, specialmente al Sud, di una cultura industriale che considera le PMI come una sorta di eccezione, un non-ancora della catena imprenditoriale; non un’area sulla quale investire , ma un’area da tutelare e da difendere, avendo in testa che lo sviluppo industriale “vero” è quello delle grandi aziende. Quando si progetta un intervento, un programma , un’iniziativa si ha netta la percezione che esso è pensato per la grande industria, salvo prevedere degli aggiustamenti, una sorta di deroga, per le piccole imprese. Vi sono molte prove di questa disattenzione: la più rilevante è l’assoluta mancanza di politiche (non di appelli) per promuovere la media dimensione di impresa, vero handicap della struttura industriale del Sud. Mai vista una proposta, un incentivo dedicato, una politica complessiva. Sembra quasi che le piccole imprese non siano considerate piccole, ma nane.
Agricoltura, piccole imprese, ma anche turismo, artigianato: il Sud ha un interesse relativamente maggiore a che questi settori non vengano considerati, ai tavoli veri , come cose di cui si è “costretti” ad occuparsi in mancanza di meglio.
Vi sono molti altri esempi di questioni certamente importanti a livello generale che per il Sud possono avere maggiore rilevanza per le prospettive di sviluppo: un esempio per tutti è quello dei beni culturali; una politica che non si limitasse alla salvaguardia e alla tutela, ma che si ponesse l’obiettivo di favorire percorsi di valorizzazione, sarebbe per il Sud molto rilevante.
b) Un secondo gruppo di riflessioni riguarda le risorse supplementari che per un ulteriore e presumibilmente ultimo sessennio, saranno destinate al Sud, o a gran parte di esso, dai Fondi strutturali della Unione Europea.
Potrà sembrare strano, ma penso che la questione più importante al riguardo sia quella di prepararsi, concretamente, alla fase in cui queste risorse aggiuntive non vi saranno più. Non penso ad una attività di denunzia, di lamentela, di rivendicazione, di improbabili studi comparativi con altre aree depresse europee; anzi pavento questo come un grave rischio. Penso invece alla necessità di procedere da subito, con un impegno diretto e positivo:
- a verificare con attenzione e rigore tutti gli ambiti in cui le risorse straordinarie dei Fondi europei sono state impiegate per supplire alle carenze dei finanziamenti ordinari;
- a smontare la macchina, complessa e variegata, collegata alla gestione dei Fondi europei: mi riferisco alle Amministrazioni , specie regionali, ma anche al reticolo fittissimo di interessi professionali (qualche volta para-professionali), collegato alla gestione dei Fondi europei: progettazione, monitoraggio, valutazione, assistenza tecnica. Questo strano terziario ha assunto dimensioni notevoli ed è difficile prevederne un’efficace riconversione, anche perché, spesso, si esprime in professionalità molto “dedicate”, ed alienate da una patologica consuetudine alle formalità documentali. Questa operazione non sarà facile ed incontrerà resistenze di vario tipo, a partire da quella degli amministratori regionali, abituati ad essere visti come “dotati” di grandi risorse, non proprio facili da spendere ma comunque almeno teoricamente disponibili.
Anche tenendo conto di queste esigenze penso che sarebbe opportuno assumere tre fondamentali linee guida:
- impostare in modo radicalmente diverso gli obiettivi del Fondo Sociale Europeo, ridimensionando le erogazioni per la formazione professionale tradizionale, a vantaggio di qualificati interventi a sostegno della ricerca e, soprattutto, investendo massicciamente nella scuola ( il “quarto organo costituzionale” di Pietro Calamendrei!) e nel sociale, anche sulla scorta di piccole, ma significative esperienze, avviate dal Ministro Barca e dal Sottosegretario Rossi Doria nell’autunno del 2012;
- operare una forte revisione delle politiche di incentivazione alle imprese, in tutti i settori, industriale, agricolo, turistico, abolendo interventi indiscriminati, automatici (compreso il credito d’imposta) ed evitando che le agevolazioni siano utilizzate per “resistere” sul fronte dei costi. Questo consentirà, con serie attività di valutazione, di sostenere le innovazioni, l’internazionalizzazione, le aggregazioni o comunque le dinamiche cooperative tra imprese;
- concentrare su un solo settore le risorse per le infrastrutture e precisamente in quelle per la mobilità, soprattutto ferroviarie ed aereoportuali. Ho sempre resistito, psicologicamente, a queste impostazioni, immaginando più importante la utilizzazione delle risorse a sostegno di processi locali allo sviluppo. Ma bisogna arrendersi all’evidenza dei fatti: quando con la bella ed apprezzabile scelta, dal punto di vista della trasparenza, del Dipartimento per le politiche di coesione è stata accessibile la banca data dei progetti ammessi a finanziamento, vi è stata la drammatica conferma di un meccanismo impazzito e fuori controllo, di un processo insieme autoreferenziale ed ingovernabile.
E d’altra parte se si tentasse di riorganizzare il sistema a mala pena basterebbero i sei anni del prossimo ciclo di programmazione.
Meglio, realisticamente, scegliere la strada di un solo, chiaro, riconoscibile obiettivo.
c) Infine ritengo che vadano assunti alcuni criteri fondamentali, veri e propri vincoli nella definizione di politiche ed anche nella gestione di singoli interventi:
- tutti gli interventi di sostegno e di incentivazione, soprattutto quelli di natura economica, devono assolutamente presumere ed avere come condizione ineludibile, il coinvolgimento della responsabilità dei destinatari: dagli incentivi alle imprese, agli interventi per i disoccupati; dal sostegno alle Università, alle politiche sociali, tutto deve essere condizionato non solo dalle regolarità formali e dalla giusta attenzione alla massima trasparenza, ma dal coinvolgimento pieno dei soggetti: e questo che, a tutti i livelli distingue una politica assistenziale da un intervento di promozione dello sviluppo. E l’esperienza insegna che tertium non datur: un intervento o innesca un processo di autonomia o accentua la dipendenza; e quindi bisogna affrontare il tema delle valutazioni ex-ante e discrezionali;
- bisogna promuovere una logica di mercato e di concorrenza: non è un rigurgito neo-liberista, ma la constatazione del fatto che la scarsa cultura della concorrenza mortifica le spinte imprenditoriali, condiziona il modo di fare impresa, crea un clima ostile allo sviluppo. Per esempio sarebbe ora che le Pubbliche Amministrazioni interrompessero la sciagurata prassi che porta alla costituzione di strutture in house, (cioè di proprietà della stessa Amministrazione) concepite in teoria per assicurare maggiore flessibilità ed efficacia, ma di fatto strumento per evitare la evidenza pubblica nella concessione di appalti e, quindi, inaccettabili eccezioni ad una corretta logica di mercato nell’area dei servizi;
- occorre privilegiare, negli interventi di sostegno, la logica della rete e, quando possibile, delle aggregazioni: le imprese, i centri di ricerca, le aziende agricole, le iniziative sociali devono smetterla di inseguire “in solitaria” l’incentivo ed essere educate ad una dimensione cooperativa. Non penso ad aggregazioni formali, ma ad integrazioni funzionali, da valutare – e monitorare- nel loro contenuto sostanziale;
- occorre realizzare una robusta operazione di disboscamento di enti, agenzie, consorzi vari deputati a promuovere lo sviluppo; nelle pagine precedenti ho citato l’esempio dei Consorzi Fidi o dei Consorzi delle aree industriali; ma si potrebbero citare molti altri casi di organismi pubblici, parapubblici, o tenuti in vita dal pubblico. Su questo aspetto, sull’onda poderosa e qualche volta approssimativa dell’antipolitica, si è sviluppata negli ultimi anni una forte polemica incentrata sul tema dello spreco e delle “poltrone”. Ma non è solo questo il punto, che pure basterebbe. La vera questione è che molti di questi strumenti, per legittimare il proprio ruolo , in una disperata battaglia per la sopravvivenza, di fatto ostacolano lo sviluppo. Non sono solo inutili e, quindi, fonte di spreco; sono dannosi.
CONCLUSIONE
“Il Sud sta seduto su un tesoro e crede di trovarlo altrove.” Così Erri De Luca in una intervista del 2010 alla News letter della Fondazione CON IL SUD.
Ne siamo convinti noi meridionali? E soprattutto abbiamo la volontà, la forza, di alzarci, di mettere finalmente gli occhi su questo tesoro, di amarlo e di investire su di esso? Non di chiedere ad altri di investire sul nostro tesoro, ma di chiamarli quando noi stessi con tenacia e convinzione abbiamo incominciato a farlo? Non ne sono sicuro.
Senza cadere nella trappola del “ di chi è la colpa”, senza pensare che l’obiettivo è trovare giustificazioni plausibili, dobbiamo assumerci le nostre responsabilità e dobbiamo su questo senso di responsabilità diffusa, costruire una politica plausibile di sviluppo del nostro Sud.
Sembrerà strano, ma in territori in cui abbiamo incrociato una politica ipertrofica, pervasiva, incombente; in cui non c’è stato potere, ruoli, mediazioni, diritti, speranze se non affidati alla politica, dobbiamo registrare una carenza di politica. “La politica che non c’è “ dice Viesti nel titolo di un suo bel libro del 2009; o come sottolineava Sebregondi in un appunto sulla Democrazia Diretta già nel 1951, riferendosi alla politica per il Sud ispirata dai cattolici : “In fondo il problema è di trovare il modo di rendere oggettiva nell’azione politica anche l’opera soggettiva ; di portare a un valore ontologico di mutamento di struttura anche l’azione psicologica. I cattolici hanno raggiunto una visione “sociale” sul piano sindacale e sul piano cooperativo, non ancora su quello politico istituzionale. In altri termini, non hanno ancora riconosciuto un’autonomia della teoria e della prassi politica.”
Al Sud, più che altrove, la mancanza di una buona politica ha fatto grandi danni; e non mi riferisco alla cattiva politica delle ruberie e degli affari. Ma all’assenza di una dimensione politica piena, capace di comporre gli interessi in progetti e speranze collettive, di indicare percorsi impegnativi ed insieme credibili, di orientare i comportamenti e di mobilitare. Ed anche di dividere, ma sui grandi obiettivi e non sulla spartizione delle risorse e sulle liste dei disoccupati.
Per questo privilegiare ancora oggi un approccio di tipo economico, sperare di mobilitare le coscienze e di innescare processi di responsabilizzazione collettiva denunciando il divario del PIL, sarebbe un errore imperdonabile. Per questo bisogna introdurre una netta discontinuità nell’approccio al tema: ripartire dal sociale, dalla promozione delle identità comunitarie, dalla ricerca di logiche cooperative tra i soggetti.
E’ un lavoro molto lungo. Ed abituarsi a tempi non brevi è la prima grande discontinuità che la politica deve fare sua.
Di solito riflessioni come questa si concludono con frasi del tipo “Ce la possiamo fare”. La mia conclusione, e mi costa molto ammetterlo, è più preoccupata. Ci stiamo abituando troppo facilmente a considerare ineluttabile il degrado delle nostre città; a scambiare la memoria delle nostre tradizioni positive con la nostalgia di tempi irripetibili; a considerare le cose che funzionano come casuali e non replicabili eccezioni; a ritenere ovvio che la tradizionale solidarietà dei meridionali si appanni progressivamente; a vivere confondendo illusioni e speranze.
Per farcela, per innestare un circolo virtuoso, pur tra mille e mille difficoltà, dovremmo, soprattutto come classi dirigenti, vivere una stagione di grande discontinuità psicologica, culturale, politica: avere piena consapevolezza della gravità della situazione; decidere radicali cambiamenti nei comportamenti individuali e collettivi; ripartire dalle nostre responsabilità.
*Riportiamo gli ultimi due capitoli del volume “L’equivoco del Sud” Laterza, 2013
**Esperto di sviluppo locale e di politiche di promozione di imprenditorialità