Chi se ne intende seriamente – come Oxfam o Legambiente – non è soddisfatto, anche se ammette che ci sono passi in avanti del G20 e del COP 26, specie sulla riforestazione (1000 miliardi di alberi da piantare). Chi teme per il proprio futuro – come Greta Thunberg e le schiere sempre più folte di giovani manifestanti pacificamente al grido “i grandi siamo noi” – vede ancora il baratro avanti a sé e punta l’indice contro la politica sorda, parolaia e inconcludente. Ne ha fatto le spese anche Obama.
Difficile dare addosso a tanto pessimismo, per il quale il gradualismo non è più misura adeguata alla gravità della china presa dal disastro climatico. Finanche il premier britannico Johnson, che è un campione di conservatorismo, ha aperto i lavori del COP 26 urlando che “manca un secondo alla mezzanotte”.
Eppure ha ragione Draghi che ha definito il summit del G20 “un successo”. Per la prima volta, il negazionismo non ha avuto cittadinanza. Si è discusso su “come” e in che “tempi” intervenire; non sul “se”, che finora ha frenato ogni reale cambiamento. E’ ritornata a primeggiare la cultura del multilateralismo come metodo per affrontare il futuro del pianeta, di certo ancora in modo insufficiente e platealmente con qualche riserva eccellente (Putin e Xi alla finestra, Modi terzomondista).
Ma per fare più in fretta e molto di più, la strada è quella della costruzione del consenso. Che può avvenire soltanto se i Paesi che si sono affacciati al benessere in tempi più recenti o sono ancora alla fame siano aiutati dai Paesi di più stagionato sviluppo. Sono questi che devono accelerare i tempi, ben prima di quello indicato (il 2050), per abbattere drasticamente la CO2 da loro prodotta in passato, per dare fiato agli altri e non strozzare le loro aspettative di miglioramento della vita delle loro popolazioni.
La battaglia delle date è tempo perso. Sono così lontane che il loro valore simbolico sfuma rapidamente. Lo recupererebbero se fossero flessibilizzate in ragione delle responsabilità storiche sull’inquinamento. Come ci disse don Milani “non c’è nulla che sia più ingiusto che fare parti uguali tra disuguali”. Tirare una riga uguale per tutti è falso egualitarismo, a scapito delle condizioni sociali più deboli. Per questo, solo fornendo gambe solide al rinato multilateralismo si potrà raddrizzare la barra della cooperazione mondiale. E non sarebbe inutile ridare fiducia al ruolo dell’ONU.
Il “successo”, evocato da Draghi non solo per dovere di ospitalità, riguarda un altro aspetto rimasto in ombra nel G20 e più pubblicizzato nel COP 26. Il ruolo della finanza privata e del capitalismo internazionale. La transizione avrà successo e una sua concreta accelerazione soltanto se la massa di quattrini pubblici che sarà messa in campo, impatterà su un orientamento massiccio e non simbolico (c’è chi è andato a Glasgow dichiarandosi ambientalista soltanto perché aveva spostato il 5% delle disponibilità dei propri Fondi su investimenti ecologici) degli investitori privati a favore degli interventi e dei consumi non inquinanti.
Non è una scelta semplice, ma necessaria. Sia perché riguarderà quote significative di lavoratori da riconvertire a nuovi lavori. Sia perché muta radicalmente le prospettive di localizzazione degli impianti, aprendo potenziali conflitti anche tra Stati. Sia perché richiede investimenti “pazienti”, a redditività spesso differita e in ogni caso non corrispondenti ai canoni della trionfante finanza attuale, che pretende remunerazioni sempre più alte e ravvicinate del capitale investito.
Questo è il capitolo più difficile da declinare. E non solo perché il popolo di Glasgow ha gridato che vorrebbe cambiare la convinzione che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Non basta mettere a disposizione degli imprenditori privati pacchi significativi di incentivi per essere sicuri che la transizione si attui concretamente e in modo socialmente accettabile. Per avvicinarci al nostro più vicino raggio di influenza, ciò che occorrerebbe è almeno una politica industriale europea nelle prime 10 filiere produttive del futuro che si intendono rafforzare a scala mondiale e assicurare un finanziamento speciale tramite un Fondo di Riconversione Ecologico (FRE) gestito dalla Commissione Europea. Il Fondo valida il programma di riconversione della filiera ed entra nel capitale delle aziende coinvolte; ne uscirà ad operazione di riconversione compiuta. Accanto al FRE possono intervenire i Fondi pensione integrativi dei lavoratori e anche altri Fondi privati specializzati negli investimenti ecologici. In questo modo l’obiettivo di realizzare investimenti pazienti e non a redditività speculativa può essere rispettato e consentirebbe di effettuare una transizione al più basso impatto sociale.
Dopo questi due appuntamenti di Roma e di Glasgow, “tempi e come” riuscire a rimanere entro l’1,5 gradi Celsius rappresenteranno un traguardo più credibile non solo agli occhi degli esperti ma anche a quelli delle future generazioni. Se la politica procedesse su questa strada, non solo potremo raggiungerlo, ma otterremmo il risultato che la politica ritorni ad essere scritta con la P maiuscola.